LA PAROLA TERRA MATERNA, RUBRICA DI POESIA DIALETTALE A CURA DI ANNA MARIA CURCI: ANTONIO MADDAMMA, GRAZIA SCUDERI, ANDREINA TRUSGNACH

La parola terra materna,
rubrica di poesia dialettale a cura di Anna Maria Curci:
ANTONIO MADDAMMA, GRAZIA SCUDERI, ANDREINA TRUSGNACH

 

       

Anna Maria Curci

Il titolo di questa rubrica dedicata alla poesia contemporanea nei dialetti d’Italia è ispirato a Madreterra di Rose Ausländer (qui nella mia traduzione): « La mia patria è morta/l’hanno sepolta/ nel fuoco// Io vivo/ nella mia madreterra/ la parola».
In quei versi Rose Ausländer faceva riferimento al sofferto recupero della propria lingua materna, quella tedesca, non più ancorata alla terra d’origine della scrittrice, la Bucovina, devastata anche da uomini che in comune con lei avevano il tedesco come madrelingua.
Il ritorno alla poesia nella lingua materna era dunque accompagnato da una vibrante affermazione: la parola è «madreterra».
Una affermazione che è anche assunzione di responsabilità, atto di impegno, passaggio del testimone, di un testimone che mi sembra pienamente accolto, oggi, dalla poesia dialettale, che, ben lungi dall’essere un mero ornamento folkloristico, liberatasi dallo stampo di un rimpianto fine a se stesso, ingaggia una fruttuosa tenzone con la contemporaneità, della quale pur avverte la disgregazione e, non di rado, la devastazione subita e causata.
Fiorisce dunque la parola terra materna nella «terra devastata», e fiorisce con sonorità, con melodie linguistiche e con accenti vari, spesso così distanti tra loro urti dissonanti e pur sempre fecondi.
Il plurilinguismo poetico al quale dà vita la poesia contemporanea nei dialetti d’Italia ha, inoltre, il pregio tipico di ogni manifestazione di plurilinguismo, vale a dire quello di favorire sviluppi (incoraggiati da incontri e intrecci, da conversazioni a più voci), degni di interesse anche nelle lingue nazionali.
Non è azzardato dunque affermare che il panorama poetico si è arricchito, ampliato, rinvigorito grazie all’incontro con la poesia dialettale. Questo vale non soltanto per le versioni in italiano che gli stessi poeti dialettali creano delle proprie poesie, ma anche per il circolo virtuoso che si è andato sviluppando nel campo delle riflessioni metalinguistiche, quindi su temi, strumenti e cadenze del dire poetico. In tal senso abbraccio con convinzione il titolo di una recente antologia curata da Ombretta Ciurnelli: Dialetto lingua della poesia.

 

Breve itinerario biografico nel dialetto.

L’amore per la poesia dialettale si è manifestato nel corso della mia vita, da che ho ricordi, in forme diverse, con differenti gradi di consapevolezza e di slancio. Da piccola, ho conosciuto la poesia dialettale dai racconti materni come forma alta di espressione umana che rappresentava, nel “lessico famigliare”, l’unica, dignitosissima, eccezione al divieto rigoroso di far uso di qualsivoglia dialetto regionale nella comunicazione tra le pareti domestiche (fuori, essendo cresciuta nella periferia della capitale, non c’era modo di ascoltare o di cimentarsi né nel ruvese di mio padre, né nel pignolese di mia madre; restava solo l’accento romanesco, deprecato e detestato apertamente da entrambi i genitori). La curiosità si accompagnava dunque, allora, al continuo tentativo di trasgredire quel divieto. Poi sono arrivati gli studi liceali e la consapevolezza di una tradizione dalle radici antiche e sempre rinnovate, una tradizione che nulla perde nel corso del tempo, nulla concede allo sprezzo, basato solitamente su argomentazioni tra lo spocchioso e il timoroso della pluralità, che a intervalli regolari viene dispensato dal ‘degustatore’ di turno, sia questi noto o sconosciuto. Infine, nella maturità, lo studio, la lettura appassionata, la familiarità con la poesia neo-dialettale hanno rinsaldato la convinzione della grazia e della dignità, della forza di questa parte fondamentale, pilastro, ponte e fiume, della produzione poetica in Italia.


