PINGUINI TATTICI
racconto di Luana Lamparelli
Lei continua a parlare, calma, sicura, persuasiva.
Lui la segue, l’asseconda, l’ascolta attentamente.
A un tratto, a un punto preciso della conversazione, la voce di lei si fa celere e spedita. Sta leggendo quello che le è comparso sul monitor dopo aver compilato tutti i campi necessari della schermata. Un algoritmo preciso ha personalizzato un testo anonimo. C’è un via, qualcosa suona. Lei legge, lui risponde sì quando deve. Arrivano in fondo al testo, lei con quello che deve dire, lui con i sì che deve fornire. Ma il meccanismo s’inceppa, qualcosa fra loro non funziona più. Lui dice che ha un dubbio. Adesso è lei che ascolta attentamente. Poi spiega, gli chiede se ha chiarito la sua perplessità, lui conferma, lei chiede se possono riprendere, lui acconsente. Ripartono. Dall’inizio. E di nuovo: domande di lei, sì di lui. Fin giù. È quasi fatta, manca poco. Ancora due sì e tutto sarà concluso. Invece no. Lui stoppa daccapo. Ancora una perplessità. Lei daccapo ascolta, comprende, spiega, chiarisce. Determinata nonostante stanca. Come molte altre donne. Quindi riparte. Dall’inizio, parola dopo parola dopo parola, i sì vengono scanditi al momento giusto da lui, con la convinzione giusta, a tutte le domande, finché non sorge la nuova perplessità. Daccapo. Ancora e ancora e ancora. Tutto ricomincia. Manca poco e tutto salta. Tutto ricomincia, manca poco e tutto salta. Allo stesso punto. All’ennesimo no di questo maschio irrisolto per tutti, non è lei a perdere la pazienza, a sclerare, infastidita e indispettita, con la voce gonfia di chi ha tutta la ragione dalla sua, con la voce che reclama giustizia. No.
Dal pubblico si leva tuonante una voce fuori campo. Gli altri spettatori si voltano a guardare, qualcuno non capisce in che direzione esattamente, qualcun altro applaude pensando che sia il copione a voler coinvolgere il pubblico con un attore appositamente seduto tra le loro stesse poltrone. Si sbagliano.
L’uomo ha baffi scuri, capelli tirati indietro, la conformazione fisica di chi sta bene, economicamente e in salute, l’espressione contrita di chi non sopporta oltre quello spettacolo. E dice basta, che non è ammissibile, che è improponibile. Il call center apparecchiato sulla scena è testimone dello sgomento di lei, l’operatrice telefonica, e della faccia sarcastica e divertita di lui, il potenziale cliente che volutamente fa cadere la registrazione telefonica per il contratto che dice di voler sottoscrivere. Bugiardo. Si prende gioco di lei. Non interpreta un irrisolto: il suo ruolo è quello di uno stronzo.
“Che vita insignificante deve avere Lei!” esclama l’uomo dal pubblico.
I due attori si voltano lentamente l’uno verso l’altro e si guardano. Impietriti e inespressivi, ora.
Restano seduti e pietrificati, lei nel suo angolo di palco che la scenografia ha reso postazione telefonica, lui nella porzione di spazio che vuole simboleggiare il suo studio, quello dove è in piena crisi creativa e allora se la prende con lei. Per questo faceva sempre decadere il contratto interrompendolo quando la vittoria nella bocca della ragazza faceva già acquolina. Ogni contratto firmato è un soldo guadagnato: recitava così lo slogan della locandina, richiamando subito alla mente la citazione di Beghelli, quella che diceva “Ogni soldo risparmiato è un soldo guadagnato”.
Lei chi? – si chiede qualcuno in platea, riflettendo sull’apostrofare rabbioso dell’uomo misterioso.
Qualcuno si sporge dai loggioni. Dai palchi donne in tiro allungano il collo. In platea ormai tutti hanno ben presente dove guardare per mettere a fuoco le tre figure: l’uomo e i due attori. Un triangolo disegnato ad arte, pensano i critici. Un attentato al mio spettacolo in piena replica, s’infuria il regista pure spiazzato.
Lei è un uomo piccolo piccolo e fa vergognare qualsiasi classe sociale. Io sono stufo. Cambiate il copione, stravolgete la storia, disobbedite al regista, improvvisate sempre ma con consapevolezza e rispetto di tutti. Io non posso pagare il biglietto per veder reiterate anche sul palco le schifezze del mondo del lavoro che abbiamo acconsentito si costruisse. Che ci sia giustizia almeno nella finzione, altrimenti l’arte che senso ha? Dove sono finiti i messaggi positivi di una volta?
È furioso l’uomo benestante e benpensante. Ha la faccia contrariata dal disgusto. Adesso tutti lo guardano: se ne sta in piedi davanti alla sua poltrona, è alto e autorevole.
