La verità in cambio di cosa?
Conversazione con SAM PAGLIA,
di Giorgia Monti
Essendo conterranei, ho il privilegio di poter incontrare Sam Paglia di persona per la realizzazione di questa intervista avvenuta il 19 ottobre 2022.
Ecco Sam, ci siamo, partiamo con l’intervista.
Rifammi pure la domanda.
Il tema è “Rumore bianco, l’illusione dell’informazione” dove il rumore bianco sta a indicare un sottofondo uniforme e continuo che serva a coprire suoni indesiderati e quindi, nello specifico, teso a sviare l’attenzione, una sorta di fruscio che viene volutamente mantenuto costante per distoglierci da qualcosa di fastidioso, da un rumore maggiore o qualcosa di più grosso che sta sopra a questo sottofondo.
Il tema è molto ampio e complesso e a riguardo ho smesso di farmi troppe domande perché in realtà mi chiedo cosa possa cambiare oggigiorno tra un’informazione veritiera, la finzione o anche la finzione dello sdegno nell’apprendere che certe cose non sono tanto chiare, senza poi però dare seguito a una vera e propria ribellione a questo.
Fondamentalmente sono dell’idea che la gente non sia alla ricerca della verità ma sia più incuriosita dal fatto che non ci sia la verità per cui in qualche maniera è più spinta a discutere sul dubbio piuttosto che meritarsela la verità. Ce la meritiamo la verità? E una volta che hai la verità cosa fai, cambia qualcosa? Una volta che sai la verità, cosa fai?
Stai dicendo che non c’è una coscienza collettiva che inneschi un qualsiasi tipo di reazione?
No, non c’è.
E come ci siamo arrivati?
Ci siamo arrivati accettando in cambio un piccolo premio in comodità.
Ricevo a casa il cibo la sera cliccando su un tasto che mi permette di muovere delle persone che mi portano l’hamburger sul divano e mi evitano di prendere la macchina, finire in coda, oppure che mi permette di poter scegliere: scoprire che vicino al negozio che fa gli hamburger c’è quello che fa i calzoni fritti alla napoletana e così poter scegliere.
Io preferisco la comodità di schiacciare un pulsante e sapere che entro un quarto d’ora c’è una persona che mi porta l’hamburger con le patatine.
Se poi mi dicono guarda che schiacciando quel pulsante lì la gente scopre dove abiti, scopre quanti soldi hai in banca o che sei omosessuale piuttosto che tu sia di un pensiero controcorrente, questo, messo su una bilancia, non peserà mai più della comodità di avere un hamburger alle otto di sera senza spostarsi dal divano.
È questo secondo me il problema.
La verità, ovvero il fatto che schiacciare quel pulsante implichi un sacco di cose che poi sono contro la tua libertà e contro la tua privacy, non riesce a raggiungere la forza del gusto di avere quel senso di potere, anche minimo, di uno che monta in bicicletta e si fa 5 km per portarti un hamburger.
È una visione forse un po’ drastica quella che ho, ma questo, ingigantito e portato su tanti altri aspetti, è un po’ il sistema in cui viviamo, cioè quello che ci permette di continuare a vivere nel dubbio che sia tutta una fregatura però allo stesso tempo rendendoci conto che ci sarebbero delle rinunce da fare che non siamo disposti a fare… per cui la verità… la verità in cambio di cosa? Vivrò meglio? Avrò, non so, un parcheggio sotto casa non a pagamento? Capisci?
Sì, capisco. È drammatico, no?
Sì, tutti fanno gli eroi.
A parole è bella l’idea di essere liberi da qualsiasi tipo di controllo o schiavitù ma poi nel pratico siamo tutti legati a un benessere anche effimero che ci condiziona la vita di ogni giorno, perché io devo fare l’eroe se poi rischio di perderlo? Preferisco non sapere.
Diversamente la gente avrebbe dovuto scendere in piazza, se ne sarebbe dovuta già accorgere.
Quindi pensi anche tu a uno smantellamento culturale perpetrato metodicamente negli anni?
Certo, è stata smantellata proprio la coscienza personale.
C’è un disegno?
Il disegno forse affonda le sue radici nel capitalismo, nell’idea di questa necessità di avere di più dalla vita senza considerare che la vita in realtà è qualcosa che rimane misterioso e forse, rispetto a tutto il resto, anche sopravvalutato.
Certo la vita è importante, però secondo me la vita umana non è più importante di quella delle piante, dei fiori o dei pesci.
È questo che noi abbiamo dimenticato, il fatto di essere parte di qualcosa e non sopra a qualcosa.
