La guala e il fiume Ipoh, di Lucia Cupertino, con una poesia di Bárbara Belloc.
La guala è un mezzo di locomozione colombiano in via d’estinzione, ne prendo una per raggiungere i Farallones di Cali, mi farà ascendere dai circa 1000m della città fino a quota 1700. Consiste di un camioncino con striminziti sedili ai due lati e un banchetto di legno per il passeggero in più che non riesca ad accaparrarsi un posto ordinario. Per il mio occhio potrebbero entrarci quattro persone, quando partiamo ne conto dodici, includendo l’autista. Non avevo certo calcolato che un paio di posti fossero, per così dire, aerei, vedo due ragazzini aggrapparsi forte e penzolare all’esterno ad ogni curva. E tutto un gioco di freni e clacson in punti in cui la salita si fa decisamente ripida.
Dopo uno di questi non proprio ancestrali suoni lanciati dalla guala, ci ritroviamo ad una curva e nel mezzo di un cicaleccio intenso e persistente si stacca una voce. Il fiume è in secca, dice. É una donna, seduta al mio fianco, volge il suo sguardo alle sue spalle scuotendo appena la sua coda di un rosso non naturale. Non me n’ero accorta, coperta dal nugolo di passeggeri. Alle spalle c’era un ponte che sarebbe dovuto passare su di un fiume. Lo scorgo appena, adesso. Il río Pance in questo punto non si mostra con la stessa abbondanza con cui avrei poi avuto modo di osservarlo a La vorágine, località balneare per ricchi che scappano da Cali per ritirarsi e avere il maestoso rumore dell’acqua fra i ciottoli serpentini a coccolare loro le menti prima di ridiscende nella fornace urbana e dirigere il proprio business gonfio di zeri e banconote. Non è neppure il río Pance che si sarebbe snodato tra un mio neurone e l’altro, filtrato dai ricordi di un tagliatore di bambù che da quasi mezzo secolo vive a Pance, paesino di contadini e giornalieri che hanno ingrossato col loro sudore la portata del fiume al cui margine stanno da anni.
Due anziane stavano parlando dell’accoppiamento delle oche, una ragazzina specchiandosi nello schermo del suo cellulare (non un sofisticato smartphone, ma comunque capace di intercettare segnale a quell’altezza), una donna sorrideva nel ritrovarsi ad ogni punto piuttosto arduo della salita quasi per metà fuori da quel mezzo da museo ancora rampante. Ma l’attenzione all’improvviso cominciò a confluire su quelle ciocche di un rosso non naturale. Il tema era quello dei fiumi rubati dell’America latina. Il río Ranchería, ad esempio. Specchio d’indignazione nazionale. Il problema sono le multinazionali e l’estrazione mineraria, la gente e i luoghi devono morire, continua a dire. Le reazioni sono vispe, la guala diventa un club in cui scambiare opinioni. Migliaia di bambini morti per colpa della Cerrejón, ditta di estrazione mineraria che nell’estremo nord della Colombia sferra l’ultimo di una serie di attacchi coloniali. Gli indigeni Wayúu de La Guajira muoiono come mosche, qualcuno dice, mentre tutti annuiscono. La guala frena, qualcuno scende, si scarica il suo sacco dalla pila di altri che ci rendono un mezzo dall’altezza estremamente variabile. Sembra frenare sul cuore. Stanno uccidendo un sacco di indigeni, dappertutto, si continua a vociferare, ed intanto i nostri fiumi muoiono. Più tardi approfondirò navigando sulle acque di internet. Sono 35 milioni i metri cubi d’acqua che Cerrejón succhia ogni giorno al río Ranchería, questo fa sì che -in una zona tra le più desertiche della Colombia- popolazioni come quella Wayúu siano destinate ad un genocidio freddamente amministrato. Taciuto da pile di fondi economici che promettono di “risarcirli” ma mai lo faranno perché saranno risucchiati dall’idra capitalista e comunque non risarcirebbero mai. Ma. Ma nella visione dominante loro sono in fondo gli effetti collaterali di uno sviluppo unilineare.
