La casa dell’eco, editoriale di Valerio Magrelli

La casa dell’eco, editoriale di Valerio Magrelli.

     

     

 

Mio padre era ingegnere. E’ questo il lavoro che avrei dovuto abbracciare, e che invece ho rifiutato. Il testo che segue, perciò, va inteso come una sorta di ex voto. In certo senso, lo scrissi per tentare di legare il mio presente a quel futuro negato, a quel passato cassato. Vedevo la poesia come un manufatto. Ho cominciato da qui, verso il 1975, con una serie di testi da cui nacque Ora serrata retinae:

Bisognerebbe fare alla fine d’ogni libro
una piantina. Non un indice, piuttosto
una planimetria delle sue parti,
descrivendo le fondamenta,
i suoi diversi accessi, le stanze,
i servizi e i disimpegni.
Bisognerebbe precisarne anche
la capienza ed i costi, spiegando
l’ammontare della manutenzione nel tempo.
Svelare così l’ossatura del cantiere,
le sue membra nascoste
dal paramento della pagina.
Soprattutto sapere: quale
e quanto il materiale
(legname, pietre, tubature, cemento)?

Ma non è tutto. Molti anni più tardi, intorno al 1992, ho pubblicato una poesia per certi aspetti simile alla precedente. Si intitolava Parlano, e uscì nella raccolta Esercizi di tiptologia:

C’è intorno una tale quiete che quasi
si può udire il tintinnare di un
cucchiaino che cade in Finlandia

Iosip Brodskij

    

Ma perché sempre dietro la mia parete?
Sempre dietro, le voci, sempre
quando scende la notte iniziano
a parlare, latrano o addirittura credono
che sussurrare sia meglio. (Mentre mi sento
questo filo d’aria fredda delle loro parole
che mi gela, che mi lega
e mi tormenta nel sonno).
Ai confini del circolo polare
una coppia piangeva nella sua stanza
oltre un muro trasparente, piangeva, luminoso,
tenero come fosse la membrana di un timpano.
(Mentre io vibravo, cassa
armonica della loro storia). Fino a che a casa mia
hanno rifatto il tetto, le tubature,
la facciata, tutto, e battevano
ovunque, sopra, sotto, e battevano sempre
chiacchierando tra loro solo quando dormivo,
solo perché dormivo,
soltanto perché fossi cassa armonica
delle loro storie.

Un lungo periodo separa i due testi. Cosa è cambiato nell’intervallo tra l’uno e l’altro? Innanzitutto la casa nella quale furono composti, e dunque di cui narrano. Le due poesie, cioè, non solo parlano di luoghi diversi, ma ne parlano da luoghi diversi. Poi c’è l’autore. Come un lunghissimo brivido, miliardi di cellule si sono succedute, onda su onda, fino a sostituire integralmente il materiale da cui sono composto. E tutto così gradualmente, e tutto così dolcemente, da conservare pressoché immutata l’ansa che andavano via via colmando di sé.
Adesso, a quasi quarant’anni di distanza, Ora serrata retinae mi appare, in certi casi, come il libro di un’altra persona. Ero davvero io, a scrivere quei versi? D’altronde, se il nostro corpo cambia le proprie cellule ogni sette anni, allora di persone devono esserne trascorse più di quattro. Con un paio di loro, continuo tutt’ora a intrettenere buoni rapporti. Una, però, sto ormai perdendola di vista. Io stesso, quindi, costituisco il medesimo testo del passato, ma nutrito di lettere nuove, di sillabe alterate. Penso a un esercito nel vivo della battaglia (quelle geometriche formazioni di fanterie settecentesche dove nuovi rincalzi subentravano immediatamente a chi cadeva), o anche a un abito rattoppato con la sua stessa stoffa (una tra le mirabili definizioni che Saussure diede della lingua). Noi siamo figure in guerra col tempo. Noi siamo rammendi visibili, come scrissi in una poesia apparsa nella stessa raccolta della precedente:

E’ la spola dei versi
il telaio del male
il zig-zag sorridente
dei punti di sutura.
Se il mondo è un panno zuppo
imbevuto di morte
cucilo dolcemente
non lo stringere
non fare fuoriuscire la sostanza
che lo tiene allacciato
trattieni il fiato
fai passare il filo
lega se puoi quell’acqua
al rammendo visibile
che mi sciupa la giacca.