Tornando alla verità credo che ognuno di noi debba innanzi tutto capire chi sia, se è vera quella che è la sua vita o se anche quella è una scorciatoia rispetto a tutto quello che si può fare in più.
Forse il problema proprio dell’informazione parte da noi: siamo informati da noi stessi su noi stessi abbastanza per poter poi gestire delle verità? Per questo prima dicevo ce la dobbiamo meritare.
Fino a che punto ci conosciamo, fino a che punto la nostra vita non è altro che una messinscena fatta di piccoli sotterfugi per evitare di metterci in discussione?
Forse a volte si cerca una verità esterna per evitare di scavare dentro sé stessi, di cercare una verità propria che sia attendibile, che sia accettabile.
Come dicevo prima, c’è questa cosa dello sdegno generale ma poi questo Uomo è veramente così padrone di sé stesso in termini di psiche, di consapevolezza da poter pretendere di gestire l’Informazione in assoluto? O la sua altro non è che la ricerca di quella cosa che in quel momento lì fa più comodo, una verità momentanea, prête-à-porter, giusto per soddisfare un bisogno temporaneo e non assoluto della verità.
Questa tua visione, oltre che dalla tua sensibilità personale, ti deriva da quanto hai potuto osservare in tanti anni di mestiere da musicista?
Quello dal palco è un punto di osservazione privilegiato?
Questo sicuramente.
Quello del palco è un punto di vista interessante perché nel momento in cui sei l’oggetto di un evento in cui l’attenzione è focalizzata su di te, tu hai già il potere di distorcere l’informazione in qualche modo e capisci fino a che punto la gente accetta certe cose soltanto per il fatto di essere parte di quella cosa.
Nessuno o quasi nessuno è impermeabile al fascino del leader, del personaggio carismatico che in quel momento lì è illuminato, perché anche chi ha dei dubbi o è presente soltanto per muovere delle critiche è in qualche maniera legato a quella figura che in quel momento lì, come dicevo, è illuminata.
Io da artista spesso e volentieri sul palco ho fatto degli esperimenti, ho capito che in quel determinato momento potevo dire delle cose assurde e anche scorrette ed essere non solo perdonato ma anche esaltato.
E questo è un po’ il gioco del leader politico, quello che si può permettere di testare sulla gente qualsiasi frustrazione personale e farla diventare qualcos’altro, farla diventare una legge, farla diventare…
Una leva anche, no?
Una leva, sì.
Per esempio qualche sera fa ho fatto un concerto a Rimini e ad un certo punto da un sacchetto ho cominciato a tirare fuori delle caramelle durissime come dei sassi e ho cominciato a tirarle come un matto alla gente e la gente ha accettato, cioè ha accettato una cosa che personalmente trovavo non dico offensiva, ma sicuramente provocatoria.
A me avrebbe dato fastidio in effetti…
Però nessuno ha più il coraggio di alzarsi in piedi e dire “oh ma che cazzo mi tiri le caramelle?!?”
Qualcuno che me le ha tirate indietro in realtà c’è stato e io le ho accettate perché è parte dello spettacolo.
La gente nel dubbio di pensare se sia giusto o sbagliato quello a cui assiste -perché avere un punto di vista personale è sempre e comunque un lusso ormai-…
Si adegua o aderisce, dici…
No, rimane immobile.
Rimane immobile perché ha paura di reagire e di essere giudicata anche da quello di fianco.
A quel punto lì tu hai il potere, per qualche minuto, per qualche ora, di gestire questo mare e farlo diventare tempesta o di calmarlo a seconda della tua volontà.
Però non bisogna mai dimenticare che è una cosa momentanea. Io ho sempre bene in testa il fatto di essere un attore in quel momento lì, non credo mai veramente a quello che dico: è spettacolo, è un gioco.
Questo avviene perché io sono così ma forse per qualcuno non abbastanza intelligente diventa una missione il fatto di muovere della gente e spingerla in una direzione piuttosto che un’altra.
Una cosa che contraddistingue uno spettacolo di questo tipo da quello che può essere, che so, un leader politico o l’aizzare le persone in un certo modo, è l’autoironia che comunque crea un equilibrio in tutto questo. Il fatto che io scandisca in maniera ironica che si tratta di uno spettacolo, che c’è una presa in giro anche di me stesso, dei fallimenti personali, delle paure.
È un misto in cui la gente tende a riconoscersi, per cui secondo me la comunicazione è importante quando sai dosare la capacità di imporre una cosa ma anche di metterla in discussione allo stesso tempo.
