La figura del poeta. Tre domande a Ennio Abate.
Sul tema “Chi è il poeta?” abbiamo sottoposto alcune domande, le stesse per tutti per poter confrontare i punti di vista e stimolare un dibattito, ad alcuni poeti. Le domande sono:
1) Perché il pubblico dovrebbe cercare e amare le tue poesie?
2) Tra stereotipi e marginalità: come si colloca la figura del poeta nell’attuale situazione culturale italiana?
3) Esistono strade per recuperare quella rilevanza che in altri paesi al poeta viene riconosciuta?
Abbiamo anche chiesto un contributo poetico a tema per concludere la mini-intervista.
Vi lasciamo in questo articolo con le risposte e i versi di Ennio Abate.
Perché il pubblico dovrebbe cercare e amare le tue poesie?
Addirittura? Non è possibile! Oggi non esiste un pubblico che potrebbe cercare o amare le mie poesie. Che sono quelle di un quasi sconosciuto. Com’è noto, l’attuale pubblico della poesia, che si ritrova per questa o quella presentazione, è fatto in sostanza dagli amici degli autori presentati o da altri poeti o scriventi versi. È davvero uno strano pubblico. Infatti poco si distingue dagli autori. I quali, a loro volta, faticano a distinguersi dal pubblico. Con effetti paradossali e a volte grotteschi. Perché in un giro vieni considerato poeta. In altri sei nulla o devi fingerti (per compiacenza o per far numero) pubblico. Siamo, in effetti, molti a scrivere e pubblicare poesie. Alcuni dicono troppi. E, tra le altre cose, anche la distinzione tra poeta e pubblico, che aveva vantaggi e difetti, è saltata. È arduo per i lettori e i critici seri orientarsi o dar conto di una produzione caotica. È come scegliere in una folla in movimento. Ci si può invaghire per un po’ di quello/a che ci capita a tiro, ma «amare»? Ci vorrebbero condizioni oggi inesistenti. Ad esempio, bisognerebbe saper separare il grano dal loglio. Non mi pare ci siano in giro né luoghi né strumenti critici in grado di frenare una cieca e affannosa rincorsa ad una equivoca e individualistica visibilità dei moltinpoesia. Siamo trascinati in una sgomitante, defatigante e ridicola struggle for life per ottenere un dubbio riconoscimento dalle minicorporazioni accademico-universitarie-editoriali sopravvissute alla deflagrazione sessantottina delle «patrie lettere». Per minimo igiene morale bisognerebbe innanzitutto riconoscersi, appunto, molti in poesia, trarne le conseguenze etiche e politiche, assumersi la responsabilità di operare in questa dimensione di massa ed evitare di scimmiottare i grandi poeti o i gruppi letterari del passato. Per me un reale pubblico poetico-politico è da venire. Quello di adesso è un surrogato.
Tra stereotipi e marginalità: come si colloca la figura del poeta nell’attuale situazione culturale italiana?
Non esiste più «la figura del poeta». Essa era possibile in presenza di una societas letteraria nazionale, sia pur percorsa da una dialettica o da contrasti ideali ben strutturati che permettevano di parlare di movimenti o di tendenze (futurismo, ermetismo, sperimentalismo, neoavanguardia). Dopo gli anni Settanta del Novecento esistono, invece, i molti in poesia, una nebulosa poetante che deve riconoscersi, capirsi, uscire dall’infantilismo euforico postmoderno. Essa avrebbe bisogno di una critica (o anche auto-critica) forte, capace di riproporre problemi fondamentali (perché, per chi e come scrivere poesie?). Trova di fronte a sé, invece, il massimo degrado delle istituzioni culturali, in primis della scuola e dell’università. I singoli aspiranti poeti, poi, non operano più in una situazione culturale italiana, cioè nazionale, ma in un caos della comunicazione globalizzata, dove hanno la meglio i modelli americanizzanti (beat, underground, ecc.). La memoria dei modelli umanistici è saltata. Da qui il facile assorbimento degli stereotipi postmoderni o, al massimo, il tentativo di riproporre come “classica” la produzione delle neoavanguardie ( vedi Alfabeta 2). Oppure la scelta di una disperata o consapevole marginalità (alcune riviste alla macchia, alcuni siti e blog appartati). Oscilliamo pericolosamente tra catastrofismo (Majorino che ha parlato di «dittatura dell’ignoranza») e elogio dell’esistente, cioè dell’imbarbarimento da mass media (vedi Balicco).
Esistono strade per recuperare quella rilevanza che in altri paesi al poeta viene riconosciuta?
