Io, lei, l’altra Parigi, reportage di Gabriella Montanari.
In francese Parigi è di genere maschile. Le vieux Paris, oh que c’est beau Paris! Eppure l’ho sempre sentita donna e, come tale, vissuta. Femmina con la gonna a pantaloni, d’età indefinita, mensilmente afflitta dal ciclo della Senna, elegante come una vetrina del Faubourg Saint-Honoré, più volgare del rossetto in bocca a una bambina. Città troppo snob per essere metropoli, troppo populista per lasciarsi abbagliare dalle paillettes della gauche caviar. La dissociazione fattasi chiocciola concentrica di avenues e boulevards che si toccano pur non appartenendo agli stessi corpi, alle stesse pelli. Idiomi, preghiere, pietanze, passaporti e redditi che bollono nella medesima pentola, sotto l’occhio ciclopico della Tour. Parigi migliore e peggiore amica, madre e matrigna a cui affidare l’anima, qualunque cosa voglia farne. Vestale dell’amore romantico, entraîneuse che ti spinge a una sveltina in strada. Paris, omofono di scommessa.
La mia sveglia erano i tacchi della vicina del piano di sopra. Nel Marais i vecchi parquets vivono di vita propria e altrui, anche i sospiri scricchiolano. Da pareti e soffitti filtravano la durata delle docce, i movimenti intestinali finiti negli sciacquoni, le risate o i silenzi premonitori dell’indice umorale delle ore a venire.
La colazione era una tappa burrosa alla boulangerie dell’angolo, tutti in fila composta, con le monete già sull’attenti e le baguettes con le estremità amputate dalla battaglia dei denti.
La campanella trillava alle 8 e 20 precise, li osservavo a distanza varcare il portone, intrecciarsi coi compagni di scuola in un saluto di dita agili, a immagine e somiglianza dei rapper di banlieue.
Passavo davanti al quartier generale di Libération, Libé, presidiato da quando l’invasato di turno era entrato a viso scoperto con un fucile da caccia e aveva impallinato la centralinista e uno stagista, prima di farsi incaprettare dai gendarmi. Le rotative avevano già sputato il loro sangue nero, sulla soglia i redattori fumavano Gauloises blu, fabbricate in Polonia.
Da una panchina dello Square du Temple, sorbendo un caffè Illy solo di nome e mai di fatto, mi scorreva davanti agli occhi la Cina, sincopata nel quotidiano tai-chi per matrone menopausate, o nevrotica nell’andirivieni di un ping pong da olimpiade di quartiere. Le parigine correvano, smaltivano, fomentate da chissà quali note capaci di infondere alle falcate, appesantite da generazioni di crème fraiche, la leggiadria del peso forma che fu.
Poi, immune da qualsivoglia senso di colpa per tanto voyeurismo improduttivo, mi avviavo verso l’entrata della metropolitana, Place de la République, per affibbiare a ogni viso e a ogni tenuta un ipotetico profilo professionale, un’improbabile vicenda umana. E anche qui correvano, non per paura di perdere il treno, correvano perché a Parigi chi non corre è tagliato fuori. La città è esigente, competitiva e spietata coi suoi figli. Amorevole coi turisti, pronti al sacrificio pur di sfiorarle le grazie.
Il pranzo era pausa, purché fulminea e multietnica. Per 8 euro i thailandesi globalizzavano sushi e sashimi, per 5 gli indiani veganizzavano il maiale in agrodolce e dal belga Léon la marmitta di moules frites rivaleggiava in iodio coi vassoi dei bar a ostriche. Poi di nuovo metro, bus o marciapiede digestivi e commesse, impiegati, broker e funzionari riprendevano le loro postazioni. Solo i clochards e i sans-papiers non lasciavano mai il loro quadrato di suolo o di fila per non farsi portare via venti centesimi o un minuto di speranza.
Bisognosa di fermare la giostra, il carosello dell’efficienza da PIL, andavo a rifugiarmi nella biblioteca del terzo arrondissement, ricettacolo d’immobilità fisica e di virate mentali. Studentesse e pensionati, pensionate e studenti, distributori di bevande rubamonete, il più nutrito fondo sull’ebraismo. L’ex ghetto, a due passi, mi tentava con la sua pasticceria kosher, il vecchio mercato des Enfants Rouges con il suo tè alla menta. E poi c’era lei, la suonatrice di didgeridoo che imbambolava i piccioni di Beaubourg. Mete meravigliosamente inutili, calamite a prova di noia, miele per l’orsa che si aggirava nel mio bosco di solitudine.
