Le interviste senza domande, rubrica di Flavio Almerighi: Marisa Papa Ruggiero.
Questa rubrica, ideata e curata da Flavio Almerighi, è un momento fisso di incontro partendo da parole “rubate” durante la lettura di un’opera.
Aboliamo quindi il tradizionale question time che segue la lettura di un libro, sostituendolo con versi o comunque frasi dell’autore stesso. Gioielli rubati e restituiti in forma di intervista.
Su queste l’intervistato costruisce le proprie riflessioni, dice magari semplicemente quel che gli passa per la testa, si apre, si spiega, e magari ricorda parole che voleva dire e non ha scritto. Si propone al pubblico dei lettori di Versante Ripido sia come autore/autrice sia come persona, sia come edito che come inedito.
Ospite di questa puntata di “Interviste senza domande” è Marisa Papa Ruggiero e il suo “Jochanaan”.
La mia prima impressione fu questa che scrissi in calce al libro. Vedrei volentieri, e lotterei perché accadesse, questo poemetto rappresentato tra le rovine oltraggiate di Babilonia, in prossimità della pista di atterraggio costruita dagli americani durante la seconda guerra del Golfo, o a Palmyra, fatta a pezzi e svenduta in nero ai trafficanti di pietre uccise da sistemare al posto dei nani in giardino.
Ritrovo in queste poesie di Marisa Papa Ruggiero la componente fantastica surreale misteriosa ed inafferrabile di immagini e metafore lontane da ogni inautentica enfasi letteraria. Poesie ricche e vive, ma anche così essenziali e sinuose da catturare e diventare per questo universali. E’ il ritmo della danza che fa di Jochanaan un libro interessante che cattura fortemente fin dalla prima lettura. Infatti subito dopo aver finito il libro ho sentito la necessità di telefonare all’autrice per comunicarle subito ed estemporaneamente quanto l’avessi apprezzato. Testi che si compenetrano tra loro in un unico autentico poema di danze sacre, profane, di una sensualità disinibita ma non esibita. Di un ombroso senso religioso che abita gli attori di questi versi. Un tempo emozionante di lettura e rilettura, dove ogni singolo momento acquista e riacquista energia grazie al talento visionario e al back ground culturale della bravissima autrice, cui ho deciso di proporre l’intervista senza domande. Ho estrapolato alcuni versi dai sui componimenti, versi particolarmente distinguibili ed emozionanti. Marisa, donna di spirito e autrice talentuosa, è stata talmente al gioco che me ne ha proposti alcuni altri.
- Questa fame di vergine lupa è scesa nuda in giardino
Accetto volentieri il gioco, come lo chiami, Flavio, di entrare in questi versi da te scelti, ma lo premetto: mi tenta poco far avanzare dei “ragguagli” esplicativi al testo per non negare al lettore un’esperienza intuitiva autonoma, cosa che ritengo fondamentale in una lettura di poesia, per chi vorrà farla. In questo lavoro ho voluto convocare le parole a creare, diciamo, figurativamente, il tema, innescando meccanismi di contrasto sul piano espressivo, convinta che non siano le parole ad essere subordinate al tema, ma viceversa. Il dramma, infatti, come penso, non sta nel testo, ma nella tensione viva del linguaggio.
Mettere in atto un gesto desiderante significa, per me, porre allo scoperto corde insospettate che non aspettano che vibrare. Sono contrade del pensiero, figurazioni della mente modellate sulle necessità dell’immaginazione, tutte eccentriche rispetto all’asse narrativo. Ho inteso creare una macchina testuale come un organismo vivo in movimento giocato interamente sulla irrequietezza dei piani scenici contrapposti, spesso distanti tra loro nello spazio e nel tempo ed è proprio questa vitalità affidata, a mio avviso, al colore, alla plasticità della materia, a dare consistenza ai giochi delle immagini, alle sue atmosfere, alle sue metafore.
- … denudata neonata – a levante dell’occhio
Sono parole che introducono un richiamo abbastanza esplicito al clima del testo: vi agiscono, sul piano concettuale, delle forze misteriose, primordiali: si parla di una realtà ancora acerba, intatta che sta per entrare in un destino segnato da una singolarità di eventi che via via prenderà consistenza. E’ la figura di una danzatrice dalle remote ascendenze mitiche, forse imago archetipico del femminile, di una visione, di un’utopia. Non ha nome, non ha più il nome Salomè, è una figura della psiche, è un azzardo della mente che cerca di districarsi dagli stereotipi di certa iconografia drammaturgica tenacemente sedimentata nell’immaginario storico, una figura che si accampa di forza propria nel libro in tutta la sua spiritualità compressa e mi viene incontro… Lei è la Danzatrice, è la danza stessa, lei è, pertanto: rivelatrice del sacro.
