Le cose sono due di Francesco Targhetta, recensione di Luigi Paraboschi

Le cose sono due di Francesco Targhetta, ed. Valigie Rosse 2015, recensione di Luigi Paraboschi.

   

   

Se, concludendo la mia lettura del precedente “romanzo in poesia” di Targhetta “ Perchè veniamo così bene nelle fotografie “ facevo un accostamento del suo stile con quello amaro e desolato di uno scrittore come Bianciardi che, aveva saputo trasmettere ai giovani della mia generazione con il suo romanzo “ Vita agra,, ammetto di essermi accostato al suo ultimo volumetto di poesie “ LE COSE SONO DUE “, premio Ciampi – Valigie Rosse 2015, quasi certo che la scrittura di questo autore non sarebbe mutata, ed invece mi sono dovuto ricredere, perchè con questa breve raccolta ci troviamo di fronte ad una serie, non ampia ma validissima, di poesie vere e proprie, se con questo termine si vuol indicare qualcosa scritto in versi, e non in prosa poetica come era il precedente.

Già il titolo stesso è spiazzante, perchè uno si domanda, “ e perchè ? “, convinto che le cose sono innumerevoli e non solamente due, ma poi ci si ricorda di una frase così consueta nel nostro dialogare, che suona così “ guarda, caro/a i fatti sono due “ e ci si mette a fare l’elenco di questi fatti, magari indicandoli con sulle dita della mano, e anche Targhetta lo fa con questa poesia che dice :

I giorni in cui non parli con nessuno
le cose sono due :
o arrivi a cogliere il senso di tutto
o confondi corrompi ti ingarbugli

e da questi due versi noi ci rendiamo conto subito che siamo di fronte ad un aut aut che ci viene dato, del tipo “tu, lettore, o capisci o non capisci “, e allora non resta che cercare di cogliere il senso, ma qual è il significato di una narrazione divisa in due capitoli denominati Uno e Due e dove i personaggi di Uno sono (elencati in sostituzione dei vari titoli che non figurano sulle poesie nella postfazione dall’autore) esattamente questi?:

il ragazzo che mangia da solo – il crooner- l’elettore- il vicino con la maglietta dei Lag wagon – il disoccupato- l’amministratrice condominiale- il figlio di fronte al padre-il figlio di fronte alla madre – la professoressa- l’impiegata delle poste( forse )- la sportellista bancaria – le lettrici – il commercialista-il recluso-gli extracomunitari- la domenica -i1l bugiardo

mentre quelli di Due sono

Vecchi
badanti
vedove e morti

Quale può essere il senso che accomuna tutti questi personaggi e queste situazioni abbastanza “ tipiche “ ?

Semplicemente la solitudine, niente altro che una disperata solitudine di essere o abbandonati a sé stessi, oppure affidati alle cure di qualcuno privo particolare attenzione affettiva alle situazioni individuali.

Sono tutti soli i personaggi di questa raccolta, sono esseri umani, magari in condizione fisica non del tutto disperata o di abbandono, ma è solo il ragazzo della poesia n. 1 ove si legge

il peso, per la prima volta in vita,
di essere solo e arreso “

è solo il crooner che parla al gatto come se dovesse cantargli una canzone sentimentale e gli dice nella poesia n. 2 :

eccoti i miei rimasugli “
…..
l’eco rauca e lunga
nella notte che ti riprende in scacco

è solo il vecchio elettore che nella n. 3, nel giorno in cui si va a votarte dichiara :

e rifletti in ascolto, secche le mani
che c’è ancora chi ti chiede di battere
un colpo “

è solo il vicino di casa della n. 4 che

esce sulle dieci ogni sera
a controllare d’aver chiuso il cancello
e lo scrolla più volte, lo sbatte “

è solo il disoccupato della n. 5 che dice

il lavoro distrae, ma il lavoro
non c’è, e allora resta la fame
…………
sale in sordina su quei treni eterni
lunga la spiaggia delle coste adriatiche

è anche sola, malgrado il lavoro, l’amministratrice di condominio che fa:

In quanti sono ?“
     ………….       chiede
su una terza persona plurale
che ignori a cosa si accordi, e intanto
la porta ( è blindata ) si apre
……
finchè “ io solo “ dici “ 

è sola anche l’insegnante della poesia n. 9 che l’ultimo giorno di scuola perde tempo per non tornare a casa

ma in sala insegnanti sempre scopri
la prof che rimane più del tempo:
lega i compiti con le fascette
e sbarra con la biro i registri.
Troverà, uscendo, le strade più sgombre,
più duro, a casa, il pane in cassetta “

è pure sola l’impiegata delle poste ( forse ) della. 10

era forse un’impiegata alle poste
rimasta vedova da pochi mesi,
una prof. dopo un divorzio difficile
o un altro tipo di donna sola dei molti oggi
resi possibili, quella che, un sabato
sera, con orgoglio mostrava alle amiche,
aprendo l’uscio della casa nuova
la scritta vergata, fuori sul muro,

parva sed apta mihi

e sono infine soli anche gli immigrati della n. 15
li vedi camminare rasi ai muri
di cinta, a scalciare un pacchetto
di Camel, altrove
la testa.

