La casa che non c’è, di Cristina Annino.
Quando ero estremamente giovane, nell’entusiasmo eccessivo della giovinezza, formulavo spesso una riflessione tipo “Starmene qui e non sapere cosa facciano in questa precisa ora gli abitanti della Papuasia mi sembra un vero e proprio assassinio culturale”. E così pensavo sognando altre lontane parti geografiche.
Di volta in volta i motivi potevano essere importanti o semplicemente volubili, fatto sta che essi erano sempre uniti al sentimento contrario di un’afflizione o meglio di una perdita. Di ciò che ritenevo anche allora rappresentasse un pacificato senso dell’esistenza.
In tanti anni, sono ovviamente cambiati i modi di conoscenza del mondo, il mondo stesso e la nostra intelligenza anche tecnologica, la mia età e le sue componenti emotive. La Papuasia è rimasta solo il simbolo, le mie inquietudini hanno ristretto o banalizzato i loro margini. Comunque, ripensandoci adesso, potrei vedere in questo strano desiderio e soprattutto nella sua formulazione, il mio primo segnale di un concetto abitativo, di come esso non possa realizzarsi come spazio reale e fisso. Ogni desiderio non è infatti slegabile da ciò che lo nutre: cambiamento e contraddizione.
Ammetto che ho amato sempre qualsiasi abitazione in cui sono vissuta, tuttavia una volta sostituta, non ne ho più avuto nostalgia. Ogni alloggio, anche adesso, mi va bene tanto da non concepire altro panorama (esterno), se se non la cinta di quei muri entro cui abito. Continuano però le due forze opposte dello stare qui e del movimento verso altro.
Spinte contraddittorie e per me tuttora inspiegabili se considero che da sempre, per quanto riguarda soprattutto il mio lavoro di artista, non riuscirei a scrivere, e neppure ad esprimere un qualsiasi concetto creativo, se non chiusa dentro i muri di una stanza.
Devo aggiungere che mi piace osservare le case da fuori, immaginando la vita di chi le abita. Mi capita di osservare, in certi passaggi del treno, gli oggetti d’uso quotidiano che riesco a vedere sui vari terrazzi o ciò che si distingue appena dai vetri aperti e illuminati. Amo le case abbandonate, quelle stanze costruite per uno scopo preciso. Mi incuriosiscono le abitazioni anonime, i grandi e squallidi fabbricati accanto alla ferrovia, giacché le case povere mi sembrano più ricche di vita rispetto a quelle lussuose.
Ammetto perciò che abitare rappresenti per me di volta in volta solo un desiderio, quasi desiderassi la Casa come se io non ne potessi mai averne una. E credo che per questo il mio solo paesaggio, in poesia, siano i muri, corridoi, i pezzi che compongono le varie stanze. Il mio affetto verso questi è tale da renderli superiori al paesaggio effettivo che sposto dentro di essi-ovviamente nella visione lirica. Così ché la casa viene popolata impropriamente da alberi, palme, vento e pioggia, ecc.
La mia territorialità reale è pertanto molto esigua rispetto a quella mentale. Se è vero che non ho mai sentito un rapporto di appartenenza reciproca (attribuendo anche ai muri una loro identità ) con ogni abitazione, è ugualmente vero che ho invidiato e desiderate moltissime di quelle case estranee appena intraviste. Tuttavia concepire un’abitazione nel senso di continuità mi parrebbe un limite allo scorrere giusto della vita e al bisogno altrettanto giusto perché vitale, di occupare spazi nuovi. Ogni sedentarietà significherebbe quindi la Fine di una conoscenza minima, certo, ma la quale ingigantisce riferita al movimento di opposizione statica e prevedibile della morte.
Cambiando una residenza con un’altra, alla prima non resta nulla di me, né rimpianti né ricordi. Mi porto tutto dietro e in maniera precaria. I ricordi si tramutano in conoscenza e risiedono dovunque vada, il dolore viene lenito dalla spazialità di un futuro nel cambiamento, dal precario nascosto nelle avvenimenti, appunto. Ne consegue che ogni stato emotivo mi segue al pari degli animali con i quali convivo al momento. Ogni spostamento non è nomadismo, lo definirei un passaggio metafisico, per cui ogni proprietà fisica risulta secondaria o addirittura nulla.
Potrei concludere allora che porto soltanto nella mia testa una percezione reale della Casa e che non saprei immaginare un altro luogo dove far vivere le infinite proiezioni del mio io. Infatti il paesaggio tradizionalmente inteso, nelle mie composizioni poetiche ripeto, è di volta in volta sostituito dagli elementi che compongono le varie stanze (oggetti d’uso, mobili, sedie, corridoi, armadi…) Ogni senso eventuale di dramma o del suo contrario si forma lì, circoscritto, contenuto da una folla di oggetti e da un’architettura immaginaria che possiamo chiamare abitazione, ma che effettivamente non lo è. In quanto transitoria, appartenente a un movimento che mi auguro ancora lungo o per lo meno imprevedibile quanto la vita e la sua conclusione.
Posso spiegarmi solo in questo modo: ogni dimora è il centro del mio organismo, le stanze sono il procedere del mio corpo e così via…
DIVAGAZIONE CON FUOCO
Cos’è questo
chinarsi, non essere
degni, avere paura sempre? E’ come
dalla finestra quando
vola la casa in fiamme, tirata in
cielo con funi roventi. Quaggiù
stiamo bene, giochiamo a dama, si
cucina l’orto pappando ghiande. Perché
allora, se brucia la casa, ti metti in
ginocchio, chiedi scusa, ti penti? Un
fiume, una schiuma triste perché
pensi saremo soli. Come
capre. Ma quando l’hai viste
mai loro? Quel freddo
abbandono in cucina è vero, la
casa va a fuoco, sì, Soledad. Ma ci
pensi a una capra? Una. Più
leggera dell’oro fuso, nella
manzana dici tu, nell’intero quartiere
che fuma. Lei rigata da zebra sta
zitta e cammina in piedi, finché
si consuma.
***
Coniugale
S’opponeva, lui, si metteva in mezzo
alla via, la verità, la vita. Lui stava
uccidendo con le gambe. Un tale evento su
per i corridoi con le piante d’armadi, per le
stanze e i tramonti; a manciate il vento
nel bagno, sul tiepido bidè, l’asciugamano. Si
staccava
la parete dal bianco, colore su colore. Lei,
finalmente,
gli vide il suo
odore, peso, generalità, anche
l’anello di brillanti – ché un uomo è già
mille pezzi –, poi gli anni che Dio le avrebbe
dato ancora personalmente, uno via l’altro, quasi
passandole tegami. Allora
finì. Fatto sta che finì di schianto come floppa
la musica anche quando è divina, una
fuga di Bach per esempio. Finì il caldo
e la gloria, il quadrato e la pioggia con la
madre. E tutto il passato di
verdure dentro.

in fin dei conti non siamo mai soddisfatti, ovunque siamo