Probabilmente un azzardo, ne sono consapevole, per questi nostri tempi ormai dimentichi dei tanti significati legati alle antiche danze, a quel mondo rituale complesso e seducente che non ci appartiene più, che abbiamo del tutto abbandonato; ma che è esistito.
In questo poemetto mi ha interessato l’attrito potente tra il mondo favoloso del mito, espresso dalla Danzatrice sacra e la emergente consapevolezza del pensiero storico rappresentato da Jochanaan, – l’altro polo della spirale – due potenze fortemente antagoniste, due modalità dell’essere destinate a restare scisse!
- … segni e figure entrano nello spazio
Era un verso, questo, che poteva cadere inosservato, e invece tu, non a caso, l’hai tirato fuori… ma sai, quasi sempre fare scrittura poetica è fare esperienza diretta col mistero: come accade che si è richiamati dentro un gioco dinamico di segni alfabetici e figure mentali, non so dire; so che quando ci sei nei paraggi per nulla al mondo ci vuoi rinunciare… Forse perché immagino siano, in qualche modo, le parole, sostanze “rizomatiche” incorporate nella nostra stessa fibra; non bussano per entrare, sanno la strada, entrano. E a volte entrano inaspettatamente le carte di un altro gioco neppure immaginabili persino dall’autore stesso… In realtà, credo che alla poesia importi poco che le si mettano “le parole in bocca” e tanto meno gradirebbe vedersi rinchiudere a trappola tra le pareti quadrate di un racconto, sia pure avvincente – ma questa è solo una mia opinione – vuol trovare da sé lo spazio in cui esistere: in fondo lei ama essere sorpresa, e ama ancor più sorprendere! Ho l’impressione che la nostra ordinaria comunicazione la faccia, beh, sì, sbadigliare! mentre mi sa che invece ami la sfida, nient’altro che la sfida, è la sfida che la fa esistere. Lei in fondo vuole che si osi qualcosa che esuberi dai vincoli della parola stessa… insomma, sentirsi coinvolta in un gioco le cui regole non sono state ancora inventate… Si tratta di seguirle, che altro? far proprio il vissuto di questa sostanza, imparare la via che la muove, mettere in rapporto opposizioni problematiche, polarità irriducibili, non per calcolo, ma per amore. Lì dietro l’angolo del mio campo visivo, in un dato momento, avviene qualcosa, e arde…
- … per planare / tra spalti vulcanici / in un’altra mutazione del sogno…
Qui, Flavio, mi spingi proprio tra le sabbie mobili… Primario è per me l’interesse per gli slittamenti di senso, per le dinamiche narrative distanti dalle coordinate temporali, compreso il senso di dislocazione, insomma, che attraversa il campo sensoriale secondo tracciati eccentrici non intenzionati a rappresentare la realtà, ma a trascenderla! No, non è propriamente scavalcarla, la realtà che interessa, (della quale, peraltro, lascio sempre “in vista” il referente originario perché siano riconoscibili i passaggi verso l’altro ordine di realtà che avanza) bensì cercare di conoscerla vivendoci dentro ma per raggirarla, oltrepassarla, trasgredirla… ecco, allora, la visione filtrata, anche deformata del reale, proprio perché il reale, tutto il sistema organico rintracciabile nel reale è slittato altrove, assorbito nel meccanismo scritturale, nei suoi vari filtri e processi di trasmutazione. Mi preme, anche, a questo punto dire che la rarefazione “iperletteraria” è, per me, cosa del tutto diversa e opposta alla mia visione: quella di starsene in una stanza blindata ed impedirne l’accesso ad altri.
- Il palco è una forca eretica che la luna insanguina
L’impianto teatrale oltre a rientrare in questo discorso di drammatizzazione delle immagini, ha il compito di mettere in campo una visione fortemente iconica, plastica della forma figurale, più che concettuale e descrittiva. Qui, l’espressività intensa, molto cromatica ha la sua peculiarità anche se, lo so bene, non può essere da tutti condivisibile. Si capisce che per un lavoro di questo tipo, il dispositivo scenico è l’unico spazio in cui può sussistere, funzionare. Più che raccontare una storia, (chi pensa leggendo questo libro di trovarvi una descrizione a ricalco di quelle vicende bibliche, resterà deluso) mi interessa, come ho detto, tentare di farne una trasposizione drammatica. Non si tratta di un’operazione intenzionale, è un’azione interiore che mi fa da campo magnetico, filtrato in un sistema di attrazioni quasi inconsapevoli che aspirano a prendere forma nella mia invenzione: qualcosa che ha a che fare con una passione… ho chiesto al teatro di farmi da interprete, di rompere la simmetria del tempo, la successione logica, lineare; ho chiesto alla struttura scenica di mettere in campo delle accelerazioni, delle allucinazioni: ogni immagine è specchio di qualcos’altro, ogni maschera è visione in proiezione espansa, ogni entità è sosia di qualcuno dietro le quinte o riflesso in uno specchio che lo trascende, lo eccede.
