La parola a dimora, editoriale di Patrizia Sardisco

La parola a dimora, editoriale di Patrizia Sardisco.

     

     

Tutte le parti della casa si ripetono,
qualunque luogo di essa è un altro luogo.
(Jorge Luis Borges)

    

Per la forte connotazione affettiva di cui è investita, la casa, ogni casa, in quanto spazio di vita intimo e privato, luogo concreto e al tempo stesso dell’immaginario, si presta a una trama fitta e pressoché infinita di accostamenti metaforici.
Labirintica e identica a sé entro le coordinate formali in cui sorge e giace, la casa mostra lo stesso profilo, la stessa cifra, in ogni punto del suo regolare perimetro ma ogni punto ha luce propria e correnti d’aria assolute, voci sciolte da ogni altro contiguo respirare: e mentre traccio quest’abbozzo veloce del modo in cui il nucleo che chiamo la mia casa si offre alla mia percezione, mi accorgo di utilizzare parole che potrebbero attagliarsi anche all’universo del mio scrivere, a quel particolare spaziotempo di simbolizzazione che mette al mondo quell’altro universo-mondo labirintico e prismatico che ho l’ardire di chiamare i miei versi.
Nel tiepido semenzaio della mia casa, stanze e istanze poetiche trovano un primo punto di reciproca incidenza in questo loro essere ontologicamente labirintiche, trama tramando e tramezzatura di giorni e superfici lungo traiettorie tracciate da vecchi aratri e nuovi traini, da sbalzi caotici di imprevedibile entropia, piani verticali, orizzontali e inclinati, entro cui si assestano equilibri in trasformazione, volture e immobilismi secolari nell’alveo di un qui e ora aperto e sempre sovradeterminato, sovraesposto ai richiami della luce.
Ma casa e scrittura poetica, spazio di vita e versi, sono anche le braccia, anche le gambe impegnate in quello stesso viaggio labirintico, falcate faticose e tenaci che intercettano nel ritmo circadiano le regolarità e i cortocircuiti azzeranti che costringono a cambi di direzione, a nuova significazione. L’ordine e il disordine. E le relative vertigini.

Nel racconto di Borges La casa di Asterione, da cui è tratto l’esergo a questa breve riflessione, il mostruoso protagonista vive in una casa fatta di corridoi di pietra in cui, per distrarsi, corre “fino a cadere al suolo in preda alla vertigine”, si lascia cadere dalle terrazze fino a sanguinare e si inventa un alter-ego cui mostrare la propria casa. A dispetto di quanto afferma Asterione (“come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l’arte della scrittura”), trovo che questo dibattersi tra le pareti della casa e del sé, questo gettare se stessi da un interno verso un esterno, fino a sanguinare, fino a stordirsene, sia una metafora potentissima della scrittura. La casa-labirinto è qui a mio avviso metafora del corpo che lotta, attraverso la scrittura, per espellere i propri mostri, il proprio fiele, il proprio doppio, anche a costo di ferite, di lacerazioni profonde. Anche la casa stessa, come il corpo, è una scrittura: e come accade ad Asterione, all’ibrido Minotauro, che uccidendo i propri aggressori li rende “liberi da ogni male” e ne lascia in terra i cadaveri per distinguere i corridoi l’uno dall’altro, la Poesia mentre crea libera, mentre si fissa in forma di scrittura compie un fatale ri-attraversamento della mitologia privata di chi scrive, mettendo in luce corridoi di verità attraverso segni, liberando la verità dalla notte della propria opacità di corpo chiuso per farne translucenza aperta di parola.
Casa e poesia come corpo, dunque, e quindi anche limine confine muro guscio pelle membrana …
Si potrebbe procedere anche soltanto per accumuli, senza per questo esaurire voci e voce, ma preferisco la parzialità onesta dell’optare, per quanto senza pretendere di formulare scale d’ordine, e tentare di isolare pochi e personalissimi segmenti di senso per una geometria da cui emergano alcuni altri punti tangenziali tra il fare e l’essere della mia casa e il fare e l’essere della scrittura poetica.

