L’abbecedario di Verlaine di Pierino Gallo, nota di lettura di Miriam Bruni

L’abbecedario di Verlaine di Pierino Gallo, Lietocolle ed. 2012, nota di lettura di Miriam Bruni.

     

    

Questo libro poetico edito da Lietocolle ha un primo pregio che va sottolineato: una buona qualità musicale, (in certi casi davvero molto buona!): arriva gradito all’orecchio, e questa è una caratteristica che io personalmente vado cercando.
Nelle scelte formali rieccheggia Beaudelaire, il Beaudelaire dei sostantivi con lettera maiuscola ad esempio, il Beaudelaire dei termini forti e del tono a tratti struggente. Il ritmo è ben sincopato, non vi sono quasi enjambements, e l’autore sembra aderire a quell’estetica di controllo formale e Simbolismo che dominò nel Secondo Ottocento. A Rimbaud e Verlaine, poeti di quel tempo, l’autore fa espliciti riferimenti e omaggi, a dire – probabilmente- di una sua particolare predilezione per loro.
I testi sono nella maggior parte dei casi costituiti da versi molto brevi: di tre, due o una parola soltanto.
Guardiamo ad esempio questa poesia:

Onnivoro
mi verso
sull’asfalto
violaceo
del tuo grembo.  

Non so ancora
se riuscirò
a sopprimere
quel lento
desiderio
di divorarti
il cuore
alla radice.   (p.40)

Isolare le parole è generalmente una scelta stilistica che aumenta il pathos e invita ad una lenta degustazione. Un intento che qui mi sembra ben riuscito. Ma vediamone un secondo esempio, tratto dal testo di pagina 21.

Nella nostra risacca,
sono schiuma
e deserto.
Sono sabbia
ed incerto
sciorinare
d’attesa.   

Anche qui l’autore mescola parole molto comuni (SCHIUMA, SABBIA, DESERTO) a parole di registro un pò più sostenuto (RISACCA, SCIORINARE, ATTESA). Molto bella la rima DESERTO-INCERTO, dà all’intero testo una sorta di spina dorsale.
Le poesie delle prime pagine prendono vita a partire da un invito ad ascoltare, a guardare: troviamo infatti un verbo all’imperativo di seconda persona, e questo dà un impianto dialogico all’opera e funge anche da efficacie espediente retorico per coinvolgere il lettore.
Riguardo ai finali è palese – mi sembra – il desiderio di ricalcare, come già acennato sopra, le orme dei simbolisti francesi, nell’idea che la poesia debba non tanto descrivere ma suggerire, con risultati spesso volutamente ambigui e polisemici, oppure enigmatici e suggestivi come in questa chiusa:

morire
ormai
non mi appartiene (p.20)

L’uso delle figure retoriche è ben pesato. Quelle che ritornano più significativamente sono l’inversione e l’anafora. Di quest’ultima ecco un esempio a mio avviso interessante:

Questa è la mia casa,
quando la notte insonne
invade il petto
e rimesta pensieri
beffardi. 

Questa è la mia casa,
dimessa
insolente
maliarda
iraconda.
Questa è la mia casa,
dove posso specchiarmi
specchiarti
e parlarti d’amore
al mutare del giorno
Quando,
un pezzo per volta,
ricombini  

solerte
il mio cuore.   (p.46)

E ora concludo questa breve nota con una poesia che ben fluisce e ben risuona, e mi pare possa compendiare in sé tutti i tratti sino a qui evidenziati.

Qui forse potrei anche
arrivare
a parlare
del tempo,
se con ali curiose
mi spingessi
al di là della roccia.  

Mi tieni tra i sassi
tu intanto
e ritieni
che parlare
di versi o di gigli
possa essere uguale.
Io ti amo
o mio Arthur
dalle mani di zinco
e dal cuore di latte.
Sono sempre riuscite
a trovarsi,
distratte,
le mie mani
tra gli olmi.   (p.47)

Che possiamo anche noi mantenere curiose le nostre ali!

s-l225

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