Intervista e foto della prima classificata al concorso fotografico “COMUNItariSMO – pensare è oltrepassare”: Simona Hassan, a cura di Emanuela Rambaldi.
Alla prima classificata del concorso fotografico “COMUNItariSMO – pensare è oltrepassare” dedichiamo uno spazio personale in cui rispondere ad alcune domande per i nostri lettori e in cui proporci alcune sue foto. La prima classificata è Simona Hassan.
Simona Hassan è una fotografa auto-didatta che crede fermamente nel ruolo della fotografia come strumento per raccontare. Solo nel 2014 ha vinto una borsa di studio alla Scuola Romana di Fotografia di Roma e, poco dopo, ha deciso di iniziare un viaggio che ha toccato quasi tutte le regioni italiane per raccontare la vita dei giovani italiani e le realtà lavorative in cui sono immersi. I reportage, perlopiù di ambito sociale, da lei costruiti possono essere letti e visti sul suo sito www.simonahassan.com
Come nascono i tuoi reportage e come è nato quello di Làbas in particolare?
I miei reportage nascono dal bisogno di raccontare qualcosa, che è il senso che do alla fotografia, uno strumento per raccontare, per rendere visibile, attraverso qualcosa di istantaneo – che è l’immagine – di solito accompagnato dall’attenzione e la lentezza delle parole.
La storia di Làbas, in particolare, è una bellissima storia nata in una città altrettanto bella e spietata: questo luogo di vita nato dal basso e scaturito da diversi bisogni si fonda in realtà su quella che è considerata un’azione illegale (l’occupazione di uno spazio pubblico, una ex caserma (Masini) nella fattispecie). Quale paradosso migliore, quale contraddizione più piena e ricca di significato? Le persone si sono riappropriate dei luoghi della città, hanno costruito una comunità attorno a uno spazio lasciato abbandonato per anni e la fanno vivere ogni giorno, hanno dato risposte dove le istituzioni – nella legalità – hanno preferito il silenzio, dove preferiscono un atto di sgombero ancora pendente. La storia di Làbas si intreccia a quelle dei tanti luoghi, fisici e non, di vita e comunità nati nella città di Bologna: l’ex caserma Masini – occupata ormai quattro anni fa – è uno dei tanti spazi che ho voluto raccontare in un reportage – “La Bologna che si muove” – una raccolta di piccole comunità, unite, che resistono e lottano guardando nella stessa direzione: quella dei diritti di tutti, quella del rispetto dell’altro e dell’ambiente, dell’antirazzismo, dell’antifascismo. La storia di Làbas è inserita in un reportage in cui ho inserito tutti quei movimenti bolognesi che per me ancora meritano di essere associati a una parola che per molti risulterà datata: partigiani. E’ la storia, unica, di coloro che resistono, parteggiano, cioè prendono una parte, quella giusta.
In che modo appartieni alla realtà di Làbas e alle altre forme di comunità che compaiono nei tuoi reportage?
Appartengo alle realtà che compaiono nelle mie storie nella misura in cui le attraverso e le sento parte di me: non amo le etichette ed è per me, in generale e per svariati motivi, molto difficile sentirmi parte di qualcosa. Certo è che condivido la direzione e lo sguardo, lo rispetto e lo sostengo e se posso raccontare e dare visibilità a queste realtà e le loro storie attraverso il mio occhio e la macchina fotografica lo faccio con tutta la passione e l’energia che ho. Quando qualcosa nasce dal basso, cresce e si costruisce attorno a un bisogno, a una passione pura, a sguardi e modi sinceri, attraverso l’esigenza e il rispetto dei diritti per tutti allora riuscirai a condividere uno sguardo, un sorriso, un abbraccio e a sentirti forse un piccolo pezzo, ma sicuramente la parte di un tutto immensamente grande: per me tanti dei luoghi in cui sono stata, tante delle persone che ho incontrato significano questo e dopo tanto tempo ho provato in quei luoghi un senso di appartenenza davvero raro.
I tuoi reportage sono testimonianza. Esiste ancora la fotografia che si fa militanza? Le immagini, oltre a mostrare il mondo, lo possono anche cambiare?
Esiste la fotografia che acquista un valore in più e si fa militanza. Esiste nel momento in cui con un’immagine – o più – riesci a trasmettere e raccontare qualcosa. Certo è difficile crederlo perché è sempre più difficile incontrare sguardi attenti e ricettivi, scontrarsi con chi ha voglia di leggere queste storie fotografiche, voglia di informarsi e cambiare il mondo senza farsi immobilizzare, senza rimanere in fin dei conti indifferente. La fotografia può aprire gli occhi, può abbattere le distanze, informare, testimoniare, ma da sola non basta: senza l’unione dei corpi delle persone che resistono e vanno nella stessa direzione non cambia nulla. Perché queste persone esistano deve esserci comunità, deve nascere e crescere una coscienza civile, si deve imparare a vivere davvero insieme, allenarsi a farlo resistendo alla paura dell’altro, all’individualismo diffuso e appiccicoso sbandierato ormai ovunque.
Quante sono state negli ultimi tempi le foto-denuncia, a tema immigrazione o scattate in scenari di guerra, che dopo la prima settimana di scandalo e commozione non hanno lasciato altro che indifferenza e vuoto? Sappiamo ormai tutti che da cinque anni in Siria la popolazione è sistematicamente bombardata e vive in condizioni disumane, ma non ce ne frega niente o non abbiamo gli strumenti per costruire una risposta a questa situazione. Ovviamente non penso sia facile organizzarsi, pensare a un modo razionale che possa condurre verso strade più giuste rispetto ad altre o possa creare delle alternative a un certo stato di cose, ma ormai siamo abituati a tutto, l’immobilità la fa da padrona e le piccole eccezioni – affannosamente belle e fissate o meno in uno scatto – danno forza alcuni giorni, altri no.
Tu non sei solo un’amante della fotografia, ma la pratichi quotidianamente. Un tratto accomuna i servizi classici (matrimoni , cerimonie ecc.) a quelli artistici e documentaristici. Protagonisti sono sempre i corpi, i volti, le persone. Tu li componi nell’immagine e attraverso le loro espressioni, i loro oggetti, i loro abiti, la loro plasticità, si forma il senso della fotografia. Da dove deriva questa attrazione per l’umanità?
Sai che non lo so? Però amo le persone, odio le persone, amo le persone, odio le persone, amo le persone… 🙂
Quanta verità c’è nelle immagini al tempo di photoshop? Esiste ancora un’autenticità della fotografia?
Credo di sì, è chiaro che dipende dal genere di fotografia che si fa. Sicuramente non sono un’esteta nel senso comune del termine, personalmente non amo il foto-ritocco e per la fotografia per come la concepisco io (o almeno quella che da un po’ sento più vicina) – cioè quella che racconta – non credo serva. La bellezza la vedo nelle fotografie che in generale mi (com)muovono, che suscitano in me qualunque cosa, che parlano, che rapiscono il mio sguardo e, anche solo con una parola, raccontano. Ciò che serve quindi non è photoshop, è una storia, breve o lunga che sia: immagini e parole per raccontarla.