Però lo fai tu, non chi ti ascolta.
Lo faccio io, è come se dessi delle indicazioni tipo: guardate che comunque là c’è una porta per uscire se lo spettacolo vi dà fastidio.
Le persone hanno bisogno di un leader ma hanno anche bisogno di scoprire che è qualcuno di attaccabile, questo dà ancora più sicurezza: la forza assoluta, l’imposizione di un’idea non vince mai, devi essere veramente ottuso.
Dico sempre che la mancanza di autoironia è una delle cose peggiori che esista.
Su questo mi trovi assolutamente d’accordo, però quello che emerge da quanto racconti è una forma di totale passività da parte di chi fruisce e ascolta, o no?
Secondo me è una forma di passività cosciente.
La gente ha bisogno di avere dei momenti di passività, ha bisogno di lasciarsi andare, non vorrei esagerare, anche all’insulto.
Ha voglia di essere scossa, poi chiaramente non si farebbe scuotere per sempre, ma fino a un certo punto c’è questa cosa qua, cioè la necessità di essere pubblico, semplicemente.
Senza esporsi però, come dicevi prima.
Sì. Necessità, dicevo, di essere… di trovare in un’altra persona, o più persone, quello che magari non farebbe mai o vorrebbe ma non può. Comunque c’è una necessità di diventare pubblico, ognuno con la sua testa, ognuno con un suo pensiero, allo stesso tempo una cosa unica.
Si crea una specie di comunità in quel momento lì, perché si è al buio: la luce è sul palco e tu sei il buio, sei quel mare di buio, quel brusio senza il quale poi non esisterebbe lo spettacolo, cioè non esisterei io come artista o altri che fanno questo lavoro.
È un rapporto di scambio.
Se vogliamo metterlo sul piano sessuale, il pubblico è la donna che ti fa credere di essere stata conquistata però poi è libera di fare quello che vuole, ti vuole regalare l’idea che tu sia il maschio con il potere in mano, ok?
La vedo così, però io poi da maschio temo sempre l’allontanamento, temo sempre che il pubblico, chiamiamolo donna, si distragga o scelga qualcun altro.
Per cui c’è una specie di sottomissione nel momento in cui io credo di gestire tutto, però è momentanea.
Ma c’è una capacità critica di elaborare da parte del pubblico o no, tornando a quello che si diceva all’inizio?
Fuori da quel contesto lì c’è.
Nel momento in cui è pubblico è un’esperienza, un’esperienza che unifica in qualche maniera.
Purché però la verità non vada a intaccare il proprio status quo, è questo che vuoi dire? Non sono certa di avere capito bene…
Sto parlando del rapporto tra artista e pubblico.
Quindi siamo su un altro piano rispetto al discorso della verità che facevi prima…
L’artista propone una sua verità che viene accettata, ok? Però viene accettata nel tempo e nel luogo in cui avviene questa cosa qui che è lo spettacolo.
Per questo dico che l’importante è non crederci fino in fondo perché poi quando si spengono le luci la gente si alza, lo spettacolo è finito, qualcuno si porta a casa un’idea, un ricordo, però quell’esperienza lì, di quel momento lì, avviene solo lì.
Per questo a volte in qualche post mi è capitato di scrivere: che fine hanno fatto gli applausi, cosa rimane veramente di quel momento?
In realtà non rimane nulla, si disgrega tutto, una persona torna sé stessa nel momento in cui esce dalla platea, l’esperienza è limitata al tempo dello spettacolo dove io interpreto una parte e il pubblico interpreta la parte di chi crede in quella cosa lì e accetta tutto.
C’è una fedeltà momentanea che è compresa in un’esperienza altrettanto momentanea ma necessaria, per cui si può ripetere e lo spettacolo è sempre diverso.
È un po’ come dire che si ha bisogno dell’illusione, no?
Si ha bisogno sai di cosa? Di vedere, secondo me, che qualcuno crede in qualcosa, in questo caso l’artista, e di vedere fino a che punto è disposto a crederci.
È un po’ come assistere a una condanna a morte pubblicamente, non so, la ghigliottina: c’è la morbosità di vedere fino a che punto un artista è disposto a morire di quello che ha scelto.
E chiaramente più l’artista si fa male e più il pubblico è contento, cioè più l’artista incarna una volontà di disfacimento, di sacrificio, che non deve essere per forza la bottiglia di whisky ma può anche essere la maniera energica di suonare lo strumento o la maniera in cui parla e in cui c’è già una vocazione di vita disperata, più c’è soddisfazione.