   

Antonio Maddamma (Marche)

In B’stiulin, Bestioline”, originale galleria e opera che travalica i confini di un semplice  bestiario, Antonio Maddamma ricorre apertamente alla similitudine, figura retorica che costituisce un ponte brulicante di vita non solo tra gli animali e gli umani in diverse fasi e in diverse sembianze, bensì anche tra i primi e la coscienza del poeta. Il ponte sonoro, nel dialetto di Senigallia, è costruito saldamente e con sapienza di stile sulla convinzione che la poesia – qui, evidentemente, una cosa sola con l’amore per la natura che si manifesta nel verso – è saper tendere l’orecchio oltre il frastuono delle mode, saper guardare oltre l’apparenza, saper cogliere sfumature e mutamenti di tono sonoro e cromatico.

  

‘L crucal e ‘l grottul

   

Crucal,

cumpagn d’ gridi

m’arcord ch’ t’ v’deva

vulà sa l’ lal luntaŋ

e com ‘n grottul vuleva

arfà chi voli rumiti

p’l ciel machì da luntaŋ.

Crucal,

padróŋ di lidi,

adè so ch’ da l’ cóv

lassat nt l’spiagùr

sa ‘n cor maldapena sigur,

ti slonga ‘n mar d’ stridi,

‘na voc p’rduta luntaŋ.

Crucal,

cumpagn d’ gridi,

si mutul taj ch’l vent

sa ‘n cor maldapena cuntent,

quant sa la mi voc t’ chiam,

t’ pregh, rispond ma i stridi

d’ n’ grottul vulat luntaŋ.

   

Il gabbiano e il gruccione – Gabbiano, / compagno di gridi, / mi ricordo che ti vedevo / volare con le ali lontano / e come un gruccione volevo / imitare quei voli solitari / per il cielo qui da lontano. // Gabbiano, / padrone dei lidi, / adesso so che dai nidi / lasciati nelle distese / con il cuore a malapena sicuro, / ti allonana un mare di stridi, / una voce perduta lontano. // Gabbiano, / compagno di gridi, / se tagli silenzioso quel vento / con il cuore a malapena contento / quando con la mia voce ti chiamo / ti prego, rispondi agli stridi / di un gruccione volato lontano.

   

Lucertul …

 

I pueti, i pueti, gent mia,

enn na razza più unniga ch’ rara…

e d’ sti tempi a facc’ dó parol,

ma a stà a s’ntì mi zia, la v’rgara,

c’ n’è do spec’: lucertul e giudiòl.

   

“C’enn l’ lucertul, ch’apena sgappa ‘l sol,

l’ vedi su p’n mur a rumb’coƞ

o ferm n-t-n cantoƞ, c’ stann i ora,

a pià ch’l cald ch’ i arcora,

tacat sa i ogna e la lengua d’ fora

a durmì e panscià al sol.

Pudrissi dì ch’ calchiduna insogna

tant’enn incucutit a pià ch’l cald.

Ma si t’ vien la voja d’ chiapall

e pensi l’ho chiapat, suvent, fiol mia,

è sol la coda ch’ lass’n d’ dria,

si ved’n malì ch’ nun c’è scamp,

e fugg’n da l’ man tua com ‘n lamp

senza lassatt ‘l temp d’artruall.