È quasi giunto il momento di scendere dalla guala, la carovana più umana che uno possa immaginare. Il discorso già converge verso altre direzioni, la chioma dal rosso non naturale si è dileguata con un sacco carico di non so cosa sulle spalle. Quel rosso non naturale si avvicina a quello del sangue nei film horror con budget economici e creativi davvero limitati. Quello stesso irreale rosso dei fiumi di questo continente che ha la forma di un cuore pulsante e tante, troppe vene aperte. Il rosso tende all’arancione non naturale di cui si è tinto qualche mese fa il río Doce in Brasile o l’insieme di colori psichedelici che fluttuano nei miei sogni ad ogni morte di acque annunciata e consumata.
Il sole fa capolino e comincia un nuovo giorno privo di piogge lungo la cordigliera occidentale colombiana le cui rocce, racconta Wikipedia, furono formate da sedimenti che provenivano dai fiumi dell’antica costa dell’America meridionale e dai vulcani sottomarini esistenti. A causa dello scontro tra le placche tettoniche Sudamericana e di Nazca, si creò un forte vulcanismo che ha innalzato queste rocce dal fondo marino fino al luogo in cui si trovano oggi. Anche queste montagne non esisterebbero senza i fiumi dell’America latina. Sono già saltata fuori dallo striminzito sedile in cui proprio non ci stavo, la mia schiena si era incurvata al pari di una luna sottile nella morsa di nubi. Il mio mondo materiale è adesso ridotto ad un backpack, qui sono sicura ci possono stare molte più cose che in una voluminosa valigia. La guala e i suoi affascinanti abitatori, ad esempio. Giunta all’accampamento, la deposito e prendono lentamente avvio le attività del giorno, ma prima mi aspetta una colazione a base di arepas, qualche banana con avena e uvetta passa e una tazza, ricavata da un guscio di cocco, di spumoso cioccolata calda, achote, chiodi di garofano e cannella, addolcito con stevia. L’achote stria di rosso la cioccolata nella tazza che già si raffredda.
Tradurre molto spesso è stemperare un tocco di achote in un liquido più grande, la letteratura. Se potessi soltanto prepararmi la mia cioccolata calda come fosse una Nestlé ne godrei non a metà ma addirittura a fatica. Anche la notte giunge e avvolge i Farallones di Cali. Quando quei volti sulla guala sembrano già esili scomparire, si illumina lo schermo del mio portatile. Cerco un testo che ho tradotto qualche tempo fa ed è apparso su La macchina sognante, un’altra locomotiva matta come la guala! Cerco riparo dall’oblio, dalla febbre di altre devastazioni e dal mio stesso io che voglio mettere per un po’ in un cantuccio. Le parole di Bárbara Belloc sembrano offrirmelo. Un tocco di cannella, chiodo di garofano, non deve mancare la stevia e certamente l’achote al fiume Ipoh. L.C.
Da Ira (Buenos Aires, Nusud, 1999) di Bárbara Belloc
FIUME IPOH
(Frammenti)
fiume dei misteri, fiume sovrano
come un ciclo
caduto, divori la terra
come avvertimento: è inutile afferrarsi,
il mondo non ti appartiene.
ma ricevi nel tuo alveo i fiori
con il candore di una bambina, e li porti
sulla tua chioma
come un’amazzone.
***
nelle sue acque ho visto bagnarsi le farfalle
e le libellule, ho visto sfilare le ossa
il legno, l’argilla, ho ascoltato,
squillante, la voce dei miei sogni,
(temo che tutto scompaia).
eppure:
quando me ne andrò, resterà il fiume.
***
non conta ciò che diranno, amo
al di sopra di tutto
ciò che non comprendo: il fiume
la sua portata, lo sciabordio,
il sogno di emanazioni,
la ferocia nell’attaccare la costa.
come portò via i pilastri delle case
con la corrente come se nulla fosse
e il volto minuto delle farfalle.
***
puro
padrone del tempo
puro,
saetta che non si arresta
davanti all’ombra
luminosa della pietra:
per le tue acque i miei desideri
sono come mosche
spuma
alone di spuma.
***
Sultano, raja, principe
bello, torrenziale
fiume
come ti chiamo?
vestito di splendori,
docile e potente
falco, farfalla.
*
De: Ira (Buenos Aires, Nusud, 1999)
RÍO IPOH
(Fragmentos)
río de los misterios, río soberano
como un ciclo
caído, devorás la tierra
en advertencia: es inútil aferrarse,
el mundo no te pertenece.
pero recibís en tu lecho las flores
con el candor de una niña, y las llevas
en tu cabellera
como una amazona.
