L’ATTENZIONE E LA CURA, LO SGUARDO. DI MARINA MASSENZ

L’attenzione e la cura, lo sguardo.
Di MARINA MASSENZ

   

   

Non ha senso invocare con semplicità un’inversione di tendenza nel rapporto uomo/natura, rapporto fortemente segnato dalla logica del profitto e dal sistema socioeconomico in cui tutta l’umanità è immersa. Il sistema dei consumi, che non si pone limite alcuno, in un atto continuo di estrema tracotanza dell’uomo rispetto al mondo che lo ospita, fa pensare all’ingratitudine di un ospite, che non si cura di ciò che distrugge, di ciò che divora, dei rifiuti che abbandona intorno alla tavola del suo grande pasto sfrenato.

Come può essere la poesia un vettore di riflessione nella direzione di un cambiamento? A questa domanda vorrei provare a rispondere con alcuni pensieri.

Direi che potremmo esercitare una sorta di “sorveglianza attiva”, cioè una forma di attenzione critica, uno sguardo rivolto alla realtà che la sveli o ne sottolinei la contraddittorietà, gli eventi catastrofici,[1] l’impoverimento di bellezza e di praticabilità; così pure il nostro osservare con meraviglia e felice stupore la natura che ci circonda, non necessariamente o non solo il grande o meraviglioso paesaggio, oggetto fin troppo facile di fotografia, atto inteso come volersi portare con sé, in forma di simulacro e non dentro – come sarebbe necessario – quel grande respiro del paesaggio quando si apre. Penso che un’osservazione attenta e prolungata possa portare a riconoscere come componenti essenziali della nostra vita molteplici elementi naturali, dal quotidiano sguardo al ciclamino del terrazzino, a quello che segue il volo degli storni in formazione, all’annusare il “sapore” dell’aria durante una passeggiata in un bosco… solo facendoli nostri, come bisogni, comprendendo come questi aspetti siano componenti attive del nostro benessere anche psichico, si potrà forse tutelare veramente noi stessi insieme alle altre specie viventi, uscendo dall’epoca antropocentrica in cui navighiamo incoscientemente da troppo tempo. Se siamo, saremo, appunto ancora in tempo.[2]

Il cambiamento può esservi dunque se si riesce ad agire sia sul piano strutturale che su quello interiore, così come cerco di trasmettere nella mia poesia Alle cinque la cicala smette.[3] Le cicale infatti perdono il senso di realtà (si veda l’originale riattualizzazione del 1955 a cura di Ingeborg Bachmann, nel radiodramma Cicale, del mito delle cicale del Fedro di Platone), dimentiche di tutto. Pensiamo al frastornante suono prodotto da questi piccoli animali che riempie le giornate d’estate, per poi arrestarsi tutto d’un colpo.

Come se i saperi e i bisogni rimossi dell’individuo e della società avessero ad un tratto preso il sopravvento. Così alle cinque, quando questo fragore si spegne di colpo, l’uomo che sferzava il mulo e tirava il morso perché andasse più veloce, nonostante il gravoso carico, si lascia andare a terra, cade prono, come svenuto. Si lascia impastare dalla terra, come la pietra dall’acqua finalmente abbondante che vi scorre sopra millenaria fino a mutarne la forma, come la farina che viene impastata per farne pane. I due versi finali mostrano quest’uomo che, mentre prima stringeva in tasca le monete, raccoglie nel pugno sassolini bianchi, piccoli, rotondi. È un uomo diverso, in contatto con la materia di cui è costituito, che sa prendersi il tempo per giocare, che sa aspettare e non teme il tempo vuoto, improduttivo. È un uomo che è in contatto con il suo mondo interiore, dove anche il tempo scorre diversamente, che sa ascoltare e riflettere, che sa guardare e sentire.

