La resistenza del dialetto, editoriale di Patrizia Sardisco

La resistenza del dialetto, editoriale di Patrizia Sardisco.

     

     

Contrariamente a quanto si potrebbe sostenere, credo che le ragioni del rinnovato interesse per la scrittura in dialetto debbano essere cercate, oggi, non tanto in un nostalgico e autistico rivolgersi con lo sguardo e la voce all’indietro, verso un disseppellimento autologico di micro radici, quanto in una inquieta e famelica spinta in avanti verso turbolenze aspre e poco o per nulla rassicuranti, verso la pronuncia di tempeste emotive nuove e universali con labbra a filo di crogiolo, nel sibilo di un filtro che sta cercando con tenacia un’altezza.

In questo senso osservo, dal mio vertice modesto e certamente parziale, come la poesia neo-dialettale, oggi appaia (anche) una delle forme di tensione verso le stesse esigenze di sperimentazione e di ricerca che inducono ogni poeta contemporaneo ad avventurarsi in territori linguistici poco pervi ma le cui pietre puntute e scabre si dimostrino in grado di restituire verità e vigore a un idioma impoverito perché avvertito come fin troppo polito, abusato e infitto, non sempre in grado di svincolarsi dal sovraccarico di senso, dalla ridondanza, dalla sterilità euristica ed estetica.

L’opzione della scrittura in dialetto accetta (o forse insistentemente cerca) la sfida a cogliere l’opacità del reale attraverso uno strumento a sua volta opaco, irto, respingente, per una sorta di omeopatia poetica. Accetta (e cerca) la straordinaria avventura della trasfigurazione poetica dei luoghi interiori, del tempo, dello spazio vitale dell’Io ma attraverso una fuga dalle chiavi lessicali e sintattiche omologanti che disserrano porte già aperte e conducono a corridoi asfittici e risucchianti.

Accetta, non ultimo, il doppio salto (vitale) nel vuoto creato dall’assenza di immediatezza e dall’irriducibilità senza residui di un senso che resta in parte sepolto nella lingua che lo genera attraverso le parole, custodie di pensiero ampie tanto da contenere intere visioni del mondo. Ne accetta il salto logico attraverso il cerchio di fuoco, come del resto sempre sa fare la Poesia, ma lo fa in cambio di una promessa mantenuta di ritmi e timbri diversamente inattingibili, sonorità evocative e percussioni arcane, pronunce prismatiche che schiudono mondi moltiplicati e complanari per la deflagrazione innescata dal cortocircuito tra polarità opposte e distantissime di senso e suono.

In questa direzione mi sembra che il dialetto, nella scrittura contemporanea, possa dispiegarsi quale lingua del “ricordare, ripetere e rielaborare”, per prendere a prestito uno dei titoli più celebri del padre della psicoanalisi. La riedizione, la rinnovata categorizzazione della voce dialettale nella scrittura poetica, fondata essenzialmente sulla rievocazione della parlata ascoltata più che non utilizzata nelle fase precoci dello sviluppo psicolinguistico dei poeti contemporanei, e in particolare dei più giovani, appare l’esito di una rielaborazione in parte virtuosamente acritica e alogica dello strumento che, tra le dita di una sensibilità poetica votata a sperimentazione e ricerca, dona frutti inattesi e di vario indice zuccherino.

Non è uno frutto morbido, tuttavia, non è uno strumento tenero, il dialetto: ed è quasi una massima, per me, un monito che rinnovo soprattutto a me stessa per ricordarmi che le asperità che serrano la gola non devono trovare impreparati. Asperità del filtro, che segna e riga e raschia nella impietosa cernita. Asperità del mezzo attraverso cui passa l’accoglienza del filtrato: quel pregiudizio pretestuoso che lega la poesia in dialetto sempre agli stessi temi e alle stesse atmosfere folkloriche, negandole a priori che possa e sappia parlar d’altro. Quel pregiudizio che la vuole una forma di resistenza antagonistica al Moderno destinata a soccombere perché senza vie d’uscita.

Preferisco, dal canto mio, pensare alla resistenza di cui parlava Zanzotto nella sua celebre definizione di Poesia tout court: “…pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua” (Stefano Dal Bianco, “Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto”, in Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, 2011). Ecco, è questa per me la resistenza del dialetto: l’asperità di quel filo sottilissimo che rende faticosa la comunicazione per una “oscurità di eccesso” (ibidem) ma in cui la corrente diviene nello sforzo luce di Poesia.

             

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2 thoughts on “La resistenza del dialetto, editoriale di Patrizia Sardisco”

  1. Perfetto. Pienamente d’accordo su tutto. Bersaglio centrato con acutezza e passione. Grazie patrizia

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