- … puoi guardare giunchi ed arpeggi arcuare / la torre
Ho preferito, come accennato, tagliare i riferimenti riconducibili a qualsiasi certificazione storico-letteraria per restituire la nuda corporeità della figura della danzatrice, il suo venirmi incontro al centro della scena, osando lo scandalo di una spiritualità propria. Ho seguito una sorta di itinerario visionario – intuitivo intorno a remote cosmogonie associate a presenze di divinità mitologiche del mondo mediorientale: la sumera Inanna, la babilonese Ishtar, le due potenze femminili legate a rigenerazioni cicliche celebranti i riti della sessualità, della fecondazione e, infine, della distruzione come una danza interna alle parole. Una danza di sorgiva, solare benevolenza e bellezza; poi, contaminata da insorgenti ideologie patriarcali, lacerata da un pathos estremo. Occorreva che la struttura verbale aderisse alla necessità di fondo della irrequietezza erotica, che è il cardine di tutto il testo nell’assecondare la gestualità scenica che avanzando trasforma. Occorreva, allora, che l’eros creasse da sé la configurazione plastica di questo vortice metamorfico, agganciasse molecole accese creando movimenti a spirale, farsi soggetto eminentemente relazionale, proiettivo, tradursi finalmente in immagine eventica.
- … appendersi ai suoni
Non è una mia invenzione la profonda spiritualità della Danzatrice, basti per questo il riferimento ad antiche letture, concernenti veri e propri riti di spoliazione come a simboleggiare, attraverso il metaforico passaggio dei “sette cancelli”, il raggiungimento di una condizione di autoconsapevolezza dell’individualità femminile da offrire in dono all’amato. Appendersi ai suoni: lasciar cadere uno per volta i segni materiali del potere terreno per una nuova fame di essenzialità e conoscenza, questo fa della creatura danzante una figura sacra, ben in contrasto con l’interpretazione che ne ha tramandato la chiesa!
Interessante notare la successiva banalizzazione e trasformazione in èra cristiana della religiosità profonda di questi riti antichissimi in forme lascive d’intrattenimento.
- Non c’è evento, è scritto, nella cecità degli sguardi
Guardare ed essere guardati: l’essere, da sempre, si definisce nello sguardo: tutto il poemetto gravita intorno al dramma di un evento mancato, cioè intorno all’inconciliabilità degli sguardi. L’evento per esistere, ama come si sa, la relazione unificatrice tra soggetti coscienti, pertanto privarsi di sguardo, è precludersi all’evento. Ciò significa, per l’uomo del poemetto, rarefarsi in una sfera d’assenza. Ecco in che consiste il dramma della danzatrice giudaica: la sua individualità, a questo punto, non può che regredire verso una fredda immobilità senza identità e senza storia. Resterà non più ricomponibile il fulgore unitario di corpo e intelletto.
- Quante lame sul viso accorrono / a pronunciare la solarità del male
C’è una linea invisibile che separa / unisce i due luoghi dello spirito: bene / male, due polarità in continuo fermento, entrambe funzionali al perpetuo movimento relazionale che sta alla base dell’economia del sistema vita, dell’equilibrio naturale nel quale siamo immersi: due forze vitali che ci appartengono nel midollo, forse senza saperlo veramente. Entrare nella “zona rossa” dell’infrazione, del pericolo, è rifuggire da una autoconsacrazione legata alla conservazione, concetto estraneo, peraltro, alla fisionomia dell’arte. C’è una peculiarità della hybris che è disordine dell’arte, dissipazione dell’immaginazione, dell’eros, dell’essere in quanto energia; c’è una solarità del male che non può essere taciuta, né tradita, che la si sconta nella solitudine estrema.
