Intervista e poesie del secondo classificato al concorso poetico “La paura e la città”: Fabrizio Bregoli, a cura di Emanuela Rambaldi.
Ai primi tre classificati del concorso “La paura e la città” – sezione poesia dedichiamo uno spazio personale in cui rispondere ad alcune domande per i nostri lettori e in cui proporci alcune loro poesie. Il secondo classificato è Fabrizio Bregoli.
Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, lavora a Milano come progettista di sistemi di telecomunicazione.
Ha pubblicato alcuni percorsi poetici fra cui “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015 – Finalista al Premio Caproni) e “Il senso della neve” (Puntoacapo, 2016 – Premio Rodolfo Valentino e Campagnola di Brugine). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante la plaquette “Grandi poeti” (2012).
Per la poesia inedita gli sono stati assegnati, fra gli altri, i Premi San Domenichino, Daniela Cairoli, Giovanni Descalzo, Il Giardino di Babuk de La Recherche, il Premio Dante d’Oro dell’Università Bocconi di Milano, il Premio della Stampa al Città di Acqui Terme.
Sulla sua poesia hanno scritto Tomaso Kemeny, Giuseppe Conte, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari, Paolo Gera, Alessandro Ramberti, Gian Piero Stefanoni, Eleonora Rimolo, Alfredo Rienzi.
Chi è Manfredi? Chi rappresenta?
La figura di Manfredi, il cui nome immediatamente viene associato ad ascendenze letterarie (dantesche) e storiche (normanne), è in realtà ispirata ad una persona reale, trasfigurata in questo personaggio con connotati quasi mitici. E’ una di quelle persone, frutto di conoscenze obbligate che si sarebbero volentieri evitate: solo facendone poesia diventano almeno tollerabili come uomini. E’ il simbolo del ragazzo di provincia, figlio del neopositivismo del millennio debole, che abbandona la propria terra per cercare fortuna (o più spesso sussistenza) nella città-fucina di lavori (o presunti tali). La città lo porta ad essere assorbito nella sua logica straniante, dove ciò che conta è solo tirare le somme dei libri contabili, vestire secondo il galateo del fashion style, essere assoldati nelle ronde anonime della movida-diaspora degli aperitivi seriali. E’ l’uomo che riesce al più ad essere caricatura di se stesso, anche se la sua voce interiore inutilmente lo sprona a rinsavire.
Che disagio esprime?
Esprime il senso della nostra epoca dove ciascuno, nella vita di ogni giorno, è più assorbito dal dovere di vivere secondo un ordine standardizzato ed imposto, che dal diritto di ritagliarsi una propria misura esistenziale, l’eccentricità di un pensiero, la sana devianza di un’azione in controsterzo.
Quale legame ha con la città?
Manfredi è uno dei tanti fantasmi di cui si popola la città, fantasma perché ha definitivamente desistito dal vivere. Ciò che può fare è solo tentare di svanire nel suo nulla, alzare il bavero, osservare se il mocassino è abbastanza lucido, perché l’unica luce di cui vive è appunto la sudditanza alle cose.
E tu?
La città è il necessario con cui confrontarsi, lo spazio dove il lavoro impone di vivere, relazionarsi all’altro. E’ quindi lo spazio delle scelte irrevocabili, della responsabilità individuale. Solo con una forte riscoperta del nostro essere uomini, unici ed irripetibili, si riesce ad evitare di esserne fagocitati, di essere ridotti ad un articolo del suo inventario opaco.
Che rilevanza assumono i temi sociali nel tuo modo di pensare la poesia?
La poesia è lo strumento per interpretare e denudare il mondo. La poesia deve agire sulla nostra coscienza come uno scudiscio che la risollevi dal torpore colpevole in cui la modernità la vuole mettere in cattività. Non esiste poesia che non si confronti con l’altro, con il mondo ed abbia quindi la responsabilità di denunciare l’errore, suggerirne la cura. In fondo la poesia nasce con Omero ed il suo mondo di eroi, a immagine e somiglianza di quel mondo classico e mitico. Oggi è, quasi per contrappasso, l’arma spuntata che ci resta nelle mani in un mondo anti-eroico per antonomasia, in una civiltà che si regge sulle sue ceneri. Troia è caduta, restano le nostre macerie.