Infin a l’ora ch’ va sotta ‘l sol,

po’ artorn’n n-t-la cova

e ‘n c’è nisciuƞ ch’ l’artrova

fin ch’ n’artorna ‘l sol…”

    

Lucertole …  –  I poeti, i poeti, gente mia, / sono una razza più unica che rara / e di questi tempi a parlarne / e a stare a sentire mia zia, la vergara, / ce ne sono di due tipi: lucertole e giudiòle. // “Ci sono le lucertole, che, appena esce fuori il sole, / puoi vedere arrampicarsi sopra un muro / oppure ferme in un angolo – ci stanno ore intere – / a godersi quel caldo che dà loro piacere, / attaccate con le unghie e con la lingua di fuori / a dormire e ad ansimare al sole. / Potresti dire che qualcuna sogna / tanto sono intontite dal quel caldo. / E se ti viene voglia di acchiapparle / e pensi di averle prese, spesso, figlio mio, / è solamente la coda che si lasciano dietro / se vedono di non aver alcuno scampo / e ti sfuggono dalle mani come un lampo / senza lasciarti il tempo di ritrovarle. / Questo accade fino all’ora del tramonto, / poi tornano nella cova / e non c’è nessuno che possa ritrovarle /finché non esce fuori nuovamente il sole…”

 

…e giudiòl

 

“… Si ‘l sol n’artorna e ‘nvec c’è la piova,

dop d’ ‘n po’ d’ fora d’ na fratta

molla s’artrova n’antra spec’ matta

ch’ sbigia sa la lengua

d’ foja in foja e sa na voja nova

e sol ‘l fresch, fiol mia, è quel ch’i arcora.

La gent ch’ quant discurr sta sul vagh.

pudrìa chiamall ancora l’ lumagh

ma chi è istruvit l’ chiama giudiòl.

Si p’r tant’è l’ vol, e nun è schifa,

l’ ved sempr d’intorn’ a fà la bufa

e tutt ‘l giorn s’ cargh’n la coccia

d’ dria, ndò ch s’artir’n suvent

quant’enn stracch o spaurit, com’ fa la cioccia.

Ma si ch’l lum è spent, al chiar d’ luna

l’arcoj d’ foja in foja a una a una:

e tutta è sciucca ch’ la lengua tenta,

com l’inchiostr al lum ch’ s’inargenta”.

    

… e giudiòle  – “… Se il sole non esce fuori e invece piove, / dopo un po’ di tempo fuori da un cespuglio / bagnato dalla pioggia si incontra un’altra pazza genìa / che avanza scivolando con la lingua / di foglia in foglia e con una voglia diversa, / perché è solamente il fresco ciò che dà loro piacere. / La gente che quando parla sta sul vago / potrebbe chiamarle anche lumache, / ma chi è ben istruito le chiama giudiòle. / Se le vuol prendere, non provandone disgusto, / le vede sempre schiumare tutto all’intorno / e tutto il giorno si portano dietro il guscio, / dentro il quale spesso si ritirano, / quando sono stanche o impaurite, come si vede accovacciarsi una gallina. / Quando il sole è tramontato al chiaro di luna / di foglia in foglia le prendi ad una ad una: / e tutta è asciutta quella lingua tinta, / come un inchiostro che s’inargenti a un lume”.

   

La ciuetta

   

Lassa d’ strid, zitta, ciuetta,

ch’ c’ho l’annima crétta.

Quel ch’ so ben m’ l’arcord

donca lagrim e fiott

e ‘l dulor suvent m’ armord.

Luc’n i occhi nostri, ciuetta,

com’ i tua, ma nun ved

l’annima nostra, si c’ voj cred,

tropp è l’ scur d’ la nott.

   

La civetta – Smetti di stridere, zitta, civetta / che ho l’anima incrinata. /  Quel che sono ben me lo ricordo / dunque piango e mi lamento / e spesso il dolore mi rimorde. / I nostri occhi brillano, civetta / come i tuoi, ma non vede / l’anima nostra, se ci vuoi credere, / troppa è l’oscurità della notte.

  

La tarangula

La tarangula, gialla com ‘l sol

e nera com n tizz d’ garboŋ,

ch fugg l’ fogh, com’ l su turment,

e cerca l’acqua p’r mett’s a moll,

è l’annima d’ l’om, ch suvent

à da cumbatt sa ‘l fogh d’ la pascioŋ.

Donca ch’l fogh arluc’ com ‘l sol,

anch’ ntl’acqua e  brugia ancó si è spent.

