La via del pane di Paolo Polvani
(da “La via del pane” ed. oceano 1998).
La via del pane
La stella del mattino trema
sul confine insidiato delle tenebre.
Increspa l’acqua del silenzio un cane.
A sospiri lenti, a brani
evapora la notte.
Nella carezza dell’oscurità la pietra
è bianca.
Dai fondali del buio
nella piazza il calpestio dei contadini.
Il 1920 registra fin dai primi mesi una serie di lotte nelle campagne: invasione delle terre demaniali,
lavori abusivi dei braccianti.
Fiochissima luce nelle case.
Le donne hanno magri
gesti, lenti
all’ansia dei partenti.
In fondo al cuore antiche
sofferenze ascolta
la madre: di sette
Peppino è il primo.
Due anni ancora
e partirà soldato.
Il 5 aprile 1920 settemila contadini ruvesi occupano una dopo l’altra due masserie imponendo ai fattori e ai guardiani di abbandonare il fondo. Si insediano nella proprietà iniziandone la ripartizione. Cercano poi di impadronirsi del palazzo Melodia sede del Fascio. I carabinieri aprono il fuoco sulla folla, uccidono una donna e un bambino. La massa fugge. L’ondata di arresti si abbatte sui dirigenti la lega demaniale.
Peppino Colacicco, tu
segui tuo padre
e statti accorto.
Respira il vento
e in nome del Sacramento,
se fiuti pericolo,
invoca la Vergine Maria.
Nardò 20 gennaio 1920: gl’insorti forzano il magazzino municipale per la distribuzione del pane, poi metodicamente iniziano i saccheggi delle case private. I possidenti del luogo, prelevati dalle loro abitazioni, vengono riuniti nella piazza principale sotto stretta sorveglianza. Scavate delle trincee e costruite rozze barricate intorno alla città, il popolo di Nardò si prepara a resistere ad oltranza. Il blocco viene però forzato il giorno dopo da reparti dell’esercito: centocinquanta uomini e due autoblindate penetrano nel paese dove ingaggiano con i rivoltosi una battaglia sanguinosa: tre i morti numerosissimi i feriti.
La murgia aspra
è amara mandorla
amara cicoria.
La murgia desolata e muta del falco
disperata nel mezzogiorno a picco.
Tetra, sinistra di scorzoni,
di masserie sospese ad un silenzio di colline,
di trulli solitari
acquattati e gonfi, rigogliosi di muschi
in un intrico di spighe e di fruscii
di serpi, di sterco improvviso
tra i cespugli e campanacci radi.
Disperati perazzi
confinati nei muti angoli e stazzi
di pietra forte, che la terra inesausta
partorisce.
Nell’incendio di giugno amarla
è respirare il cielo.
La masseria Madama è in fondo
a uno stradone bianco.
Il 30 giugno 1920 quaranta imprenditori iscritti all’associazione agraria, esasperati dalle continue invasioni e dai lavori abusivi attuati quotidianamente nelle loro proprietà dai contadini del paese, decidono di farla finita una volta per tutte e di regolare i conti con gli invasori. Asserragliati in una masseria aprono il fuoco simultaneamente contro un centinaio di contadini.
Il rosa del mattino disegna la masseria Madama:
i forti stazzi quadrati, la casa
padronale, alta, munita di garitte.
Le colline sospendono il respiro.
Tacciono i galli, non guaito di cani.
Cento passi e poi il muretto a secco
che recinge i magazzini bassi le stalle
la chiesa la casa dei padroni.
Improvvise, tonanti, le canne dei fucili.
La murgia solitaria assorbe il fragore degli spari.
Dal muretto fuoco e fumo.
Cadono, cadono i braccianti
sparsi alla campagna passeri in fuga.
Cade Amaturo Antonio
e un rantolo di sangue ristagna
nell’agonia degli occhi:
pane, pane cercavo per i figli.
Montati a cavallo i quaranta proprietari sparano e inseguono per la campagna i braccianti terrorizzati provocando una vera strage. Sei contadini muoiono, più di cinquanta rimangono feriti, i superstiti riescono a stento a raggiungere il paese.
Primo sole in paese
strepito
della fucileria.
Donne. Per i vicoli bianchi.
Attonite. In ascolto.
La chiesa di santa Maria del latte è aperta
Addolorata Spina sposata Colacicco
è ai piedi dell’altare.
Colacicco Vito è ansante.
Corre davanti a lui Peppino,
l’orrore agli occhi, lo stupore
di respirare ancora, sentire
l’estate sulla pelle.
La via del Salvatore, metri,
soltanto metri alla salvezza.
Scalpita scalpita
il cuore, galoppa.
All’angolo di vico del carretto
spuntano occhi di cavallo.
Il cavaliere. Arma puntata.
