La nostra voce non si spezza di Antonio Lillo, Stilo Editrice, 2018, note di lettura di Paolo Polvani: tra inquietudini e ironia.
Il genere racconto è sempre stato considerato un parente povero del romanzo, non ha mai incontrato la fortuna che meritava, nonostante nel tempo grandissimi autori ci si siano cimentati, a titolo esemplificativo e consapevole del rischio di essere riduttivo, citerò solo Borges e Murakami, e in Italia Buzzati, Calvino e negli ultimi anni Giulio Mozzi tra gli autori che hanno ricevuto un seguito considerevole. Si può ipotizzare intorno alle funzioni del racconto: restituzione parziale di una quota minima della realtà, che più che raccontarci dei fatti, incardinarsi intorno a delle storie, dovrebbe forse restituirci un’atmosfera, un’aria del tempo, l’eco di un sentire diffuso e condiviso. Il racconto è il genere letterario più conservatore, la sua struttura risulta immutata nel tempo, sebbene gli autori si sforzino di cambiare le prospettive, le dinamiche, il linguaggio.
Quello che al racconto manca è quella tensione emotiva che avvince e cattura: il lettore di romanzi è una specie di mosca kamikaze che non vede l’ora di sentirsi invischiata nella trama del ragno autore, gioiosamente impigliata nei lacci della ragnatela, quella trappola felice costituita dallo sviluppo della vicenda, dai contorni ben definiti dei personaggi nei quali ci si immedesima, e che per sempre entrano a far parte della nostra vita, e dei quali avvertiamo acuta nostalgia già alle ultime pagine del libro; come sintetizza in maniera definitiva il giovane Holden, si vorrebbe essere amici dell’autore, chiamarlo al telefono, rivolgergli delle domande.
Tutto questo nel racconto non accade, non lo consente la durata del viaggio, non lo consente la mancanza di una trama articolata, spesso si tratta di sequenze rapide, una serie di scatti capaci di imbastire una storia e regalarci il veloce brivido dell’attenzione e della seduzione.
Eppure esistono felici eccezioni: nella raccolta di racconti di Antonio Lillo, La nostra voce non si spezza (Stilo Editrice 2018) sono disegnati personaggi ai quali ci si affeziona fin dalle prime battute, nello sguardo dell’autore convivono affetto e ironia, nelle inquietudini in cui i vari protagonisti si dibattono ci vengono restituite le atmosfere di questi nostri anni, primo tra tutti il sentimento della solitudine. Sono le periferie a fare da sfondo a molte delle storie presenti nel libro, a sottolineare la marginalità che impregna le esistenze. In uno dei racconti più belli, Una storia di cani, il protagonista afferma: – Così il mio solo compagno è mio padre. – E più avanti: – Quando non cantiamo stiamo quasi sempre in silenzio e mio padre mi dice che sono il suo migliore amico, perché lo capisco e so stare zitto, non come faceva mamma.-
Ricorrono rapporti problematici padre – figlio, le mamme assenti perché ormai morte o perché hanno cacciato di casa il marito, ma anche mamme che avevano silenziosamente instaurato un bellissimo rapporto di amicizia e complicità con un omosessuale.
Accanto alla solitudine il disagio. Il protagonista del racconto Mi chiamo Ismael trova rifugio nel bagno: – La mattina presto, dopo che sono andati tutti al lavoro, mi appoggio contro il calorifero ancora tiepido e sto lì finché si raffredda, a fissarmi nello specchio. Mi trovo strano, talvolta non mi riconosco.-
E il rancore nei confronti delle ingiustizie sociali e dei guasti creati dai politici: – I dentisti sono tutti ladri, come i politici.
E l’amicizia come ultimo baluardo contro la barbarie: – Siamo amici fin da bambini io e Paolo, stiamo sempre insieme da che mi ricordo e non credo che abbia altri amici a parte noi.
Tutti i racconti si incardinano intorno alle vicende di personaggi ben definiti e descritti con felice sobrietà. Insieme a un invidiabile equilibrio tra senso della misura e partecipazione emotiva, il linguaggio costituisce il motore trainante delle storie, un motore silenzioso, confortevole, che trasporta gli eventi, le riflessioni, le descrizioni con efficacia e senza invasività, funzionale e insieme discreto: – Quella sera ero di buon umore, avevo realizzato un bel graffito sui vagoni abbandonati dietro la stazione. Salendo sul cavalcavia che passava lì sopra, lo vedevi così grande, cattivo e rosso, che sembrava quasi mangiarsi lo spazio intorno e saltare in aria fino al cielo.
Le atmosfere e le ambientazioni ripropongono situazioni ricorrenti nel nostro meridione: ragazzi che non cercano più il lavoro e si arrabattano in mille maniere per impiegare il tempo: sia la cura e la frequentazione di un branco di cani randagi, sia la progettazione della rivoluzione che comporta come primo passaggio dipingere il suv di un dentista evasore, oppure pianificare una rapina alla tabaccheria del paese e metterla in atto in maniera sconclusionata, sconfinare nel patetico e nel ridicolo, essere subito riconosciuti dalla tabaccaia e inseguiti dai carabinieri, in fuga col miserrimo bottino di un pacchetto di cipster. E poi le panchine dei giardini pubblici, con le ombre spelacchiate condivise coi vecchietti, e le ore che si spalancano come voragini estive e certe figurine che hanno il dono della esemplarità e si imprimono nella memoria, destinate a restarvi a lungo, per esempio il protagonista del primo racconto: – Si chiamava Francesco, o Franco, e il vecchio Angiolino mi dice che è ovvio, perché i froci si chiamano tutti Franco e lui sapeva fare dei lavori di bocca che manco una puttana ci riusciva.
La lettura di questo libro si porta dietro un auspicio e un cruccio: l’auspicio che passi attraverso il giusto numero di mani, adeguato al piacere che riesce a regalare, perché ci imbattiamo in personaggi e storie che sono insieme fulminanti e penetranti, che sanno ben illuminare arie e situazioni dei nostri giorni e del nostro mondo; e il cruccio che forse non sarà così.