Cuscì ma l’om, p’rché calch amor

brugia la carn, si nun brugia ‘l cor.

   

La tarangola (La salamandra) – La tarangola, gialla come il sole / e nera come un tizzo di carbone / che fugge il fuoco, come suo proprio tormento, / e cerca l’acqua per mettersi a bagno / è l’anima dell’uomo che spesso / deve combattere con il fuoco della passione. / Dunque quel fuoco brilla come il sole / anche nell’acqua e brucia anche se è spento./ Così [accade] all’uomo, perché qualche amore / brucia la carne, se non brucia il cuore.

   

Antonio Maddamma è nato nel 1976 a Senigallia (AN), dove vive. Laureatosi in Lettere all’Università di Bologna con una tesi sul poeta rinascimentale in lingua latina Francesco Arsilli, è studioso di storia e letteratura locale. La sua ultima pubblicazione (con Nino Bucci e Flavio Solazzi) è l’editio princeps degli Historiarum libri duo di Pietro Ridolfi in Storia della città di Senigallia e della sua Diocesi (Diocesi di Senigallia, Senigallia, 2017). Scrittore, poeta in lingua e in dialetto, dal 2006 è redattore del blog letterario «LibriSenzaCarta». In veste di regista e attore ha realizzato un adattamento e riduzione teatrale del Pluto di Aristofane (2006) e dell’Anna Bolena di Benedetto Arsilli (2010). Ha curato le antologie di racconti Marchenoir (Italic Pequod, Ancona, 2012); Tremaggio (Ventura, Senigallia, 2014); Tutti i gusti. Storie di gelati (Ventura, Senigallia, 2016). Sue poesie in dialetto sono presenti in I poeti dialettali di Senigallia, volume 2 (2011) di Domenico Pergolesi.73 e in Poeti neodialettali marchigiani a cura di Jacopo Curi e Fabio Maria Serpilli, 2018. La raccolta inedita B’stiulin/Bestioline, dalla quale sono tratti i testi qui proposti, si è classificata terza alla XVIII edizione (2021) del Premio nazionale Città d’Ischitella – Pietro Giannone.

   


   

Grazia Scuderi (Sicilia)

L’invito a capovolgere sia lo sguardo sia l’atteggiamento diffuso nei confronti delle cose così come degli esseri viventi arriva proprio dal titolo della raccolta inedita di poesie in dialetto catanese di Grazia Scuderi: A testa sutta(“A testa in giù”). Da indifferente o avido lo sguardo torni a farsi amorevole, da egoista e sfruttatore l’atteggiamento diventi di sollecitudine, questo è ciò che il dettato limpido della poesia esprime e restituisce. La brevità dei versi esalta passaggi, concetti e immagini, li scandisce senza banalizzarli, perché è con occhi nuovi e con una consapevolezza che ritrova lo stupore dell’infanzia che l’io poetico accoglie la complessità, tra cognizione del dolore nella storia individuale e collettiva e ri-conoscenza dell’antica felicità, e alla complessità va incontro con parole che non mentono.

  

A testa sutta

   

N’ta stu munnu

mi sentu a testa sutta.

Fra cristiani ca currunu affannati

ca quannnu ci addumanni

picchì je unni vanu

t’arrispunnunu ca cercanu a filicità.

A cercunu n’ta primura

d’arrivari primi

d’accattarisi vularii,

di stirarisi i facci,

picchì i n’zinghi do tempu

fanu arriurdari a morti.

Volunu cumpariri a tilivisioni.

Tutti che stissi

occhi di jatta.

Quannu a filicità

jè sulu u ringraziu

ppi cu sapi turnari picciriddu.

   

A testa in giùIn questo mondo / mi sento a testa in giù. / Fra persone che corrono affannate / che quando chiedi loro / perché e dove vanno / rispondono che cercano la felicità. / La cercano nella fretta / di arrivare primi, / di comprare cose inutili, / di stirarsi il viso, / perché i segni del tempo / fanno ricordare la morte. / Vogliono apparire in televisione / tutti con la stessa faccia di gatta. / Quando la felicità / è solo la ricompensa / per chi sa tornare bambino.

