Intervista a Giancarlo Stoccoro, a cura di Rosa Pierno.
Giancarlo Stoccoro (Milano 1963) è psichiatra e psicoterapeuta. Oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Studioso di Georg Groddeck, ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia, “Georg Groddeck Una Vita”, di W. Martynkewicz (Il Saggiatore Milano, 2005) e i saggi “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio”,(con scritti inediti di Groddeck e di I. Bachmann e il contributo di autori vari, ADV Lugano, 2016), “Poeti e prosatori alla corte dell’ES” (con il contributo di D. Bisutti, F. Buffoni, M. De Angelis, A. Defilippi, M. G. Calandrone, L. Liberale, F. Loi, F. Mancinelli, U. Piersanti, F. Pusterla, G. Rosadini, F. Serràgnoli, M. Silvera, G. Tesio, AnimaMundi Otranto, 2017). Suo è il primo libro che esplora il cinema associato al Social Dreaming, che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: “Occhi del sogno” (Giovanni Fioriti, Roma 2012).
Ha vinto diversi premi di poesia e pubblicato le sillogi: “Il negozio degli affetti” (Gattomerlino/Superstripes Roma, 2014), “Note di sguardo” (Morellini editore Milano, 2014), “Benché non si sappia che vivere” (alla chiara fonte Lugano, 2015), “Parole a mio nome” (Il Convivio editore, Castiglione di Sicilia, 2016), “Consulente del buio” (con pref. di Giovanni Tesio, L’Erudita Roma, 2017), “Forme d’ombra” (alla chiara fonte Lugano, 2018), “La dimora dello sguardo”, Fara editore 2018), “Prove di arrendevolezza” (Oèdipus Salerno, 2019), “La disciplina degli alberi” (La vita felice Milano, 2019).
Cura i blog ladimoradellosguardo.it e ciaksisogna.it
È uscito in questi giorni il tuo ultimo libro di poesie “La disciplina degli alberi”, edito da La vita felice, nel quale la misura del verso, a tratti, si fa prosastica. Sembra che tu stia, dunque, abbandonando le forme brevissime. Come sta evolvendo la tua poesia? Quali nuove esigenze si profilano all’orizzonte?
Non saprei, per me scrivere non è mai stato facile; forse per questo mi esercito quotidianamente.
Da almeno un decennio coltivo il sogno di scrivere racconti ma finora non si è avverato.
La pagina bianca mi terrorizza, ho bisogno che siano le parole a visitarmi. Nella mia visione le parole hanno un corpo e un’ombra che le accompagna.
Di solito riesco a cogliere solo quest’ultima, per arrivare al corpo non valgono gli appostamenti. Devo essere distratto, devo trovarmi nelle situazioni più impensate: nella metropolitana affollata, alla guida dell’auto, durante una passeggiata, poco prima di spegnere la luce la sera oppure a colazione.
La forma breve o brevissima è quella della parola piena, capace a volte di attendere la penna o la digitazione sul foglio virtuale dello smartphone.
La singola parola mi seduce al punto tale che nella trascrizione successiva su pc tendo a togliere ancora qualcosa. Molto raramente nelle revisioni successive mi capita di aggiungere qualche verso, procedo ancora per sottrazione.
Questo è avvenuto in modo evidente per “Prove di arrendevolezza”, che contiene poesie di anni recenti ma frutto di un lungo lavoro di scalpello rispetto ai testi originari. “La disciplina degli alberi”, viceversa, salvo qualche eccezione, è costituita da testi pronti da tempo che hanno subito meno revisioni. A ciò si aggiunge che l’editore ha scelto di impaginare il materiale mettendo due o tre testi per pagina.
Alcuni temi della tua poetica, il silenzio, l’attesa, l’assenza, la purezza, dominano incontrastati, quasi perni di ogni tua riflessione e sentire…
Sì, sono temi sui quali continuo a tornare, legati a parole “accese” e impenetrabili nella loro essenza, che comunque indicano la strada o gettano un salvagente quando mi trovo ad annaspare in mezzo al mare.
Mi raggiungono con i loro suoni e occupano tutto il mio essere come una litania. Vengono sicuramente da un tempo antico ma sono ospiti quotidiani.
Il silenzio non è solo lo spazio bianco tra due parole o ciò che ci nutre con immagini che non hanno voce ma condizione ineludibile del sogno e della fantasticheria, raggiunge il pensiero prima di ogni sillaba.
L’attesa concima anche la pietra, è ciò che moltiplica il tempo educandoci alla pazienza; l’assenza è un motore inesauribile e intermittente come il cuore.
E la purezza? Una forma d’arte che insegue il suono perfetto, un tratto di personalità che hanno i poeti e chi nella vita ha avuto un arresto di sviluppo.
L’astrazione sembrerebbe essere maggiormente nelle tue corde. Quali poeti senti maggiormente affini?
Il pensiero per me nasce con la poesia, come diceva Alain.
L’autore da cui sono stato folgorato a tredici anni è Giuseppe Ungaretti.
Credo di dovergli molto anche se ho amato e amo tanti altri poeti sui quali mi capita più spesso di tornare.