Per ragioni materiali ed esistenziali ho potuto viaggiare poco; e valuto la situazione della poesia in altri paesi sulla base di informazioni scarse e di riporto. Mi limito perciò a un’impressione del tutto soggettiva: temo che in altri paesi non si abbia una situazione migliore o diversa da quella italiana. Lo dico in base a una considerazione che non riguarda direttamente la poesia, ma il contesto storico in cui essa viene a trovarsi. La cappa capitalistico-americanizzante è opprimente dappertutto. E in Europa nessuna risposta, né di movimento né di élite, si è veramente delineata. Ci si dibatte tra un europeismo sempre più tiepido, smentito dai fatti e dagli scandali, e rigurgiti “sovranisti” (ipotesi di uscita dall’euro, dall’Europa) o “populistici”. In altri Paesi, che hanno avuto esperienze socialdemocratiche significative e non effimere come da noi in Italia, per i poeti ci saranno pure più spazi, meno necessità di sgomitamenti, forse più civiltà nei rapporti personali, ma credo che anche per loro si tratti di una rendita di posizione in calando. Sui problemi fondamentali (a cui accennavo nella risposta 2) anche altrove c’è forse solo un epigonismo più dignitoso di quello affannoso e isterico che viviamo in Italia. Poi, chissà, spero che negli interstizi di questo tempo terribile ci siano figure che, sfuggite alla napalmizzazione mediatica, stiano aprendo varchi per una vera ripresa.
***
Samizdat?
Mezzora al mattino,
i sensi svegli – oplà, piegamento! – ed elastici;
mezzora costruito tardi a sera,
occhi già mortificati dal buio.
Questo è spazio samizdat.
Già inventato a volte.
Con l’augurio che ancora s’inventi.
Che l’inventi io?
Che da sé s’inventi?
Se samizdat è uno spazio,
dico, subito dopo, che può essere altro:
un personaggio-maschera,
un io-maschera,
una informe, plurale maschera di parole
d’angosce e speranze in utopese.
Questo dico io,
che sono il corpo di samizdat-maschera,
che lo sorreggo e levo in piedi,
lo proteggo e coccolo;
e con lui mi confondo,
che proprio non è un lui,
passante svanito dalla finestra
verso il metrò.
Comunque,
lo mando avanti nel futuro buio
e gli sussurro: datti da fare! cambia!
O me lo metto in tasca, un amuleto,
appena sento i suoli sprofondati
del passato, gli avvolgimenti
materni lì annidati.
Io, complice suo.
Lui, mio futuro possibile.
Né fratello, né tanto
maestro o amico:
un me stesso,
proiettato, giocato in un noi stessi
in seria, forse, simulazione
contro il piattume, che mi, e ci,
fa
anonimi malati, sezionati
in scuole e camere da letto,
in ospedali, obitori e ghetti di tortura.
Io, burattino dolente, o lui?
Ché, se avessi un bell’io solido,
pettinato nei ricordi,
prosciugato nell’eloquio,
respiratore di buoni venti,
non finirei in un samizdat
tanto oscuro e ignoto,
spesso perseguitato,
politico o pulito,
vinto quasi sempre, ombroso corpo,
spesso ridotto a carta,
parola sulla carta,
che non sta più coi corpi,
dimenticato sogno,
avvinghiato a bassifondi,
discorso sfrangiato,
che mai rientra in libro,
perenne immigrato, scostato
dai servi in livrea,
prostituto sporco,
lacrimoso bambino,
eccetera.
(2003 – Da Prof Samizdat, 2006)
L’ha ribloggato su POESIA E MOLTINPOESIA.
Io, burattino dolente, o lui?
Ché, se avessi un bell’io solido,
pettinato nei ricordi,
prosciugato nell’eloquio,
respiratore di buoni venti,
non finirei in un samizdat
tanto oscuro e ignoto,
spesso perseguitato,
politico o pulito,
vinto quasi sempre, ombroso corpo,
spesso ridotto a carta,
parola sulla carta,
che non sta più coi corpi,
dimenticato sogno,
avvinghiato a bassifondi,
discorso sfrangiato,
che mai rientra in libro,
perenne immigrato, scostato
dai servi in livrea,
prostituto sporco,
lacrimoso bambino,
eccetera.
Qui c’è tutto quel tutto : Poesia, politica ,umanità e….(permettimelo)amore nascosto dentro la tua carta ,che fuori da te arriva a noi e ci fa del bene.
Grazie
Scusate per chi non avesse letto il post di Abate i versi che ho qui sopra riportati sono di Ennio Abate,
Ho imparato a scrivere nel 1992 e non ho più smesso.
Non so, se sia bene o male e non so se la mia scrittura abbia o meno valore letterario.
Nel caos è più difficile trovare modelli, punti di riferimento e concordo a pieno con la descrizione di Ennio Abate sullo stato della poesia e del “poeta”.
Il disordine non è solo nella poesia in sé ma anche in chi dovrebbe promuoverla: le case editrici indicono spesso concorsi letterari poco seri, volti al lucro, più che a una selezione qualitativa delle opere.
La mia prima pubblicazione, è uscita a Istanbul, in lingua turca.