 

Il bosco risonante 

Il bosco risonante dei liutai
semidistrutto il bosco
di abeti rossi stradivari centenari
che vento molesto e infine
assassino ha falciato con viole
violini e violoncelli.
Solo uno su mille tra abeti
questi speciali per sottile
accrescimento lento clima micro
particolare specifico e risonante
armoniche e vibrazioni e toni.
Trovo lo specchio rotto tronco
tranciato osservo i concentrici
cerchi molteplici i giri tracciati
tracce di un tempo passato lento
il popolo dei risonanti è esiguo
si estingue, segreto il perché
e come similmente noi umani si risuoni,
empatia si dice e in occasioni speciali
amore, una risonanza per chimica
e scienza spettacolare e occulta
di menti anime corpi, non indagabile
né per cause né per suo segreto
effetto e fulmine.
Se nel globale emisferico il bosco
risonante non risponde più un tremito
trascorre il mondo si fa provvisorio
e nel tacere questo tremito incalza
come distrazione delezione perdita
muta d’umanità che ogni giorno
s’incontra e falciando procede.

 

La sfera blu 

La ragazza ha visto la sfera blu
da astro nello spazio sospesa
e ammira e ama quel verde
e le acque le pecore i musi
bagnati nell’erba umida. È la terra.
Così bella e fragile come creatura
che non diresti sospesa nel nulla
che non diresti abbia bisogno
della tua mano, per appoggiarsi
sul palmo aperto ad accogliere.
La vita così per alcuni decenni
ci sta nel palmo, la mano è la stessa,
ma a volte dimentica, lascia cadere
e tutto cade e cade e cade
finché si ferma proprio lì,
dove stanno le pecore, sotto l’albero.

 

Alle cinque la cicala smette

Alle cinque la cicala smette
la frenetica appende l’archetto
sfrigolante sfiatata troppo a lungo
la lira strofinata troppo il sole.
Denti rotti forse nel morso del
ronzino che non voleva avanzare
con tutte le mosche aggrappate
un peso enorme colme bisacce.
E l’acqua?
Poca sempre a goccioline come
da pipetta mai mai un vero flusso
un getto uno scroscio una cascata
un vero lavacro e dissetante
no, l’uomo stringe e trattiene,
sfiora nella tasca le monete,
non sa la libertà del gettare senza
peso, del lieve toccare, cade,
non sa dell’acqua che si fa largo
frescaforte ombra tra i massi del
fiume abbondante senza ritegno
e delle pietre che modificano forma
al passaggio pasta lievitata
come si lasciano impastare ora
che l’archetto insidioso ha smesso il suo
monotono tran-tran e l’uomo caduto
arrota le unghie nella terra e poi
di colpo smette, appoggia la testa.
La solleva, guarda, raccoglie sassi
bianchi, piccoli, rotondi.

   


[1] Nella mia poesia Il bosco risonante (in Ossa e cielo, Pasturana, Alessandria, Puntoacapo, 2021), riprodotta qui sotto, si fa per esempio riferimento alla catastrofe provocata nel 2018 nei boschi di Trentino, Alto Adige, Carnia, Valtellina e Veneto dalla tempesta “Vaia”.

[2] Vedi, qui sotto, la mia poesia La sfera blu, inedita.

[3] Riportata qui sotto, appartiene alla raccolta Né acqua per le voci, Milano, Dot.com. Press, 2018


   

Marina Massenz, è nata nel 1955 a Milano dove vive. Neuropsicomotricista, si occupa di terapia e formazione, ed è docente a contratto per l’Università statale di Milano presso il Corso di Laurea TNPEE. È autrice in questo ambito di tre libri e numerosi saggi. Ha pubblicato quattro raccolte poetiche. L’ultimo suo lavoro, Ossa e cielo, Puntoacapo editrice, è stato pubblicato nel 2021, con prefazione di Alessandra Paganardi. Nel giugno 2010 alcuni suoi testi, da lei recitati, e coreografati e danzati da Franca Ferrari, sono stati presentati con il titolo Danza e poesia alla Casa della poesia di Milano (Palazzina Liberty).

   

 

 

 

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