Ma torniamo ai nostri due testi iniziali: se entrambi, come il loro autore, formano un solo corpo, in cosa è consistita la loro trasformazione? Nella prima, il libro è visto come un edificio; nella seconda, l’edificio diventa strumento musicale, o meglio, fodera della voce.
Poi, ecco cosa ho trovato in Moby Dick. La pagina cui mi riferisco si apre con questa osservazione: “Il motivo per cui il becchino faceva musica doveva essere che non ce n’era nella sua vanga, signore. Il martello del calafato invece ne è pieno. Ascoltate!” – cui fa seguito la terribile replica: “Già, ed è perché il coperchio fa da cassa armonica; e ciò che sempre fa da cassa armonica è questo, il niente che c’è sotto”.
Qui il punto di partenza è costituito dal confronto fra la bara (su cui batte la vanga del becchino) e lo scafo (su cui picchia il martello del calafato), tanto simili per forma e materiale, quanto diversi per abitanti e destinazione: la salma da un lato, i marinai dall’altro. Così, il passo di Melville ha illuminato retrospettivamente i miei due testi. Per questo, rileggendoli come elementi di uno stesso organismo, mi viene in mente di concludere con una terza lirica, sempre da Esercizi di tiptologia, che recita:

Lezione di metrica

Un pettine d’acciaio fila
le note, sfila
una musica dolce di zucchero
filato. Come un incantatore
di serpenti incantato
mi ipnotizza la lingua
del suono che si srotola
mentre i denti di ferro,
il rosario di uncini,
strappano questa carne
da scortico, e sbranato
sta il cuore di chi ascolta.
Qui suonano il mio cuore!
Vezzo e lezzo. Rotto l’involucro
con la ballerina, il carillon si arresta
perché il cattivo gusto
è il suo buon guscio armonico,
l’astuccio per la perla
matta della leziosità. Notte.
Il violino di Frankenstein mi chiama.
E io sono quel mostro musicale
condannato alla ruota musicale
della sua musicale nostalgia.

Sarei tentato di intitolare questa possibile trilogia Il niente che c’è sotto, ovvero Il niente che suona. L’immagine della casa-libro e quella della casa-carillon mi sembrano infatti tessere un elogio della cassa di risonanza e del suo “buon guscio armonico”. Guscio come custodia del niente musicale, quel niente che consente di accogliere il suono. E’ la casa dell’eco. L’ultimo testo, piccola ars poetica, nasce insomma sulla scia di un progetto in parte inconsapevole, ma costante e continuo attraverso le sue trasformazioni. Perché, potremmo dire, il testo è asimmetrico, al pari del suo autore: si sa dove comincia, ma non dove finisce.

                       

Martina Dalla Stella, 'Nosotros los de entonces ya no somos los mismos' (P.Neruda), olio su tela, 2011
Martina Dalla Stella, ‘Nosotros los de entonces ya no somos los mismos’ (P.Neruda), olio su tela, 2011

7 thoughts on “La casa dell’eco, editoriale di Valerio Magrelli”

  1. Caro Valerio, stavo per scriverti una mail ma vedendo Versante Ripido guardo chi c’è. Subito ti noto con un editoriale. Non aspettando un editoriale di questa categoria ho letto proprio con interesse i tuoi commenti alle tue poesie. Come al solito trovo intelligenza spirito e sottile ironia. Questa mia semplice nota è per dirti che sono anche molto contento che tu sia un autore in questo sito ben organizzato. La mia miserabile vista non riesce a leggere a lungo ma un pezzo o due al giorno ce la farà a leggere quasi tutto. Arriverò alla tua mailbox tra un paio di giorni. Ciao.
    Alfredo

  2. Questa è una risposta devastante, involontaria, ai finti critici letterari (illetterati) che affermano Magrelli scrivere solo banalità. L’ironia vince sempre.

