“La poesia è una pittura che si sente e non si vede”: Elisabetta Sancino su Ursprungliches Leben – poesia e pittura in dialogo, di Martina Dalla Stella, Silvia Secco e Claudia Zironi, Edizionifolli, 2018.
“La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”, scrive Leonardo Da Vinci nel suo Trattato della Pittura, inserendosi in un dibattito che affonda le sue radici nell’antichità, volto a stabilire la prevalenza di una delle due forme d’arte sull’altra. Per Leonardo, dunque, così come per moltissimi altri artisti che verranno dopo di lui, pittura e poesia non solo non sono contrapposte ma danno vita a un dialogo intenso e fecondo.
E’ quanto accade leggendo Ursprüsngliches Leben, un libro esile e prezioso, dal formato insolito, simile ad un album da disegno, che invita ad essere assaporato con gli occhi prima ancora di venir letto. Sfogliandolo, si è subito catturati dalle immagini che Martina Dalla Stella ha scelto di accostare ai testi di Silvia Secco e Claudia Zironi: alberi, farfalle, fiori ma anche volti, corpi e mani. Immagini nate indipendentemente dalle poesie e che trascendono quindi la mera funzione illustrativa, spingendo invece il lettore a vedere il testo da un’angolazione diversa e per certi versi sorprendente.
“Pensa a ciò che non resiste, i boccioli/il desiderio e la pazienza, l’umano/vivere”, scrive Silvia nella prima poesia della raccolta ispirata alle magnolie fiorite e Martina le risponde rappresentando un albero in controluce quasi spoglio ma ancora vivo, coi rami che paiono danzare nel vento. “Questa maestà di magnolia del giardino a breve si vestirà da sposa”, continua Silvia, mentre Martina è già andata oltre, guarda verso l’autunno che, tuttavia, è solo il preludio ad un nuovo inizio.
Nel dipinto “Alchechengi”, i calici trasparenti di questo albero, detto anche “lanterna cinese”, custodiscono piccole sfere rosse che si legano cromaticamente alla parola-chiave del testo di Claudia (“La parola “fuoco” significava calore/per il primo uomo/e allora l’uomo chiamò “fuoco” il fuoco”) e sembrano nel contempo alludere anche alla divinità evocata da Silvia, intenta a preparare un cibo immortale (“E questo/che ne rimane lo impasto di nuovo/io qualche decina di amarene/mi covo nel grembo. Per voi preparo/un pane in dono, minuscolo e agro”). Anche in questo caso l’immagine non punta a descrivere ma piuttosto ad amplificare la suggestione e l’allusività della parola.
Un altro dialogo particolarmente riuscito mi sembra quello di “Papaveri”, un olio su tavola dalla cromia intensa, dove il cremisi delle corolle spalancate è esaltato dall’accostamento al complementare verde e rimanda immediatamente alla passionalità del testo di Claudia (“Ti cercherò tra le spighe e i papaveri/imbiancati, nelle tane lasciate vuote/dalle pietre (…)Se c’è una possibilità di ritrovarci/non la lascerò intentata, il giorno/della fine del mondo”). Il papavero, però, ha in sé anche una fragilità che lo rende vulnerabile al soffio del vento: quel soffio azzurrino che attraversa il quadro di Martina e rimanda ai versi di Silvia (“Insegnami il coraggio dei papaveri/ai margini della strada, l’ilarità /di certe spighe, a spasso con le folate”).
La pittura di Martina ricorda a tratti le stampe di artisti giapponesi quali Hiroshige e Hokusai, maestri che si sono spesso ispirati agli haiku e a quella che Roland Barthes definisce “poetica di vuoti e di silenzi”. Nei due dipinti “Goccia” e “Pioggia” Martina riesce a rendere molto bene quella “fragile essenza di apparizione” che, secondo Barthes, è l’essenza dell’haiku: gocce di pioggia impalpabili ma capaci di tracciare calligrammi sull’acqua, quasi a voler scrivere a loro volta una poesia. Ed è proprio l’acqua a legare le due immagini ai testi di Silvia e Claudia, anche se entrambi i componimenti possiedono una sensualità molto esplicita, del tutto assente nei dipinti. Nella poesia di Silvia, il desiderio fisico è una forza che riesce a montare alta, facendosi “marea e piena, allagare”. Scrive Silvia: “guarda come mi riduci: fradicia e/bellissima, come mai sono stata/Toccami lì dov’è la ferita e lì/entra, slabbra e straziami”.
Nel testo di Claudia, l’amata si trasforma in “nuvola di pioggia dall’oriente/umida e calda di monsone, profumata/di zenzero e vaniglia” per fondersi con l’amato. Ritorna dunque l’Oriente, ma non quello mistico e sospeso evocato da Martina, bensì il Giappone sensuale e languido della geisha.
Di tutt’altro tenore sono i testi e i dipinti dedicati alla dolorosa odissea dei profughi che muoiono ancora prima di poter iniziare una nuova vita: per questo, nei versi di Claudia, li ritroviamo “tutti in fila sulla banchina/uomini e sogni/nei sacchi di plastica”. Sacchi dai quali spuntano piedi stranieri, con “tratti somatici adatti alla platea/dei telegiornali. Tredici paia/uguali in tutto e per tutto al mio paio /da lontano da dove li guardiamo/scordarsi dei passi, annerire” scrive Silvia, alludendo anche all’indifferenza di Dio verso la sorte di questi figli: un Dio che non ha nome ma che ci vede tutti uniti nello stesso dolore.
E non c’è nessun Dio nel cielo del dipinto “Ancora”, ma solo nubi dalle forme mostruose a sovrastare la sequenza impressionante di corpi bianchi stesi in riva al mare. L’acqua, in questo caso, non è fonte di vita ma portatrice di morte e le onde dai colori sempre più cupi, con gli azzurri che diventano blu e poi neri, stesi con pennellate veloci e brutali, danno perfettamente l’idea della tragedia che si è appena compiuta. Resta il candore abbacinante dei corpi, reso ancora più evidente dal contrasto con la sabbia chiazzata di sangue.
Il libro, tuttavia, si chiude nel segno dell’amicizia e della solidarietà: le poesie che Silvia e Claudia si dedicano e la figura femminile disegnata da Martina consegnano al lettore un messaggio di amore, condivisione e speranza. “Ti potessi guardare amica mia/con questi miei privati occhi sui tuoi ti vedresti/assoluta come il sacrificio”, dice Silvia a Claudia, alludendo alla forza e al coraggio che animano i versi dell’amica. Più delicato, quasi impalpabile, il ritratto che Claudia fa di Silvia: “mia sorella declama poesie/con un ombrellino in mano, annaffia le rose/stando sule punte sui fili del bucato”. Tre donne, tre amiche unite da un dialogo nel segno della luna, elemento femminile per eccellenza, che sembra sgorgare miracolosamente dal petto della misteriosa fanciulla disegnata da Martina, a suggellare un legame tanto più profondo quanto più lo si legge con l’occhio dell’immaginazione, l’unica che ci permette di dare unità a ciò che è apparentemente distinto, come la pittura e la poesia. In questo risiede la forza di questo libro, da leggere e rileggere per trovare ogni volta una nuova chiave di lettura, lasciando che tutti i nostri sensi siano attraversati dal potere della parola e dell’immagine e ci permettano di andare oltre. Perché, come scrive William Blake, geniale poeta, pittore e illustratore, “se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come effettivamente è, infinito” (W. Blake, The Marriage of Heaven and Hell).