- e il geroglifico dentro il mio corpo esploderà
La danzatrice giudaica nelle sequenze finali rastremerà nella danza la propria corporeità fino ad arrivare a negarla totalmente. Questo accade quando certe linfe della natura e del sacro non s’intrecciano con le linee fulgide del logos e non si riconoscono nell’unità di sensi e idea. Qualcosa stava venendo meno, si stava disperdendo irreparabilmente sotto il profilo di uno scambio armonico tra le due forze dell’essere: la creatività mitica dell’eros e la coscienza ordinatrice del pensiero razionale e storico; una nuova èra bussava alle porte, ben decisa a farsi interprete di strategie di potere saldamente istituzionalizzate sull’ideologia patriarcale, e destinate a durare.
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Marisa Papa Ruggiero: percorsi di scrittura creativa affiancati ad attività pittorica e didattica nei licei, dapprima a Milano, poi a Napoli dove da tempo vive. Ha pubblicato una decina di libri, di cui otto di poesia, con Ripostes, Manni, Puntoacapo, Ladolfi. Tra i più recenti: Passaggi di confine, 2011, Di volo e di lava, 2013, Jochanaan, 2015. In anni recenti, è attiva anche in campo critico. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde e alcune edizioni d’arte a tiratura limitata. Suoi testi poetici sono stati rappresentati come eventi scenici in siti archeologici (Napoli, Cuma, Bacoli, Siracusa). Le sono stati attribuiti diversi premi e segnalazioni di merito ed è stata tradotta in alcune lingue. Ha pubblicato testi poetici, grafici, critici e prose d’arte in riviste italiane ed estere, tra cui: Gradiva, Offerta speciale, Risvolti, Lettera internazionale, L’area di Broca, Arte & carte, Caffè Michelangiolo, Poesia, in siti web, in blog letterari, in raccolte antologiche e in rassegne d’arte sia italiane che estere. E’ tra i fondatori di alcune riviste letterarie, la più recente è Levania, rivista di poesia edita a Napoli, di cui è redattrice.
Già ebbi a concludere, nella mia recensione al testo pubblicata su ALLA VOLTA DI LEUCADE, con queste parole che mi piace riportare “Ed è in questa opera tutta la linfa esistenziale della vicenda umana: vita, morte; terrenità, volo; amore e sottrazione. Forse sta proprio nella simbiotica fusione delle questioni eraclitee, delle contrapposizioni di memoria montaliana, il senso di questo poema; la sua novità intimistico-verbale; la sua stimolante vivacità; il suo tragico epilogo non è altro che una conclusione che ognuno conosce ma che nessuno si aspetta:
Nessuno vide la danza esangue
arretrare sui gradi
la lancetta cosmica mancare un battito
la cornacchia bianca spiccare il salto nel buio
Nazario Pardini
Complimenti per la nutrita intervista; per queste risposte che tanto sanno di poesia, vita, memoria…….
C
è sempre un piacere immergersi nella lettura della sua poetica. Grande poetessa riesce a farmi soffermare e comprendere passaggi non facili per me. Mi stimola a meditare ed entrare a comprendere, man mano, tutti i vari passaggi. Ogni volta è una sfida che amo. Complimenti.
ricordate che “palco” è anagramma di “colpa”.
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[dedicata a A. M. Ortese
morta a Rapallo il 9 marzo 1998]
Scrivere è tornare a casa,
trovare una pace o un se stesso.
È separare il fuoco dalla terra.
È non ritrovarsi più insensati.
Saranno gli alberi inumati con l’ossigeno
e la visione sarà letale per le radici.
I polmoni, mostruosi, non cederanno il sangue,
la sorgente è divisa e secca come una soglia.
Scrivere è trovare a casa un ritorno,
è dare la pace a un se stesso sparso.
È decapitare l’esilio di una ferita
lieve: un giusto inganno, un falso avvento.
In tutto credo come i bambini… ai massacri,
al sangue equino dei loro occhi sbalorditi,
e alla Natura ancora, al Respiro, alla Ragione in croce!
Non darmi più, intelligenza, il valore esatto delle cose!
antonio sagredo
Vermicino, 10-23 giugno 1997
(pubblicata in “Poemas”, Zaragoza, 2001)
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Come in aprile è pazzo il fiore!
Il tempo non aveva un secondo da battere
quando ascoltavo il canto di una tortura nello specchio.
Le stelle erano premature nella gelatinosa assenza,
una fantesca in lagrime era la vela turchese nel porto.
La notte uccise il corvo con guanto di giallo velluto,
gridai: tutte le stagioni sono equinozi d’inverno!
Non attraverserò più con sorriso di neve i ponti:
una vecchia città per divertire un qualsiasi Rigoletto?
Né darò in sposa a un greco deforme la terribile Salomè!
Nel cimitero io vidi gli occhi-rospi di Shakespeare brillare,
più gelosi sul cranio d’Otello, ma l’ultimo attore recitò:
io non sono nato da madre! in me stesso è… l’origine!