  3. Il testo di Magrelli, con le sue immagini metaforiche, mi pare soprattutto una bellissima riflessione sulla condizione ontologica dello scrittore. Case e navi. Una storia della poesia potrebbe ben svilupparsi tra questi due spazi evocativi, che delimitano la pratica quotidiano dello scrivere e lo slancio dell’immaginazione: la casa dell’esilio volontario di Emily Dickinson, il “ paterno ostello” di Leopardi e dall’altra parte le navi glaciali di Coleridge e il “Bateau ivre” di Rimbaud. O ancora più indietro: “ o cameretta che già fosti un porto” di Petrarca e il giovane Dante che trova rifugio nella stanza alle complicazioni dell’amore per Beatrice , per far poi ripartire nella scrittura dei sonetti la navicella dell’ingegno. O ancora più indietro: i viaggi in mare aperto di Odisseo e la nostalgia dello spazio quotidiano di Itaca. La casa-carillon con la sua ripetitiva risonanza armonica potrebbe essere metafora della routine generatrice di senso della scrittura che si oppone alla routine quotidiana come immagine del vuoto esistenziale. Quando nella nostra camera proviamo a richiamare l’ispirazione è un battere sulla bara per richiamare dal nulla la forza rigeneratrice dei versi. A quel punto si salpa, lasciando dietro le inutili terre note, con il pericolo che il nulla rigetti non immagini che abbiano catturato la profondità e il nostro vero sentire, ma relitti inutili, resti non significativi. Il gesto di cancellare il già scritto con un groviglio di inchiostro è l’evocazione di una tempesta che dovrà inabissare ciò che dopo una ricerca anche lunga non ci ha soddisfatto, non ci ha centrato. Quello che non cancelliamo e che rimane emerso ritorna nella stanza con noi come memoria della navigazione o addirittura come una circoscrizione di libertà, un’isola che c’è, su cui anche altri ora possono sbarcare attraverso la lettura e l’immedesimazione.

  4. Hei, Ivan, che .azzo dici! Sai bene che io non mi vanto di essere un finto critico letterario (illetterato), sono convinto di non essere un critico letterario. Mi manca il linguaggio e la disciplina che tu invreve “provi” di avere. Questo vantaggio avrò il piacere di lasciarlo a te quando darai le prove di aver raggiunto la realtà del 21mo secolo. Ti saluto.

    1. Carissimo Alfredo, non mi riferivo a te, figuriamoci. Sostenevo che chi definisce «banalità» versi e weltanschauung di Valerio Magrelli è un critico letterario imbruttito. Fortunatamente, entrambi noi, non abbiamo alcun desiderio di essere critici letterari! Ho cercato di scriverti via email molte volte: l’email non arriva, e torna indietro. [Comunque conto di arrivare al XX^ secolo]. un abbraccio Ivan

      1. Caro gentile Ivan, al caro aggiungo gentile perché qualche volta lo sei. Io sono anche amico di Valerio Magrelli e lo stimo anche come autore, e difendo come e quanto posso la sua poetica in generale che un lettore, ammetto come me, dovrebbe sentire o trovare poesia anche nel suo lavoro che io definisco poesia in prosa. Se non è così per lettori e critici mi permetto di definirli ignoranti.
        Tu menzioni “banalità”. Ivan, ho scoperto che la globale popolazione antropoide è banale, e la stragrande maggioranza dei cosiddetti poeti soprattutto italiani è banale in persona e nelle opere. Centinaia di quoti poeti, sono fisicamente e cerebralmente così banali che non sanno altro che versificare banalità. Un’arte all’opposto è quella di Magrelli,. Poniamo che il poeta Magrelli abbia ultimamente sbandieriato anche poesia scomoda di banalità quotidiane, in versi veloci, uno dopo l’altro, e detti ad arte con materiali del 21mo secolo, Ha un senso ben diverso da quello che scrivono banalmente i banali. Spero di aver chiarito un po’ la differenza che si trova tra le centinaia di poeti banali e uno dei rari poeti artisti quale è Valerio Magrelli. Ivan, sei un giovane intelligente e colto, soffermati a ragionare
        meglio di me sulla banalità globale d’oggi per arriverai ad apprezzare il poeta in discussione. Un abbraccio. Afredo

        1. Caro alfredo, sono contento che tu definisca ignorante un critico che ritiene Magrelli banale. Quando lo risenti, tale ignorante, salutamelo caramente. Noi siamo sulla stessa linea d’onda! Un abbraccio ivan

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