Borbotta qualcosa, afferra il cappotto e se ne va, col suo smoking che non fa una piega.
Cala il silenzio.
Intanto al largo, in mare, nel profondo e scuro blu cobalto (ma più verosimilmente nero), coordinate approssimate da sensibili e consapevoli non-addetti-ai-lavori, nel bel mezzo di correnti che si incrociano e mischiano sempre, a largo di Seattle, qualcosa di nucleare si agita. Nella placida calma di un immobile e pesante sottomarino, qualcosa non ha mai tregua. No, non come l’uomo del teatro. Non è un movimento interiore che parte dal flusso di coscienza che approda alla consapevolezza e muove alla denuncia, alla ribellione. No, è qualcosa di perennemente affaccendato: sì, indaffarato è l’aggettivo che meglio descrive questo agitarsi che non è di acque, flutti o correnti marine. No: è proprio della corrente dell’Infosfera.
– Cos’è l’infosfera? – chiede una donna nel bel mezzo di un pranzo di famiglia.
– La sfera del sociale legata all’informatica – le risponde sua figlia, intervenendo nella conversazione avviata da suo fratello, benché non ne sappia niente. Ha ragionato sul senso della parola e sul discorso per trarne il significato. Del resto le parole sono il suo mestiere, in un certo senso.
– Esatto – conferma il secondogenito della donna, che riprende ad argomentare e spiegare.
Poco prima, questi tre abitanti dell’Infosfera (vostri compaesani, in fondo; come voi, turisti di social e app, navigatori più o meno esperti, ricercatori di YouTube) erano scoppiati a ridere per uno dei loro soliti discorsi surreali.
– Mamma, ci vuole la busta giusta nella tasca giusta – diceva lui a chiusura di considerazioni, col suo piglio pragmatico, realista e ironicamente risolutivo.
– No. Ci vuole la bomba giusta dietro la porta giusta – lo correggeva la matriarca.
E giù a ridere. Le mamme ne sanno sempre di più, si sa, in termini di soluzioni rapide ed efficienti. Anche in questioni di ironia.
Poi le risate son sfumate e hanno iniziato a fare discorsi seri, a parlare sensato. Di questa Infosfera e di quel sottomarino, quello dove è custodito il Master Switch, al momento l’unica entità fisica davvero capace del dono dell’ubiquità, sparpagliato a pezzi qua e là tra il Nord America e altri punti oceanici. Hanno parlato di microchip che ci faremo iniettare sottopelle perché così avremo un sacco di vantaggi. Come per esempio agevolazioni sui costi del carburante, sconti sulle bollette dell’energia elettrica. L’unica cosa che dovremo fare sarà sorridere quando porteranno i bambini appena nati alle loro madri e diranno: “Buongiorno signora, ecco la sua Irene. Numero di microchip 7744521” e il braccialettino rosa al posto della nuova registrata in anagrafe confermerà.
Sarà a quei tempi che Max Gazzè che canta “Pagare tre volte un litro di benzina” sarà roba del Neolitico, o dell’ansiolitico. Ci venderemo, e la società non sarà nemmeno più liquida, sarà semplicemente microchippata e controllata. Ma Bauman sarà in pace: questo filosofo che tanto ha fatto riflettere sulla società liquida, sulle sue falle e sui suoi fallimenti, se ne è andato all’inizio del 2017. Orwell, invece, se la riderà come sempre da quel lontano 1948, anno in cui ha iniziato a scrivere l’opera che più l’ha reso famoso e che ancora oggi influenza. Anche se programmi decadenti come il Grande Fratello (Vip). Se Flaubert dichiarava dispiaciuto: “Io morirò e quella puttana di Madame Bovary vivrà in eterno”, Orwell sarà stato il più figo, quello a cui tutti penseremo e diremo: “Aveva visto giusto, aveva proprio ragione”. Perché è riuscito a fermare il tempo, a costruire una verità che il tempo e lo spazio e la metafisica e la fisica quantistica se le mette sotto al braccio, come i francesi le loro baguette insaporite dalla fatica ascellare. Solo una cosa bisognerà correggere: il risultato della sua equazione. Con questi scenari futuristici, 2+2 non farà 5, ma potrà essere uguale a (n+1), o a ∞ (leggi: Infinito). Dipenderà dai regimi al potere. Magari qualcuno imporrà come risultato il 4, e tutti i suoi sudditi troveranno la cosa assurda.