Saffo si è impiccata
e Orfeo – ha pianto!
antonio sagredo
Roma, 25 gennaio 1981
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La Vincitrice
Come un incubo o un urlo mi fissava
il monte a oriente del tuo venere.
Brillava l’ardesia sottocutanea delle cuspidi
e i glutei delle cupole, simili ai tuoi,
tracimavano in navate di sangue
solitarie metropoli della peluria…
troppo se il pulsare indenne
perseguivi di madreperla lungo le dorsali
di contrafforti in lagrime…
serafini detestati dai timballi
espugnavano i tramonti in detriti, in cocci…
fasciati i moli dalle gorgiere s’abbattevano
sul talamo che Giuditta trovò inattuale,
lei, l’impreparata, la disattesa al martirio!
antonio sagredo
Vermicino, 18-20 febbraio 1998
(pubblicata in “Poemas”- Zaragoza, 2001)
Sono grata a Pardini, ora come allora su: Alla volta di Leucade, per aver colto il rapporto tra la tensione drammatica che accompagna la vicenda umana e “la novità intimistico-verbale” che ha voluto vedere in questa ricerca. Anche a Luciana il mio grazie sincero per le sue generose parole.
A Sagredo, che ugualmente ringrazio, avendo apprezzato molto i suoi testi, vorrei dedicare, a mia volta, qualche poesia, tra le prime del poemetto, e la dedico a tutti i lettori del sito che mi hanno seguita fin qui e vorranno, forse, perdonarmi l’autocitazione.
Questa fame di vergine lupa è scesa nuda in giardino
Ѐ qui dentro in bave maliose il respiro asmatico
che ha preso la mia forma: deve aver troppo
fissato lo scampanìo mortale
che imprigiona il caos sotto le ossa
e mi graffia in corpo una sinfonia eretica,
con dita scarlatte pizzica
corde complesse e già uno sciame
d’api rossastre alluna nel mio occhio
e congiunge i punti del Carro
mentre le Furie bambine altalenano
sulla grande Bilancia
che si specchia sui vetri come un fondo marino
siamo, vedi, oscillanti alghe al di là del vetro,
frutti strappati acerbi
sui futuri quadranti della lingua
che mi scavi di notte
e ogni notte a venire e te lo dico
rubando il verso alla cornacchia bianca (da me adottata)
te lo ridico in lingua oltremare e in fulgente cadmio
che ti viaggio sotto lo sterno e
ti lucido le squame (sono secoli che lo faccio)
un trono dentro ti addobbo di magenta e oro
(pag.. 11)
Non guarderò la luna in cammino leccare
il ghigno sanguigno del parco, seguirò
il taglio di luce oltrepassare la soglia
dove nulla è mai iniziato
e sarà un brillìo di zolfi incendiari ad aprire le danze,
sarà un murale sgargiante dove fummo travolti
da uno scatto di giro
e ci sorprese il già stato al punto infinito
dove sforammo, incauti viandanti, la linea gialla che taglia il confine
o dove inseguiti scagliammo
la prima lancia a Lascaux sul bisonte in corsa
e restammo come larve conficcati tra le rocce
e lì stecchiti fossili trasparenti ambre
o più tardi, sgranati nel peso, occultammo
tra le scogliere della lingua gl’indizi
del nostro passaggio sul graffito a parete
della Meridiana gigante precipitando
con ali di Icaro oltre la traiettoria segnata
per ritrovarci nella pelle blindata
di questo crocevia zodiacale
interdetto alla grazia
che ancora incendia la torre, lo stesso rivolo
di un rosso saturnino emula il sangue
della mannaia su cui s’adagia lo sguardo
ma già il fosfene incendiario lambisce i broccati
e la culla delle primizie cade ammutolita
al centro della danza …
in questa danza io esisto, io principio a morire
(pag.12)
E’ fuori scena l’azione! Avvicinati!
Scandisci con me la morsa
di un turbine sotto la pelle, esplora
negli alveoli della carne
le coordinate algebriche
di una sottile scrittura
in una formula essenziale!
Il mio regno è
uno scatto anomalo di rotazione
sul quadrante cosmico …
Insorge psichica l’anca sottile
da antichi papiri, ingravida semi di porpora
e spezie in danza sfiorando
geroglifici argillosi su tavolette vergini
da una sponda all’altra della mia nascita
in questa riva orientale
del Capricorno,
i sigilli sumeri della città luttuosa
impigliati alle ciglia,
i denti della notte sul mio seno
(pag.17)
Marisa Papa Ruggiero