***
en sus aguas vi bañarse a las mariposas
y a las libélulas, vi pasar los huesos
la madera, la arcilla, escuché,
alta, la voz de mis sueños.
(temo que todo desaparezca.)
pero:
cuando me vaya, se quedará el río.
***
no importa lo que digan, amo
por sobre todas las cosas
lo que no comprendo: el río
su caudal, su rumor,
su sueño de emanaciones,
su ferocidad para atacar la costa.
cómo se llevó los pilares de las casas
como nada en la corriente
y el rostro diminuto de las mariposas.
***
puro
dueño del tiempo
puro,
saeta que no se detiene
ante la sombra
luminosa de la piedra:
a tus aguas mis deseos
son como moscas
espuma
halo de espuma.
***
sultán, rajah, príncipe
hermoso, torrencial
río
¿como te llamo?
vestido de resplandores,
manso y poderoso
halcón, mariposa.
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Lucia Cupertino (1986), antropologa culturale, poetessa e traduttrice, scrive in italiano e spagnolo e sue poesie sono apparse in riviste quali Fili d’aquilone, Sagarana, La otra, Círculo de poesía, Bitácora pública, Vallejo and company. Ha svolto ricerche universitarie e antropologiche in Italia, Argentina, Messico, Spagna, Germania e Australia. Ha curato l’edizione italiana del documentario brasiliano Flor brilhante e as cicatrizes da pedra sugli indigeni Guarani-Kaiowà. Collabora con Nuovi Argomenti, Fili d’aquilone, Irisnews e La macchina sognante. Mar di Tasman (Collana Isole, Bologna, 2014) è il suo primo volumetto di poesia.
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Bárbara Belloc (Buenos Aires, Argentina, 1968). Poetessa, traduttrice ed editrice. Ha pubblicato i libri di poesia Bla (1992), Sentimental journey (1995), Ambición de las flores (1997), Ira (1999), Orang-utans (2000, in collaborazione con la poetessa Teresa Arijón e nella traduzione inglese di Hilary Gardner), Espantasuegras (2005), Andinista (2009) e Canódromo (2015); la ricerca giornalistica Tribus porteñas (1998); il libro-oggetto Obrero artificial (assieme all’artista plastica Mónica Girón, 2000); la traduzione dal greco del corpus integro della poesia di Saffo in Poema y fragmentos completos (2006); la traduzione dall’ inglese di poesie di Gary Snyder in Todas las palabras para decir roca (2008); numerose traduzioni dal portoghese di poeti brasiliani, tra i quali Waly Salomâo, Angela Melim, Ana Cristina Cesar, Angélica Freitas, Antonio Carlos de Brito e Mario Faustino. Ha tradotto, sempre dal greco, la poesia di Erinna, Praxilla di Sicione, Merò di Bisanzio, Sulpicia e Alceo, dal sanscrito il Prthvisukta (o Inno alla Terra), e dall’inglese poesie di Kim Stafford, Olga Broumas e El mar de coral, di Patti Smith, usciti in antologie e riviste. Ha inoltre tradotto dal portoghese numerosi prosatori brasiliani, come Clarice Lispector, Rubem Fonseca, Hilda Hilst, Andréa del Fuego e Adriana Lisbos, per citarne alcuni.
Attualmente codirige, con Teresa Arijón, la collana Nomadismos consacrata ai saggi di artisti brasiliani della casa editrice Manatial di Buenos Aires, presso la quale ha già editato, tradotto e pubblicato cinque volumi, e la collana Nomadismos di saggi di artisti argentini con la casa editrice Azougue/Circuito di Río de Janeiro (Brasile), con la quale ha già selezionato e pubblicato otto volumi; è anche coeditrice, con T. Arijón e Manuel Hermelo, del marchio indipendente pato-en-la-cara. La sua opera è apparsa su diverse riviste, argentine e straniere, e tradotta in varie lingue.
Blog: www.glossemata.wordpress.com
Pato-en-la-cara: https://sites.google.com/site/editorialpatoenlacara/
Nomadismos (Argentina): http://emanantial.com.ar/editorial/libros/listado.aspx?col=11
Nomadismos (Brasile): http://editoracircuito.com.br/website/colecao-nomadismos/