L’esame di tanta umanità fatto da Taghetta non si ferma, ritraendo nella parte n. 2 del libro figure di anziani, di badanti e di vedove che vivono in case troppo grandi per loro, rimaste sole e senza più figli in casa, nei cui occhi l’autore – in un inserto in prosa del libro- dichiara “ nei loro occhi leggo l’ assurdo senso di colpa per la propria casa smisurata, ma scorgo anche un livoroso compatimento verso l’intera umanità “.
Pare di vedere un mondo popolato da figure che appaiono, si mostrano a noi per il breve istante di qualche verso che le mette a fuoco, e poi scompaiono e, pure se di esse non conosciamo la vita, sappiamo perfettamente che il domani sarà identico all’oggi, senza alcuno spazio per invenzioni, diversivi. Persone alle quali è rubata anche la dignità o l’orgoglio di un abito proprio come in questa poesia che riporto per intero :

Il vecchio nel giubbotto rinfrangente
si regge sul bastone tra le aziende
nello slalom delle insegne e dei cani,
ed è solo il pomeriggio defunto
dei paesi nel dopopranzo, quando
appena si muovono i semafori
e i termometri delle edicole chiuse,
ma già la luce si spezza
sui nudi rami degli olmi

già questo inizio sembra un brano tratto dal film “Umberto D” o da un lavoro del primo Ermanno Olmi, e poi l’autore prosegue ,mettendo meglio a fuoco l’insieme del quadro nel quale la pennellata più vera nasce da quell’aggettivo “ livido “ riferito al genero che fa lo sportellista in banca ( ma nessuno li chiama più in questo modo, utilizzando tutti, anche i gommisti, la consuetudine con l’inglese corrente, che li tramuta in front-office)

Non fare storie, mettilo e basta “
gli avrà detto una figlia gommista,
sostenuta da un livido genero
addetto al front-office in banca,

la scrittura prosegue così

e certo la sua oscura protesta
sarà stata di porri e saggina,
davanti al portafrutta semivuoto
di mele più rugose del vento

e ancora non possiamo sorvolare su quel tristissimo portafrutta semivuoto con mele avvizzite,

E va, fosforescente
il vecchio nel giubbotto rinfrangente,
più lento di prima,
facendo spavento

E’ qui che si chiarisce il mistero della storia, qui noi vediamo un vecchio che si regge su un bastone, e va in giro con addosso un giubbotto di quelli che teniamo tutti in macchina, dimenticato da anni, mentre per lui diventa un capo di vestiario da portare in giro, vergognandosi di tale indumento non consono a nessuno che non vi sia costretto da un incidente per strada.
E’ una raccolta questa dalla quale affiora un grandissimo senso di sconfitta, proprio quello dichiarato nel titolo” o confondi, corrompi ti ingarbugli – “ perchè è proprio così che il lettore si sente qualdo legge anche più volte i testi, si sente ingarbugliato dentro una spirale di situazioni senza via di uscita, dalle quali se ne esce solo sconfitti.
Qualche critico letteraio ha definito come poesia vagamente crepuscolare quella di Targhetta , ma io penso non si possa collocarla completamente dentro questa etichetta, lagati, come tutti siamo, ad una visione del crepuscolarismo un po’ limitato alla signorine Felicita alla Gozzano, no, quello di Targhetta è uno stile accurato, attento e ricco di accorgimenti linguistici, rime interne, non facili da scoprire, che trasfigurano la sua scrittura e   fanno vivere ogni personaggio come se fosse inquadrato, lui solo,dentro l’occhio di bue delle luci sopra un palcoscenico.
Targhetta mette il cuore ad accompagnare i suoi personaggi, glielo lascia accanto, svolgendo quella missione importantissima assegnata alla vera poesia, quella di fare diventare persone i personaggi, e di far essere un semplice bel verso qualcosa di molto più vero, qualcosa che pulsa e sanguina, sgocciolando dalla penna del poeta.
E’ l’amore per l’umanità a caratterizzare i suoi versi, anche se si tratta di una umanità che sembra sconfitta, come quando, parlando di una madre, egli scrive nella poesia 8

L’invito al pranzo della domenica
ormai è implicito, e persino si è esteso
da un po’, agli altri giorni randagi
che spargono il livido inverno :
la chiave “ mi dici “ ce l’ hai “.

Provare ad arginare la solitudine
adulta di chi, un tempo,
si era pensato alla vita :
chi, dunque, ha sbagliato fra noi ? “

Quanti di noi possono affermare di non aver essere passati dentro una situazione di questo tipo, durante nostri “ giorni randagi “, a quanti di noi non è stato chiesto di “ arginare la solitudine adulta di chi si era pensato alla vita “ ?
Come è sobrio quel dire “ la chiave ce l’hai “ , com’è riservato quel parlare quasi in forma indiretta da parte della madre, che potrebbe essere invece indotta a concludere il suo invito con quei due versi che forniscono il titolo alla raccolta “o arrivi a cogliere il senso di tutto/o confondi corrompi ti ingarbugli “ ,ma la generosità, la partecipazione, la condivisione dell’autore balzano fuori con terrificante sobrietà nell’ultimo verso, quando egli si domanda con afflizione “ chi, dunque, ha sbagliato fra noi ?

E questo sentire così sofferto ed intenso io non credo lo si possa banalmente classificare ed esaurire dentro la categoria letteraria del “clepuscolarismo poetico“, ma assurga a pieno titolo il diritto di essere chiamata “poesia tout court“

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