   

Ascutu

  

Ascutu na rosa

ca sbucciau  stamatina.

U ciatu si ferma

l’occhi s’allargunu

a manu s’allonga

ne jta

c’avvicinunu i naschi

a stu vellutu russu.

Non m’abbasta sentiri.

Vogghiu vidiri u ciaru

ca jè na cantata

ppi tuttu u criatu.

   

Ascolto – Ascolto una rosa / che è sbocciata stamattina. / Il respiro si ferma / gli occhi si dilatano / la mano si allunga nelle dita / che avvicinano alle narici / questo velluto rosso. / Non mi basta sentire. / Voglio vedere il / profumo / che è una canzone / per tutto il creato.

    

A pudduredda cilesti

   

Cercu n’ta sta vecchia cascia

arriminannu che jta.

I carti sculuruti,

i pezzi acculurati,

tuppetturi di lignu,

cuttuni  p’arraccamari.

Savvati picchì macari aggiuunu.

Oggi nisciu na pudduredda

cu l’ali cilesti.

Attrovu cosi sempri divessi.

Quannu si smovi a vita

nesci sempre a nuvità.

  

La farfallina celeste – Cerco in questa vecchia cassa / muovendo le dita. / Le carte scolorite, / le stoffe colorate, / trottole di legno, / cotone per ricamare. / Conservati perché magari servono. / Oggi è uscita una farfallina / con le ali celesti. / Trovo cose sempre diverse. / Quando si smuove la vita / esce sempre la novità.

    

U travagghiu

   

U travagghiu

a me patri ci rumpiu l’ossa.

A me matri

c’inciccau a carina.

Ju sturiai.

    

Il lavoro – Il lavoro / a mio padre ha rotto le ossa. / A mia madre / ha incurvato la schiena. / Io ho studiato.

   

Vidiri u mari

   

Vidiri u mari

ammenzu a sta muntagna

jè  sempri difficili.

Macari quannu u ventu

si porta tutti i nuvuli a so casa.

Cerchi di stari rittu.

Na mano supra i gigghia,

l’autra stritta n’ta petra.

Ca non capisci

chi jè carni je chi jè petra.

Non c’è nenti cchì fari

oggi u mari non si vidi.

   

Vedere il mare – Vedere il mare / in mezzo a questa montagna / è sempre difficile. / Anche quando il vento / si porta tutte le nuvole a casa sua. / Cerchi di stare diritto. / Una mano sopra le ciglia, / l’altra stretta nella pietra. / Che non  capisci / cosa è carne e  cosa è pietra. / Non c’è niente da fare / oggi il mare non si vede.

    

Grazia Scuderi, avvocato, è nata a Catania nel 1964. Ha pubblicato per l’editore Rosenberg e Sellier, in Quaderni di Sociologia vol. XLVII, 2003.31, Politiche di sostegno al reddito dall’assistenza alle politiche attive, il saggio dal titolo: “L’ascensore come situazione sociale problematica”. Suoi scritti sono apparsi sulla rivista “La Terrazza” Ha pubblicato la plaquette di poesie in italiano Armonie e dissonanze (2014) e quella in dialetto Ciriminacchi (Edizioni Novecento 2019). La raccolta inedita A testa sutta (“A testa in giù”) è stata tra i testi finalisti alla XVIII edizione (2021) del Premio nazionale Città d’Ischitella – Pietro Giannone.

   


   

Andreina Trusgnach (Friuli Venezia Giulia)

Pried ku se podat, “Prima di arrendersi”, di Andreina Trusgnach, accoglie chi legge con un universo denso degli odori di impasti, di cibi, di fonti di calore, delle fragranze che arrivano dai frutti degli alberi, dalle piante del bosco e del sottobosco. È un universo che si muove nella cornice dei luoghi di confine dei quali si nutre la “lingua madre” di Andreina Trusgnach, il dialetto sloveno delle Valli del Natisone (UD), ma che si dilata nello spazio temporale della rievocazione ricca di affetti e nell’avvicendarsi delle stagioni, ciascuna delle quali è resa con fine talento nell’afferrare mutamenti e sfumature nel passaggio dall’una all’altra. Da ogni verso emerge una reale sollecitudine; le numerose domande, esplicite e implicite, scaturiscono da un’attenzione concreta a creature, esistenze, fenomeni, su cui altri, invece, fanno scivolare uno sguardo distratto.