Tra questi, dopo il labirinto, mi sembra di poter indicare quello che ha a che fare con il binomio proprietà-appartenenza. Tanto la casa quanto i versi, pensati come elementi materiali, inducono a utilizzare aggettivi di possesso nella convinzione che si eserciti su di essi un indiscusso dominio. Nulla di più illusorio. Luoghi mentali, sfere di senso, matrici-nutrici, casa e poesia rovesciano i termini della relazione stravolgendo il senso comune: abitare, occupare uno spazio tra le stanze o tra le righe implica appropriarsene ma anche appartenere a quello spazio, esserne al tempo stesso il contenitore e il contenuto. Implica un parziale dissolvimento del confine, un’alterazione dinamica della permeabilità della membrana che separa interno ed esterno con il conseguente transito e scambio di significati e segni: il risultato non è l’omogeneità, l’indifferenziato, ma una innegabile contaminazione che diviene cifra ricorsiva, elemento distintivo e unificante.
Figlia e nuova matrice di realtà psichica transpersonale, la casa come spazio corporeo incarna cementa e narra storie, dice per rappresentazione mentre conferisce forma, entro una circolarità complessa che ha il carattere di un sistema. La scrittura non può fare a meno di cogliere questo, lo coglie e ne è colta, ancora una volta in un mutuo scambio sostanziale: in casa ogni spazio, ciascun oggetto, è la cosa, è il suo nome e la sua narrazione, è la voce che lo dice e lo narra, e facendo ciò lo ri-genera, lo concepisce e lo rimette al mondo, lo dona al mondo.
I versi che nascono in casa, come i figli di un tempo, sono i miei versi, ma sono anche i versi della casa. La casa li sente e li vuole, è un far posto e un trovare posto, la cucitura di un legame. E la casa diventa versi, i versi diventano casa.

La casa ha profondità oceaniche inattingibili all’occhio e verticalità in ascesa d’altezza grattacielo, pensieri siderali e talloni a sprofondare rizomi nella sabbia dei fondali più oscuri, l’orizzonte passa per il plesso solare, soglia d’aria e d’acqua, limine soggetto a maree. I versi se ne inondano e ne restano sommersi, quando la spuma si ritira restano legni bruni e contorti, e scafi tirati a secco; altre volte mostrano una brillantezza crespa e salata, piccoli granchi a crepitare, a guadagnare altra vita, altra acqua.

La casa è lo spaziotempo aperto, è aria corrente, i versi la respirano e la spolverano, rispolverano canterani e cantucci, cantano la cura antica e nuova, chiavi simboliche e parole aprono cassetti che danno senso alle stagioni e rassicurano la circadiana messa al mondo del tempo, hanno i frutteti dentro, le vigne, gli uliveti dell’olio santo. Hanno il pane durissimo che ha conosciuto prima il fuoco e poi il riposo. Hanno le scritture pesanti, la parola bulbo posta a dimora grazie alla lama ampia e affilata del rivangare. Aprire i cassetti è entrare in colloquio con l’ordine della madre, per presenza e per assenza. In Poesia, l’apertura di quegli stessi cassetti segna l’incontro con la lingua – madre, pasta reale di flauto italiano addolcita, fino a far piaghe sulla lingua, dallo zucchero vetroso del dialetto, a partire dai suoni per giungere fino all’ordine del periodare, alla prensione stessa del reale nelle maglie del sentire, del dire, dello scrivere.

La casa è lo spaziotempo chiuso, circolare, il posto dei cassetti chiusi in cui dimorano i miti familiari con i loro intenzionamenti silenziosi e assordanti, assorbenti, desideranti. I versi vi si impigliano, velcro tenace che ne strappa il tessuto, si smozzicano come atti mancati e si chiudono, come chiocciole, in curve formali più rassicuranti e criptiche, ellittiche ed escludenti. Oggetti inerti, per raffreddamento. Oggetti di difesa, contundenti. Oggetti castranti, lucchetti di autoinflitta castità verbale. Non durano a lungo, la Poesia è evento dirompente e catastrofico, del tipo tutto o nulla.

“Lo crederesti Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso…”
Nella sua casa senza porte, Asterione il mostro, l’Asterione prigioniero della propria incomunicabile unicità, è stato liberato e messo al mondo. Attraverso il filo di un “discorso amoroso” egli ha trovato finalmente, nel brillio scissorio di una spada di bronzo, la propria redenzione, la ricomposizione dei frammenti, la narrazione ri-creatrice della propria verità, la propria collocazione in parola, la propria scrittura poetica.

                 

Martina Dalla Stella, 'Aspettando per migrare', tecnica mista su carta, 2006
Martina Dalla Stella, ‘Aspettando per migrare’, tecnica mista su carta, 2006

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