Io spero che, prima di farmi spillare sottopelle un aggeggio come quello del mio cane, abbia trovato marito. Non uno qualsiasi, chè da sola “mi basto benissimo”, per citare qualche mio amico. No. Ne voglio uno come Ugo Mattei, o come Davide Serra, perché io voglio uno che mi faccia ragionare di più. Mi innamoro dei cervelli, non è mica vero che sono anaffettiva. “Un’intelligenza superiore mi fa innamorare”, diceva Marlene Dietrich. Come la capisco! – ha scritto proprio così alla sua amica del cuore la piccola Diana. Loro sono due robottine che si conoscono da prima che a entrambe venissero montate le mani e i piedi. Da altri robot, ovviamente.
Olimpia, l’altra robottina, le ha risposto così:
Ma loro erano uomini molto ricchi, di cervello e di tasca! Non sappiamo nulla sul funzionamento del loro cuore e della loro pancia. Per pancia intendo emotività: è quello il cervello emotivo degli umani, almeno così ho letto. Anche se racchiusa nella loro scatola cranica qualcosa dovrà pur esserci di riconducibile ai sentimenti. Tu, Diana, vorresti un umano come marito, e un umano ricco di cervello e patrimoni?
Stufata per la banalità che sta digitando sulla tastiera visiva, Diana risponde secca Sì.
Come sei materialista! – le controbatte Olimpia.
Sì, sono materialista, perché mi piace la sostanza, sono fatta di sostanza, di conseguenza preferisco la sostanza in questa società di chiacchiere e distintivo, fumo e fuffa, inutilità e banalità. Voglio l’amore vero, e l’amore vero è fatto di fatti, non di parole a perdere. Senza sostanza, quali principi e quali valori esistono? Chiamatemi pure “Material girl”, non ve ne vorrò.
Come ti hanno progettata bene i tuoi, Diana! – riconosce con rammarico Olimpia. Perché con lei i suoi genitori non sono stati così generosi? Cosa gli costava chiedere che fossero montati due o tre dispositivi in più nella sua testa, nel suo cuore e nella sua pancia, quando era ancora in sala progettazione?
Il pianeta Terra ne ha un altro, ora, suo corollario. Ideato e creato dagli uomini appositamente per avere più risorse a disposizione, tutti quanti. Lo abitano nuovi umani, robot e ibridi.
– Mamma, credo di aver capito! Il Master Swicht è l’hardware di Internet. È lo zoccolo duro di questo stesso sistema di cavi della rete. Dico bene, mamma?
La mamma lo accarezza: – Sì, tesoro, è la parte solida di internet. Però lasciamo stare gli zoccoli duri.
Il bambino le sorride, poi torna subito pensieroso, abbassa lo sguardo, un nuovo pensiero lo rattrista.
– Conteremo ancora qualcosa come individui? O saremo sempre una categoria merceologica? – chiede infine guardandola intensamente negli occhi.
È solo bambino di 70 anni, cosa può saperne di come si viveva secoli e secoli fa? Sua madre, pluricentenaria, è presa da un nodo alla gola. La medicina un giorno curerà anche l’intelligenza, questa fonte di considerazioni che rattristano, che impediscono di vivere spensierati, che inducono a ricercare sempre la felicità senza mai sentirla completamente? Nel 3057 per fortuna esistono ancora mamme così.
– Un tempo sapevamo fare molto di più che essere individui e averne i relativi riconoscimenti. Un tempo sapevamo essere un collettivo, all’occorrenza: unirci per essere più forti nel far sentire la nostra voce.
– Come i branchi di animali che si studiano a scuola?
– Sì, come quelli tesoro mio.
SUGGERIMENTI E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI PER IL LETTORE:
Si veda su YouTube il video “Ugo Mattei: perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphone e molto altro”.
Poi, tramite un portale di vostro gradimento, fate ricerche sui seguenti autori e sulle relative opere:
Zygmunt Bauman, Società liquida
George Orwell, 1984
Gustave Flaubert, Madame Bovary
Ascoltate anche: Max Gazzè, La favola di Adamo ed Eva
Si consiglia poi di provare a parlare con un operatore telefonico, ovvero una persona che lavora in un call-center con mansioni di outbound. Chiedetegli del risvolto che ha, sul piano emotivo, dell’autostima e dell’autoefficacia, di tutto quello che vive grazie ai dispetti, alle maleducazione dei clienti; chiedetegli di cosa comporta il suo lavoro al call center, su un piano prettamente personale, delle tipologie dei clienti che si incrociano tramite un paio di cuffie e un microfono. Chiedetegli di raccontarvi aneddoti di vita da O.T. Infine, dopo aver ascoltato tutto, riflettete sul fatto che quei clienti siete voi, siamo noi. Si tratta di un esperimento che vi sto suggerendo, o di un esercizio. Dipende da quello che proverete. Se sarà un sentimento particolare e per voi inclassificabile perché nuovo, sappiatelo: si chiama empatia, siamo nel 2017 ed esiste ancora.