   

Pried ku se podat

   

Noge otekle

v čerieujah prestisnjenih

            tistih pražnjih

                        šele dobrih

  

duo vie dost jih je bla placjala

   

Počasna

            hoja s spregnjeno glavo

spremja palco

malo od tega kupjeno

   

            se parvast

                        ki dost peče

  

Lasje lepuo počesani

laščecja torbica

jopa ki je ratala prešaroka

   

pa pod pasko

            šele spomini na ljubezen

an na bose noge

                        lahne

                                   lahne

                                               lahne

     

Prima di arrendersi

   

Piedi gonfi

in scarpe troppo strette

            quelle da festa

                        ancora buone

  

chissà quanto le aveva pagate

  

Un incedere

            lento a testa bassa

accompagna il bastone

comprato da poco

           

            abituarsi

                        quanto brucia

   

I capelli ben pettinati

la borsettina lucida

la giacca diventata troppo larga

   

ma sottobraccio

            ancora ricordi d’amore

e di piedi scalzi

            leggeri

                        leggeri

                                   leggeri

*

  

Mrieža

   

An takuo

na začetku tele jeseni

pluje rahlo

tud oranžna mrieža      blizu hiše

    

čelih šele parvezana par kole

  

Pomočni vietar

poskrivš

ji je odvezu an konac

an jo je potisnu v luht

vickrat

   

jo je napunu sebe

   

tka de ji je stuoru čut

tist poskok sarca

od kar sanjaš de padaš od vesokega

an na vieš

če je strah

    

al pa samuo frajnost

    

La rete

   

E così

in questo inizio di autunno

vola lieve

anche la rete arancione vicino casa

   

seppur ancora imprigionata ai pali

   

Il vento complice

di nascosto

ne ha liberato un capo

e l’ha sospinta in alto

più volte

   

riempiendola di sé

   

riuscendo a farle provare

quel balzo al cuore

di quando sogni di cadere dall’alto

e non sai

se è paura

   

o solo libertà

*

   

Rože u vietru

   

Neusmiljen vietar od telih dni

je nesu deleč

rože mojih kanelonu

   

takuo pruot vičer

z glavo ki me je boliela san obliekla

parve duge rokave

u telin skor začetku jeseni

   

Vien

de u mislih

kandreja zacjefana

od blaga za spieglat

je bla imiela nazaj

sapat

olajšana

   

pa san poslušala zasušen klic

okradjenih kanelonu

takuo san jih zmočila pried ku prepozno

an san snela sliečene špice

   

za pustit manku an trošt

u telin skor začetku jeseni

   

Fiori nel vento

    

L’impietoso vento di questi giorni

ha portato lontano

i petali rossi dei miei gerani

   

così sottosera

col mal di testa ho indossato

le prime maniche lunghe

di questo quasi autunno

   

Lo so

che nei pensieri

la sedia soffocata

dalla biancheria da stirare

avrebbe dovuto

respirare

alleggerita

   

ma ho ascoltato l’arido richiamo

dei gerani depredati

così li ho bagnati prima del troppo tardi

e ho tolto gli spogliati steli

   

per lasciare almeno una speranza

in questo quasi inizio di autunno

*

   

Brez maternega jezika

   

Morebit ne bon ušafala preca kuražo

za van na šobe poviedat

an morebit

jo ne bon tiela ušafat nikdar

   

pa sta zaries

grozno krivico nardil

vidva

ki niesta naučil

maternega jezika vaše snuove

   