Due colpi nel bianco di pietra della via.
La schiena di Peppino fiorisce
di due rosse rose.
L’intera popolazione scende per le strade, si arma freneticamente e, senza che i carabinieri riescano in qualche modo a impedirlo, comincia a battere la campagna per vendicare i propri morti. Due proprietari assaliti nelle loro abitazioni sono uccisi, altri tre feriti, ma i veri responsabili non vengono trovati.
“Nicola, c’è trambusto,
non scendere al Garagnone,
per l’acqua alle bestie c’è Gaetano”.
“Passo da San Michele, non mi vedrà nessuno”.
Ma sceso in strada vede Colacicco Vito
con la scure in mano, una belva in viso.
“Vito, che cosa….” ma un colpo cala improvviso
in mezzo agli occhi. Morirà in un’ora.
Il processo si svolse solo nel ’22 e la sentenza venne emessa il 31 agosto di quell’anno. Con queste parole il prefetto di Bari, Mori, telegrafa la notizia al ministro degli Interni: “Verdetto giurati per noto processo manda assolti tutti proprietari contadini imputazioni loro ascritte, tranne contadini Colacicco Vito e Amaturo Giuseppe responsabili di omicidio. Riservomi riferire più particolarmente et eventualità ripercussioni su ordine pubblico. Per ogni buon fin ho concentrato rinforzo carabinieri e funzionari”.
Per approfondimenti su Paolo Polvani vi rimandiamo al nostro blog:
http://italiadautore.blogspot.it/search/label/paolo%20polvani
http://raccontodautore.blogspot.it/search/label/Paolo%20Polvani
Paolo, io trovo molto interessante questo testo. Lo trovo, nella costruzione, “poesia popolare”, quasi “orale”. Per me è un pregio enorme. Non so per te.
Grazie Massimiliano, mi fai un bel complimento! riporti l’idea della poesia degli albori, quando assolveva alla funzione di memoria, di compendio enciclopedico, di sussidiario per ogni ordine e grado di scuola, ricettario e cinema e televisione e libro di preghiere e insieme di tutto lo scibile. Anche poesia popolare mi piace. Quando abbiamo avviato il progetto di Versante ripido l’idea di base era questa. Proporre una poesia da portare nella borsa della spesa, una poesia popolare, fatta per gli studenti e le casalinghe, gli impiegati e gli operai, una poesia per i lettori comuni. Devi sapere che per anni ho letto e sono stato abbonato a Poesia, di Crocetti, e ad ogni numero mi radicavo nella convinzione di essere un cretino, convinzione rafforzata anche dalla lettura di altre riviste. Che oltre a essere per un pubblico di specialisti sono anche avare di poesia praticata e indulgono alla poesia parlata, ragionata, alla teoria sulla poesia. Qui noi vorremmo rovesciare il discorso, poesia commestibile, accessibile, ma che tuttavia non escluda modalità e concezioni svariatissime, e soprattutto poesia praticata, più che teorizzata. Indirizzata a recuperare lettori più che escluderli facendoli sentire dei cretini.
Perché la poesia, come la musica il cinema, le arti in genere, migliorano la vita, la arricchiscono di esperienze, di suggestioni, ne scandagliano le profondità, e allora perché non favorirne il recupero da parte di un pubblico che aspira a riconciliarsi con la poesia? pertanto la definizione di popolare mi fa intuire che la strada è quella gusta. Per quanto mi riguarda è stata la lettura della Ragazza Carla, di Pagliarani, quand’ero ancora giovane, a suggerirmi la strada del racconto in versi. Con una commistione di prosa e di versi. Oltre alla via del pane, che risale a molti anni fa, ho praticato questa via anche per un’altra raccoltina che racconta del crollo di un palazzo accaduto nella mia città alla fine degli anni 50. Grazie quindi del tuo apprezzamento!
che gioia Paolo leggere questa tua dichiarazione :
“……… Devi sapere che per anni ho letto e sono stato abbonato a Poesia, di Crocetti, e ad ogni numero mi radicavo nella convinzione di essere un cretino, convinzione rafforzata anche dalla lettura di altre riviste. ……
tu pensa, Paolo, che ancora succede a me quando m’imbatto in certe critiche di poesia.
e mi dico ” luigi, tu non sai niente di poesia, è inutile che cerchi di scrivere, la vera poesia è altra cosa ”
ecco, oggi, ho scoperto che siamo sodali e ti ringrazio
ma penso caro Luigi che siamo in parecchi ad essere sodali! il male della poesia è averne fatto una cosa per specialisti e non per massaie, impiegati e studenti, se il pubblico ha preso le distanze dalla poesia ci sarà un motivo, e questo è sicuramente uno dei molti
Questa è storia poetica 😉
Bravo Paolo anche se avevo già avuto modo di apprezzarle