Col tempo mi riconosco sempre più vicino al suo insegnamento laddove afferma che <<abbiamo da imparare che la poesia è fatta di parole-luce, voglio dire di parole che entrano in noi (…) oserei dire per un effetto di miracolo, e fanno in noi la luce e ci mutano>> e ricorda che <<quando una poesia s’accontenta di nominare un oggetto, essa non ci redime. Il sottile involucro del vocabolo cede alla pressione che designa; com’è solito svanisce appena pronunziato, e ci abbandona alla presenza da cui doveva difenderci>>.
Da una decina d’anni leggo e rileggo Paul Celan che non smette di stupirmi.
Trovo molta consonanza nei suoi “Microliti” che ho ripreso in exergo a diverse mie sillogi. Tra gli innumerevoli spunti di riflessione vi è il riconoscimento che <<non è possibile scrivere una poesia senza una sorta di spaesamento e smarrimento che trascina il poeta verso un nuovo accadere linguistico. Mai si potrebbe scrivere una seconda poesia senza questo nuovo inizio>>.
Condivido appieno le parole di Josif Brodskij sulla composizione di una poesia: uno <<straordinario acceleratore mentale>> che consente di creare connessioni e legami inaspettati; il modo in cui la testa del poeta comincia a funzionare è <<accoppiare, accoppiare, accoppiare>>, per arrivare a scoprire <<le dipendenze, le relazioni intrinseche del linguaggio>>.
Tra i poeti italiani viventi, quelli che risuonano maggiormente nelle mie corde sono o sono stati innanzitutto Milo De Angelis, Franco Loi, Mario Benedetti, Antonella Anedda, Alida Airaghi…
Un’attenzione particolarmente vibrante è quella che riguarda la costante ricerca di dialogo, sempre delusa o rimandata. Gli alberi sembrano, non solo i silenziosi testimoni del tuo sguardo rivolto al mondo, ma anche naturali confidenti…
Si scrive sempre stretti in un solitario abbraccio, nella speranza che l’io possa un giorno divenire il miracolo del tu o del noi. Per dirla con Paul Celan, la poesia è un <<messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione (…) che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari>>.
Sono un cittadino che ha scelto di vivere in campagna. Gli alberi sono i naturali punti di riferimento, coloro che mi danno il benvenuto e mi ospitano nelle lunghe passeggiate padane. Sono loro a sostenere l’ombra quando sono lontano da casa, sono loro a insegnarmi come custodire le radici.
Nel tuo “Prove di arrendevolezza” Oèdipus, 2019, la natura ha una pregnanza più virulenta e il tempo lo si ricava direttamente dall’esperienza nella natura. Anche quello esistenziale…
È vero. Si tratta di una raccolta che sconta un periodo della vita di mezzo nel quale i passaggi di tempo sono stati scanditi quasi solamente dalla ciclicità delle stagioni. Siccome non c’è prova che non sia sottomessa al suo bagaglio, ho cercato di ridurlo al minimo, concentrandomi sull’equilibrio imposto dall’attraversamento dell’unico varco possibile. Il verso testimonia questa vertigine senza anestesia, le ferite senza bagno di sangue, il silenzio incompiuto, le fessure minime.
La tua è una poesia dello sguardo, che tocca, investiga e rivolge la parola, anche in assenza di voce. In questo senso, è una disciplina, poiché osservazione e riflessione coincidono. Ce lo confermi?
Lo sguardo dà vita alle parole, offre loro un volto, le nutre, le gratifica di senso se non basta la voce e il gesto che le accompagna. Richiede dedizione continua, sì rigore e disciplina.
Il tuo lavoro, come psichiatra e psicoterapeuta, sembra essere lontano dalla tua poesia come tema, mentre è vicinissimo per quel che riguarda il tuo studio su alcuni procedimenti mentali ed emotivi, come il sogno e l’inconscio, che poesia e psicoanalisi condividono. Ce ne parli?
I lunghi silenzi nella stanza d’analisi, le libere associazioni, l’attenzione fluttuante, il lavoro sui sogni e con i sogni, la rêverieche trasforma le emozioni grezze in pensieri, sono condizioni che consentono l’accesso alla <<base poetica della mente>> (J. Hillman) favorendo la <<negative capability>>, giàpreconizzata da JohnKeats e poi ripresa ed elaborata da Wilfred Bion che ha rivoluzionato il lavoro di Freud.
Vi è un profondo intreccio, una connessione felice, a mio avviso, tra il lavoro del poeta palombaro (Ungaretti) e lo psicoanalista archeologo (Freud) che si è accentuato negli ultimi anni con il modello bioniano di onirizzazione del lavoro analitico.
Quello che succede durante la seduta, il campo che si crea, il pensiero che prende forma per immagini e scaturisce, nei momenti più fortunati, come un torrente carsico, non è per me diverso dall’esperienza poetica. Non trova dimora in un verso da appuntare sul foglio ma neppure richiede il tempo dilazionato di un lettore per stabilire una relazione col mondo. Svolge una funzione riparatrice e rigenerativa (per quanto possibile), che salva dalla deriva narcisistica autoreferenziale sempre in agguato per chi affonda da solo nelle acque profonde dell’inconscio (che per me resta l’Es groddeckiano, selvaggio e indomabile a differenza di quello civilizzato di Freud).