Adno krivico šele buj neusmiljeno

ga nucat med van

kar necjeta se stuort zastopit

   

Niesan migu ist

ki bi van muorla poviedat

de koranine takuo malo poznane

takuo malo glaboke

morejo stuort past

driev

četud zgleda rasčoc an velik

    

Senza lingua madre

   

Forse non troverò presto il coraggio

di dirvelo in faccia

o forse

mai lo vorrò trovare

   

ma avete davvero

commesso un atroce delitto

voi due

a non aver insegnato

la lingua madre ai vostri figli

   

Un delitto ancora più crudele

ad usarla fra voi

quando non volete farvi capire

   

Non sarò mica io

a dovervi dire

che radici così poco conosciute

così poco profonde

possono far cadere

un albero

nonostante appaia rigoglioso e grande

*

   

Mah

   

V hosti ob ciesti

            tisti blizu korita

                        parve ujske

postlane tla z rusin liscjan

an mah ki se plieze

na partliku sivih dreves

    

            Duo vie če je dobro al pa ne

   

Uoda v potoce

premešava sanje an stare nasmiehe

od kar je šele obracjala

majhane kolesa malnu

vedielane uoz špic

an ljubezni do fantazije

    

Z ničan

se zbuja okus po arbidinc

zak tud pozime

            ostane nimar zelen

                        mah

                                   v bukuovi hosti

   

Muschio

   

Nel bosco sulla strada

            quello vicino alla fontana

                        della Grande Guerra

un pavimento ruggine di foglie secche

e muschio che si arrampica

ai piedi dei tronchi grigi

             

            Chissà se è un bene oppure no

  

L’acqua nel ruscello

rimescola sogni e vecchie risate

di quando ancora faceva girare

piccole ruote di mulino

ricavate da rametti

e amore di fantasia

  

Con un nonnulla

si risveglia il sapore delle more selvatiche

perché anche d’inverno

            rimane sempre verde

                        il muschio

                                   nei boschi di faggio

*

    

Andreina “Cekova” Trusgnach, appartenente alla minoranza linguistica slovena del Friuli Venezia Giulia, è nata a Cividale (UD) nel 1961 e risiede a Cosizza di S. Leonardo (UD). Scrive prosa e testi poetici nel dialetto sloveno delle Valli del Natisone. Nel 2011 ha pubblicato il libro di poesie Sanje morejo plut vesoko (I sogni possono volare alti). Tra i premi conseguiti, il 1° posto al Festival Fronta (2013, Kobarid, Slovenija), al Blue notte (2018, GO), nella sezione lingue minoritarie Premio internazionale G. Bertacchi (2019, Sondrio), nella finalissima dello stesso premio (2019, Campidoglio, Roma) e il 2° posto alla XVI edizione del Premio nazionale Città di Ischitella – Pietro Giannone (2019) con la raccolta inedita Pingulauenca, ki jo nie bluo (L’altalena che non c’era), ora in  imminente uscita per ZTT-EST Editoriale Stampa Triestina (TS) in collaborazione con l’Associazione Progetto Alfa (SO). La raccolta inedita Pried ku se podat, “Prima di arrendersi”, dalla quale sono tratti i testi qui proposti, è stata finalista alla XVII edizione (2020) del Premio nazionale Città di Ischitella – Pietro Giannone.

 

 

One thought on “LA PAROLA TERRA MATERNA, RUBRICA DI POESIA DIALETTALE A CURA DI ANNA MARIA CURCI: ANTONIO MADDAMMA, GRAZIA SCUDERI, ANDREINA TRUSGNACH”

  1. Scopro solo ora questa rubrica che spero abbia un seguito. Da innamorata della poesia dialettale, nel mio caso in lingua milanese, ho letto con molto interesse le poesie proposte che ho trovato molto coinvolgenti e ho cercato di interpretare nella loro forma originale.
    Poiché anch’io mi diletto a scrivere poesie vi proporrei volentieri, se la Signora Anna Maria Curci fosse interessata, qualche mia produzione.
    Grazie dell’attenzione
    Simonetta

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