***
MANFREDI SUI NAVIGLI
Di come leghi e sciogli tra le pieghe
d’esercizio nodi attorti a bilancio
e compiaciuto dalla rasatura
di quando scuoti con ardore il capo
e scruti dal pertugio delle lenti
i polsini, la cravatta a uncinetto
la sigaretta di calzoni a pelle
che srotoli sul polpaccio, non d’altro
t’assolvi nelle stimmate d’un giorno
che scrolla i rami, ti rovescia pioggia.
Così esiti alla screziatura del bicchiere
dove s’inganna il calco delle labbra
nella solitudine che s’affolla
a imbuto nei pub, se t’investe il vento
remoto di ricordi – la terra dove
le zagare lambiscono vulcani
e il gelsomino trema di rugiada,
lì scioglievano i calzari gli dèi –
Ma rapito tra selve di lampioni
scie di gas, gorghi di tangenziali
mentre il giorno rode fiato all’oblio
l’aspiri nel baleno d’una màrlboro,
Manfredi una volta ancora ésca al guizzo
d’una nuova mail che infuria al telefono
alzi il bavero lisci il mocassino
nell’intrico smarrisci della sera.
*
NEMESI
Scende la sera sera e si confonde
col runore del forno a microonde
(Andrea Zanzotto)
Riordinò con cura le stoviglie
quel catalogo di banchetti sfatti,
sempre un passo indietro dalla riuscita,
la figurina rara o il punto fragola
che mancano, o l’impasto che s’infradicia.
Nella spunta esatta dell’inderogabile
adempimenti – pochi – da concludere
come chiudere le imposte, il rubinetto
del gas, l’interruttore generale
e casomai innescare l’allarme.
A domani interventi straordinari
come mettere a bolla la tavola
che traballa, una lacrima di tinta
per rimediare in corner la ricrescita,
regolare il flusso sodio-potassio.
Così cassò un’altra sera dall’indice
anch’essa trascorsa, nulla d’aggiungere.
Ne svelse le orme e i tralci più sporgenti
prima che vi s’impigliasse una brezza
una scoria d’ostrica, qualche granello
di sale. Vita, o almeno un suo detrito.
*
quando per un segnale incomprensibile
lì nella brulicante commedia
l’azione s’interrompe
(Mario Luzi)
Camminano. Le luci di città
ne secano il poligono di passi,
le mani che s’agguantano alle borse
quel lucido che sembra irrevocabile.
Non parlano. S’addentano al boccaglio
degli impegni, l’ordito dei presunti
inderogabili. Li diresti assorti
o spersi nel solco del loro intatto
conciliabolo di cielo. Di rado un
dettaglio fuori squadro, un sabotaggio
di stelle che stravolgono la bussola,
quando un ignoto scaglia il suo saluto
o un rado sole scortica le nebbie.
Ritorneranno a sera al nudo assito
alle stanze che nel loro vuoto oro
li asserragliano, li domano alla sferza
di qualche imbonitore sullo schermo.
Si toglieranno sciarpe guanti occhiali
costretti all’evidenza d’occhi e volto.
Nel tranello che ne sfalda i contorni
lieti d’arrendersi. Finalmente uomini.
*
concordo punto per punto con le risposte di Fabrizio. Nel suo caso tre poesie bastano a capire che si tratta di un poeta raffinato e potente. Sa costruire un tessuto linguistico fitto di immagini metaforiche, sostenuto da un ritmo senza cadute. Inoltre la sua tematica morale mi è affine.
lette, piaciute per l’acume a anche l’ironia dello sguardo. complimenti alla giuria
Fabrizio Bregoli lavora su una materia calda ( la desolazione e le ipocrisie dei nostri tempi) attraverso una forma fredda. I suoi personaggi- Manfredi ne è un esempio – sono fissati nella realtà da una metrica regolare che evocano gli esempi classici di Parini e di Gozzano, in una notevole capacità sintetica di delineare ritratti sarcastici e quotidiani. Il fatto è che ci siamo allontanati forse per sempre dalla terra del mito e gli dei si sono trasformati in nevrosi: ecco i giovanotti narcisisti imprigionati dalla loro decadenza neodannunziana, imprigionati dai propri specchi, dai riti stanchi di una comunicazione sempre più svuotata e fittizia.
Grazie a tutti (Beppe, Luigi e Paolo e agli altri) per l’attenzione che hanno voluto dedicarmi e per l’apprezzamento dimostrato. Grazie naturalmente anche alla giuria per avermi offerto la possibilità di condividere questi inediti.