Io penso sempre a un pubblico che proviene da una vita tranquilla o pseudo tranquilla che necessita di assorbire l’energia di qualcuno che fa un altro tipo di vita che però si consuma in tempo reale in un palco in diretta: è questo l’evento.
La canzone, la recita, sono frutto di anni e anni di lavoro per cui io, pubblico, non mi prendo solamente due ore di spettacolo ma mi prendo anche un pezzo della tua vita.
Credo sia anche questa la forza dello spettacolo, quella di rappresentare sé stessi e tutto quello che è il mondo che abbiamo scelto di vivere, per cui dall’altra parte si accetta, si accetta tutto in quel momento lì proprio in funzione del fatto che è un evento unico, ogni volta è un momento unico, in cui però c’è già tutto quello che sei come artista… per questo dovremmo essere pagati molto di più fondamentalmente.
È un po’ come il gioco del calcio, mi sono sempre chiesto: ma qual è il vero segreto del successo di un gioco, come la pallacanestro o il calcio? Il fatto che nessuno possa prevedere il risultato e che tu sia in realtà testimone di un evento unico, il fatto che finisca in un modo piuttosto che in un altro.
È questa la valenza dello sport: l’imprevedibilità del gioco e lo spettacolo deve portare proprio questa cosa qui, cioè l’unicità dell’evento, l’imprevedibilità della situazione e tu sei appagato come pubblico dal fatto di essere parte di questa cosa in quel momento lì, come se fosse l’ultima volta, come se fosse l’unica volta, capisci?
Forse sono troppo ottimista a pensarla così, magari la gente se ne sbatte e basta.
Chi lo sa?
Ma quale è stata allora la verità più facile da distorcere in uno spettacolo, se ce n’è una?
Vedi, ho raccontato un sacco di bugie, ma proprio palesi, più negli anni scorsi che adesso.
Adesso sono un po’ stanco, però negli anni ho imbastito delle storie inventate sul momento assolutamente inattendibili eppure per Il fatto stesso che io fossi lì diventavano vere, per cui mi è capitato che la gente a fine spettacolo mi facesse delle domande riguardo a questi brevi romanzi che recitavano, che mi chiedesse se fossero cose successe veramente.
Ora non le ricordo perché ogni volta cambiavo versione ma erano talmente inattendibili che mi faceva strano che la gente potesse pensare che fossero storie vere.
Erano funzionali al gioco quindi?
Erano funzionali al gioco ma mi rendevo conto che la gente era capace di credere a cose pazzesche solo per il fatto che le raccontassi in maniera seria e su un palco per cui quella distanza dava un’idea di me, di attendibilità quasi assoluta. È preoccupante come cosa.
Allora se non sei tu a indicare quella famosa porta da cui possono uscire, non escono.
Non escono.
Poi è anche vero che sono momenti di vita trascurabile, finita la serata la gente magari non ci pensa, non si ricorda. Però il potere della scrittura è anche questo, ovvero il fatto di creare degli universi paralleli in maniera talmente chiara e visibile che la parola assume questa grande forza di costruire anche ciò che non esiste fino a renderlo vero. Poi ci si può sempre interrogare su cosa sia vero e cosa no.
Il 30 settembre 2022 con il tuo Trio, oltre a te che suoni l’organo Hammond composto da Peppe Conte alla chitarra e Christian Canducci alla batteria, sei stato ospite della puntata di Fahrenheit a Ravenna in occasione della Festa di Rai Radio 3.
Il caso ha voluto che la prima parte della trasmissione, condotta da Andrea Montanari, avesse per tema proprio l’informazione, più segnatamente il linguaggio fotografico collegato ai reportage di guerra.
Si sosteneva che l’immagine dovrebbe raccontare delle verità ma senza una didascalia, qualcosa di esplicativo che l’accompagni, l’immagine da sola può in realtà suggerire cose completamente opposte a quelle che si vorrebbero comunicare quindi può essere totalmente fraintesa.
In estrema sintesi, Francesco Zizola(1) ha posto l’accento sulla necessità di un’alfabetizzazione, un’educazione alla lettura della fotografia da parte di chi fruisce, quindi torniamo al pubblico.
Jérôme Sessini(1), in collegamento dall’estero, pur dichiarandosi d’accordo, ha rimarcato l’aspetto della responsabilità del fotografo: “non dobbiamo dimenticare cosa stiamo facendo e il motivo per cui lo stiamo facendo”.
Tu come la vedi?
Torniamo al discorso della necessità di informare.