Era tutto parigino il dolce far niente, altro che italiano… Persino quando il frigorifero reclamava la materia prima per la cena. A bordo del monopattino entravo da Monoprix, rue du Temple, con il sacco di cotone riciclato e la carta di fedeltà. Fedeltà a un supermercato e alle sue promozioni settimanali, forse l’unica davvero possibile. Spiavo chi cambiava idea sul fois gras e ne lasciava il barattolo orfano tra i cavoletti di Bruxelles; esaminavo il contenuto dei carrelli alle casse, tirando frettolose equazioni tra appetiti alimentari e sessuali. Preconfezionato, precotto, surgelato. Veloce, meccanico, al buio.
La campanella risuonava alle 18 e per strada s’incrociavano i ritorni, s’illuminavano i bi e trilocali familiari, restavano spenti i mono per single. E si scavava il fossato tra chi a Parigi prepara la cena e chi a Parigi va fuori a cena. Però poi, lasciato alla lavastoviglie il lavoro sporco, ad accogliermi c’erano il balcone, una sigaretta clandestina e un cielo gonfio di infinite possibilità. Come ascoltare Houellebecq alla Fnac, fare la posta a Beigbeder davanti alla sua abitazione di rue Mazarine, scorgere da dietro le grate le pareti nere del salone di Gainsbourg, mescolarsi con le militanti di Femen nel corteo in favore del matrimonio gay, scampare alle bande di periferia durante un semaforo notturno troppo lungo. Chiudevo la finestra, fiduciosa di ritrovare, l’indomani mattina, l’impasto della nuova giornata lievitato a mio gusto.
Il carillon per la notte erano i tacchi della vicina del piano di sopra. Doveva perlustrare l’oscurità, infiltratasi nel suo attico, prima di decidersi a sfilarli e concedere loro, a me, il meritato riposo.
Mi addormentavo e, in sogno, mi appariva una donna di classe, dai modi affabili, generosa al punto da offrirmi il suo intero guardaroba per vestire ogni stagione della mia seconda pelle. Portava in testa una cupola dorata, il collo era lungo, gli occhi senza iride. Ripeteva il suo nome, Lutezia.
Queste eravamo io e lei.
Poi c’era l’altra Parigi. Quella dell’Eliseo, della Défense, del TG delle 20 su TF1, quella che mi ha concesso la nazionalità ma non mi ha preso il cuore. Quella di Notre-Dame, di Montmarte, di Pigalle, del Louvre, del Père Lachaise, dei bateaux- mouches, di Chez Maxime’s, quella da cui fuggire.
Oggi, mentre calpesto il suolo africano di una ex colonia francese, per la quale Parigi è stata e resta un miraggio, sento che la distanza che ci separa è fatta solo di acqua salata, deserto e cime innevate. I pensieri conoscono la strada e praticano la riconoscenza.
Guardo il mio cadetto, figlio a tutti gli effetti di quella donna che in sogno, come un mantra, mi ripeteva il suo nome e mi chiedo chi di noi due lo abbia partorito. Ricordo che prendeva sonno quando gli cantavo la Piaf. Il mio «Chevalier de Paris». La sua ville en rose.
Sei bravissima Gabriella! Letto tutto d’un fiato…
Ma sai che anche a me è uscito tutto di un botto, come uno starnuto? E mentre mi soffiavo il naso, nel rileggere, mi sono anche emozionata… Eh… questa Parigi ladra di cuori… Un abbraccio, cara, grazie.
Molto bello, molto originale, molto stimolante – come chi lo ha scritto.
Roberto, pare tu stia descrivendo Parigi, sono gli aggettivi giusti. Grazie da parte mia e del racconto.
nelle tue righe ritrovo la Parigi che amo di un amore totale, la “mia” Parigi delle mete inutili…
Credo ci si leghi a una città quando la si prende in toto, anche con i suoi angoli bui e sporchi, con i suoi luoghi inutili ma che le conferiscono anima. Un po’ come quando ci si affeziona anche ai difetti di una persona a cui si vuole davvero bene.