La saggezza dei corpi di Martina Campi, L’arcolaio Ed., 2015, recensione di Giuseppe Martella.
Quella di Martina Campi è una poesia epidermica anche se visionaria. Nel senso che il suo sguardo sfiora le cose con grazia, le pietre come se fossero fiori e lei avesse paura di gualcirli. Così mi immagino che le sue dita sfiorino i volti di chi ama e con la stessa grazia i tasti del computer, componendo nel tessuto di rime e di ritmi appena accennati, nei dettagli fugacemente evocati, figure di un vissuto tanto effimero quanto tangibilmente vero. E dunque in quella che è eminentemente una poesia visiva e visionaria, onirica e quasi allucinatoria, io voglio porre l’accento piuttosto sul tatto, sulla leggerezza del tocco di questi polpastrelli che sfiorano la tastiera restituendo alla vita uno spartito che era traumaticamente divenuto lettera morta. Ovvero, kantianamente, uno schema psicosomatico che aveva rischiato di andare in frantumi, in tante minute schegge percettive quante sono le sollecitazioni neuronali in un nanosecondo – e di non restituirci più nel flusso alcuna Gestalt. Di perdere, cioè, la presunzione dell’essere nell’abbandono totale al divenire. Di sacrificare insomma Apollo a Dioniso. Questo rischio scampato per un soffio è sempre in agguato. Questo non voluto “déreglement de tous les sens” (Rimbaud), che è poi la condizione ideale del fare poesia, lascia certamente tracce nella scrittura di Martina Campi, che costituisce una sorta di circolo (o vortice) mimetico prima ancora che ermeneutico fra il malessere biopsichico e il ritorno alla fragile normalità, affidato appunto al pharmakon (rimedio-veleno) della scrittura che produce, custodisce e rende efficace il ritorno della Parola d’amore che si incarna. Poiché è l’incarnazione del Verbo salvifico appunto a costituire il nucleo generativo, la cellula melodica, di questo poemetto. (Una composizione che ha una musicalità intrinseca benché sottaciuta) Ma l’ordine di questo discorso è squisitamente, delicatamente soteriologico, come viene in luce nel settimo giorno, nella conclusione di questa vicenda che è nel contempo un’autoanalisi e una resa di grazie. Nel compimento di questa ricreazione del sé, quando “la voce…si fa misura” (39) e ti chiama verso l’ignoto, (fuori dalla caverna, prigione, ospedale, teatro d’ombre) nella luce abbagliante dove ti volgi “lacrimando/ guardando/ l’ultima volta/ indietro.” (39) E lo staccato minimale del verso non fa altro qui che sottolineare la situazione eminentemente poetica, orfica, di chi non può voltarsi indietro verso gli inferi che ha appena lasciato – pena la perdita della sua metà prediletta, della sua propria forma riflessa, dell’integrità recuperata, attraverso l’esperienza della crisi, nel chiasma salvifico, nella simmetria speculare fra la Parola d’amore e l’amore della Parola. Ovvero nel mistero dell’incarnazione del Verbo che guarisce aprendoci l’uno all’altro, nella reciprocità dello stare insieme.
E’ questo il senso, religioso e metafisico anche, del cambiamento del cuore, della metanoia, vissuta e auspicata alla fine di questo percorso come condizione preliminare di una più profonda e duratura comunione di corpi e di intenti: “mentre parlavi/ mi inondava un pianto verde/ come se il cuore non fosse/ più il mio…ce ne torniamo a casa/ con la commozione in sommossa/ a fissare il panorama che scorre/…tutti i piani per ricominciare/…il cuore in gola/…e le domande/ che ritornano/ e si fanno silenzio/ che ci unisce.” E’ il compimento del nostos, del ritorno, della ricognizione del dolore, della “saggezza dei corpi”. Una guarigione tanto preziosa quanto fragile, un equilibrio esposto al giro dei giorni, alle “oscillazioni della vigilanza”, nella routine dove “tutto ritorna com’è/ e tutt’intorno s’aggira fino/ ai prossimi giorni, ignoti.”