Oggi siamo talmente bombardati da immagini che si potrebbero tranquillamente invertire delle foto di guerra e nessuno se ne accorgerebbe, magari la guerra non sappiamo veramente cos’è perché non l’abbiamo vissuta però l’immagine di guerra la conosciamo, l’abbiamo ormai assimilata e digerita e non credo che un’immagine o un’altra possano cambiarci un’idea e cambiare la nostra opinione.
Beh, lì hanno riportato il caso della foto di Nick Út della bambina in fuga dal suo villaggio dopo il bombardamento col napalm durante la guerra del Vietnam…
Sì, che è diventata iconica.
Ecco, secondo me, in quel caso lì si rischia di dimenticare il contesto storico. Farla diventare una foto premio Pulitzer e vederla magari in un catalogo dove nella pagina precedente o successiva c’è Marilyn Monroe, piuttosto che Andy Warhol, ne ha fatto un’immagine d’epoca poi talmente ripetuta e riproposta che ha perso la sua carica iniziale, ovvero quella di sconvolgere chi la vede e di pensare subito “che schifo la guerra”.
In effetti allora era diventata la foto simbolo dei movimenti pacifisti, in qualche misura scosse le coscienze.
Però è il guaio della foto perfetta, quella che in qualche maniera riassume tante cose e non spiega nulla in realtà.
Per uno potrebbe essere il Vietnam per un altro potrebbe essere un’altra guerra.
È un po’ come il discorso delle immagini brutali che finiamo per accettare.
Andy Warhol ha avuto la capacità, realizzando dei ritratti, di fare diventare iconiche delle persone e sé stesso nello stesso tempo, per cui la persona diventa altro, diventa un prodotto, diventa un genere di consumo.
La fotografia secondo me corre un po’ questo rischio: quello di perdere la sua natura cioè la motivazione per cui è stata scattata, a meno che non ci fosse già in cuor del fotografo la volontà di diventare famoso o di trarci un profitto da quell’immagine, perché non sappiamo neanche questo, cioè fino a che punto poi il reportage è puramente a scopo lucroso o divulgativo e qui torniamo all’informazione.
L’informazione è utile se poi attraverso l’informazione si cambiano le cose che non vanno bene, altrimenti essere informati e non far nulla non ha senso.
La ripetizione dell’immagine, dello slogan della pace senza un vero attivismo, senza un vero coinvolgimento e, soprattutto, senza un rischio non ha senso.
Del resto l’informazione ci interessa quando ci assomiglia, quando somiglia al nostro modo di pensare, no?
Sicuramente siamo più portati ad approfondirla se ci risuona…
Sì, ma siamo più disposti ad accettare un’informazione falsa che ci assomiglia piuttosto che un’informazione vera che non ci assomiglia, giusto?
Secondo me è questo il problema degli ultimi anni: la gente ha creato molta confusione perché c’è un egocentrismo generale molto molto accentuato per cui io ti dico una cosa falsa che in qualche maniera assomiglia al tuo pensiero e ti può far piacere e tu l’accetti quasi per forza come vera, perché è vera per te, per come ti senti tu. Non ti importa di sapere una cosa veramente vera che ti disturba o sulla quale non sei d’accordo. E quindi, chiudendo il cerchio, la verità in cambio di cosa?
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(1) Francesco Zizola e Jérôme Sessini sono entrambi fotografi di fama mondiale.
Sam Paglia nasce a Cesenatico nel 1971. Musicista (Sam Paglia Trio), disegnatore pubblicitario e di cartoni animati (Balto 1995) e scrittore, vive e lavora in Romagna. Ha pubblicato 14 album per quattro diverse etichette discografiche e tre romanzi: “I Diari della Taunus -(Pluriversum)” (2018), “I Diari della Taunus volume 2-(Hip Club)” (2019) e “Con un ghiacciolo nel cuore-(Gagarin)” (2022).
“Ora non le ricordo perché ogni volta cambiavo versione ma erano talmente inattendibili che mi faceva strano che la gente potesse pensare che fossero storie vere” . Quindi potrebbe avere raccontato un sacco di frottole anche nel corso di questa intervista, no ? Devo dire che il dubbio mi e` venuto ; sicuramente abbiamo a che fare con uno spirito burlone , e che ci sarebbe poi di male ? Ogni percezione, per quanto effimera, cambia qualcosa dentro di noi e se uno e` un minimo maturo si accorge di quale cambiamento riveste un significato evolutivo e quale e` da rigettare. Bravo Sam, avanti cosi` !