La terra, la luce, la pioggia.
Dialogo con FRANCA MANCINELLI,
di Giorgia Monti
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
Da Pasta Madre – Nino Aragno Editore, 2013
fanno un rumore secco
le cose che sono state vive
*
ramifico secondo la luce
alberi maestri
a spalancarmi il petto
con la forza che viene da un seme
*
da qui partivano vie
respirando crescevo
nel crollo, qualcosa di dolce
un incavo del tempo
tutti gli occhi che ho aperto
sono i rami che ho perso.
*
al centro il mistero, lo stame
del tempo. Crescono petali
e giorni. Non c’è vaso
né giardino. Soltanto
la terra. La luce. La pioggia.
*
Alogenuri d’argento
non si chiudono gli occhi.
Vedo da dentro -il buio
dal germe a questo incavo:
scrittura, mia camera oscura.
Da Tutti gli occhi che ho aperto – Marcos y Marcos, 2020
(sezioni Alberi Maestri, Luminescenze e Tre sillabe di silenzio)

Le note che state leggendo nascono dalle mie letture, ma anche da un incontro reale con Franca Mancinelli avvenuto sul finire di ottobre 2021 in occasione del seminario di scrittura Di passi e di guadi che la stessa Mancinelli ha tenuto a Cesena, ospite del Teatro Valdoca all’interno della rassegna Ciò che ci rende umani.
Il laboratorio da Franca veniva introdotto così: “La poesia è una pratica di salvezza quotidiana; una forma di rito, di radicamento nella vita. È come ritrovare i piedi sulla terra, in una direzione di cammino. È proprio questo un verso: la possibilità di dirigersi, di andare, vincendo la paura, lo smarrimento, l’incertezza. Una forza che ci guida e a cui ci affidiamo” (da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi, 2018).
Ecco già in parte esplicitata la risposta alla domanda che in questo numero poniamo agli autori e alle autrici ospiti e in relazione alla quale si tenta di redigerlo.
Partendo da un riferimento a Pasta madre uscito per Nino Aragno Editore nel 2013, la mia selezione si sviluppa sull’ultimo libro pubblicato per Marcos y Marcos nel 2020 Tutti gli occhi che ho aperto, benché gli elementi di respiro, lo sguardo alla natura e nella natura, siano fortemente presenti in tutte le opere di Mancinelli, a partire dall’elemento primo: il mare.
A proposito di quest’ultima raccolta, che si articola in otto sezioni, Franca Mancinelli ci dice che animali e alberi sono le nostre guide, l’incontro con un mondo altro che la poesia ha il compito di tradurre connettendosi proprio con la lingua originaria, quella della nostra specie perché è esattamente questo il compito dell’artista, quello di essere custode e tramite della bellezza, “la poesia deve darci la luce e la forza necessarie per restare nel bosco nero, capovolgere l’orrore” dichiara l’autrice.
Nello sviluppo della sua opera, il verso, che nasce già ben calibrato, si fa via via sempre più breve, la parola rarefatta, incisiva, oracolare. È una parola attenta che respira nell’anima delle cose e la propaga direzionando il nostro sguardo fino alla soglia dell’inesplorato.
Tutto è sacro, sembra dirci Mancinelli, tutto richiede protezione, la verità che si nutre di silenzio è in pericolo, poco si deve mostrare per essere preservata, ma al contempo va incessantemente affermata e coltivata attraverso piccoli semi, incavi e spazi più ampi di luce.
Il primo verso di ogni componimento comincia in minuscolo perché possa accogliere, ricevere in dono la voce primigenia, quella che sta prima della parola, “una maiuscola all’inizio è un atto di arroganza … io non inizio niente, mi affido alla forza materna della lingua” afferma l’autrice.
Tra i suoi tanti suggerimenti di scrittura, molto mi ha colpito il suo invito a “portare l’esperienza della fine: pensare che stiamo vivendo qualcosa per l’ultima volta” ed è proprio su questo che intendo lasciare la parola a Franca Mancinelli.

La specie umana, per sua stessa mano, sta vedendo qualcosa per l’ultima volta?
Se sì, precisamente cosa?
Può la poesia evitare la catastrofe?
“Ogni cosa ci appare per l’ultima volta, se sappiamo incontrarla oltre la superficie dell’abitudine. È forse questo uno dei principali doni della parola poetica: condurci a vedere la vita nel suo stato nascente, nel suo incessante darsi che, per non svanire, ha bisogno di una custodia; è questo che possiamo fare, con la poesia, con l’arte, plasmare una forma dove la vita possa continuare a risplendere.
Credo che in questi anni stiamo vivendo una “mutazione antropologica” ancora più rapida e irreversibile di quella che registrò Pasolini nel secondo dopoguerra, quando nella civiltà occidentale si aprì quella grande faglia epocale che portò allo sgretolarsi della millenaria civiltà contadina nella società dei consumi e della cultura di massa: «la più grande rivoluzione sociale dall’età della pietra» la definì Hobsbawn. Verso quale mutazione ci stiamo muovendo ora, a una velocità che è la stessa con cui si propaga questo virus che ha paralizzato il pianeta, costringendoci a modificare la nostra esistenza quotidiana, il rapporto con il nostro corpo e con chi, familiare o sconosciuto, ci è vicino? La poesia è sempre stata la compagna dei tempi di crisi, di oscurità più fonda, di rivoluzione. Mi auguro che anche ora resti al fianco della nostra specie, portandoci la perseveranza di chi, come una sentinella, mantiene in ogni circostanza La posizione -così si intitola una poesia di Fortini che sembra parlare ai nostri anni: «Noi porteremo comunque a termine il compito vegliando». Se chiamiamo “catastrofe” quello che sta accadendo, ascoltiamo con attenzione il significato di questa parola: un rovesciamento, un rivolgimento. E ricordiamo che bisogna rivoltare la terra, arare il campo prima di seminare. E che forse ci è molto salutare la rottura di questa superficie dove siamo stati a lungo imprigionati, nei riflessi distorti di un’immagine di noi che ci voleva senza malattia, immortali, come nel nostro inconscio di bambini. La poesia può aiutarci ora a riconoscere la presenza di questa sorella a lungo dimenticata, la morte, al centro della nostra vita, a riscoprirla maestra nella possibilità di guidarci a vedere ciò che sta sotto (katá): le fondamenta, le radici del nostro vivere.”
Non mi resta che ringraziare Franca Mancinelli per questo ulteriore atto di semina e per il dono dell’inedito che corona e suggella questo nostro dialogo.
il deserto di carta
e pellicole avanza.
Tempo di arare il tuo campo visuale.
Attendere a zolle sconvolte
la pioggia. E riaffioreremo
abitando questa sfera
come una giostra o un nido.
Franca Mancinelli è autrice di quattro libri di poesia: Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018), e Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020). Traduzioni di suoi testi sono apparse su riviste e antologie straniere. Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali, tra cui Refest – Images and Words on Refugee Routes (2018) da cui è nato Taccuino croato, ora in Come tradurre la neve (AnimaMundi Edizioni, 2019). Con traduzione inglese di John Taylor sono usciti per The Bitter Oleander Press (Fayetteville, New York), The Little Book of Passage (2018) – traduzione di Libretto di transito –, e At an Hour’s Sleep from Here: Poems (2007-2019), una raccolta dei suoi primi due libri con alcuni inediti. Con traduzione di Taylor, per lo stesso editore, è in uscita all’inizio del 2022 una sua raccolta di prose inedita in Italia, The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021). www.francamancinelli.com