“Le onde portatrici di morte…” di Gabriella Montanari

“Le onde portatrici di morte cantano ai bambini cantilene senza senso” (R.Tagore), reportage di Gabriella Montanari.

   

   

Agosto e il monsone sono agli sgoccioli quando Nuova Delhi ci accoglie sul prato brillante e molle dell’Hotel Claridge. Le nuvole sono grasse e basse, piangono da oltre un mese. Gli indiani non si riparano da quella doccia sottile, mite eppur caparbia. Le sorridono, la bevono, l’assorbono. Solo noi sahib ce ne stiamo avvinghiati agli ombrelli per proteggere le uniformi coloniali dal cielo in lacrime.
Gange-a-HaridwarLa aaya, la tata del Darjeeling, dice che a Delhi il monsone is good, non fa troppi danni. Ed è vero. Nella capitale la pioggia si limita a bagnare le notti e le prime ore del mattino con regolarità e clemenza e le giornate si affacciano ai balconi vagamente fresche. Le strade, per lo più asfaltate, resistono all’invasione del fango e s’impreziosiscono di specchi fluidi e argentei.
Solo una volta uno scroscio improvviso si è portato via i tetti di lamiera e i cavi elettrici sono esplosi in scintille e fuochi d’artificio. Una scena, prima d’allora, vista solo in televisione, quando i telegiornali regionali mostrano il passaggio rabbioso e nefasto del monsone, comunicando un numero imprecisato di annegati, dispersi e sfollati nei villaggi e nelle città del sud del paese. Là il monsone è affare serio. È venerato e temuto come un dio capriccioso che fa, letteralmente, il bello e il cattivo tempo. Irriga o inonda, a suo piacimento.
Nelle campagne i raccolti dipendono dalla stagione delle piogge. Nelle metropoli, in estate, lo smog e l’afa si fondono in miscele esplosive e i cittadini rivolgono gli occhi al cielo, avidi di manna che rinfreschi l’atmosfera. Ma ogni anno è una sorpresa, un’incognita. A immagine e somiglianza dell’avvenire, il monsone è imprevedibile, irregolare.
C’è da dire che la pioggia torrentizia provoca negli indiani una strana eccitazione, come se lo spirito assopito dalla canicola si risvegliasse e si tingesse di rosa. Quando l’acquazzone esplode improvviso, quel brioso rovescio catartico porta con sé romanticismo, sensualità e liberazione. Regala una gioia effimera.

Anche se per gli arabi mawsim era la stagione dei venti propizi alla navigazione verso l’India, quello delle piogge è il periodo sconsigliato per visitare il subcontinente. Nel microclima dei mesi umidi proliferano insetti portatori delle più svariate malattie infettive. La malaria non è di casa a Delhi, in compenso l’incubo della dengue avvelena il quotidiano.
Benares---cremazione-diurnaL’acqua in India porta in sé il germe della vita e il morbo della morte. È un problema tanto ecologico quanto economico. L’agricoltura ingorda e l’urbanizzazione cancerosa hanno reso le acque di superficie un ricettacolo di rifiuti domestici e industriali, fertilizzanti e pesticidi. I batteri vi prolificano e l’acqua malata entra subdolamente nelle case. Una minaccia, specie per i bambini. “Sciacquatevi i denti con l’acqua minerale”, “Chiudete la bocca sotto la doccia”, “Non bevete nella vasca da bagno”, “Non versatevi l’acqua dal rubinetto”. È questa la consueta litania che le previdenti madri occidentali ripetono ai figli.E il cibo, allora? Nessun alimento fresco entra nel frigo senza aver subito un rigoroso trattamento disinfettante, al termine del quale le uova hanno lo stesso sapore del pollo e i manghi quello delle melanzane. Al ristorante poi, anche nei cinque stelle, si evitano frutta e  verdure crude così come i cubetti di ghiaccio nelle bevande e si chiede sempre al cameriere di aprire la bottiglia di minerale sotto i nostri occhi. In agguato ci sono tutte le sozzerie trasmesse dall’acqua contaminata: amebiasi, dissenteria, tifo.
Nelle campagne le famiglie spesso non hanno accesso diretto a una fonte di acqua potabile e alle donne spetta la corvée di percorrere ogni giorno decine di chilometri con un secchio in testa per procurarsi il necessario per bere, cuocere il cibo e lavarsi. E anche in città l’acqua viene razionata, specie d’estate. Non ce n’è abbastanza e il trasporto costa. Chi se lo può permettere si fa installare sopra il tetto o in terrazza un paio di orribili cisterne di plastica nera dotate di pompa, manuale o automatica, a seconda del reddito familiare. Così l’approvvigionamento giornaliero è assicurato e ogni tanto ci si può concedere il lusso di un bagno anzichè la solita rapida doccia.

L’India è la culla del “paradosso idrico”: l’acqua dei suoi sette fiumi sacri è forse quel che di più degradato e insalubre si possa trovare in natura, eppure per gli indù è pura al punto da poter lavare i peccati dell’anima. Il primato spetta al Gange. Gangâ è la dea del fiume sacro, creata dal sudore dei piedi di Vishnu e scesa sulla terra per purificare gli umani dalle loro colpe. Per questo il Gange è il fiume celeste che scorre giù dal paradiso degli dei e sulle sue sponde terrestri si sviluppa il microcosmo dell’universo. Gli indiani lo chiamano Mother Ganga, perché è come una madre amorevole che nutre i popoli con abbondanza di acqua e assicura la fertilità, al pari di una madre prodiga di latte. Il Gange offre la saggezza spirituale e il pellegrino che si bagna nelle sue acque sperimenta l’unione con la verità ultima. La dispersione delle ceneri nel fiume può apportare una vita futura migliore e consentire di raggiungere più velocemente la moksha, ossia la liberazione, l’uscita dal mondo fenomenale.
Gange-a-nord-di-RishikeshHo incontrato per la prima volta il Gange nei pressi di Rishikesh, ai piedi dell’Himalaya. L’ennesima città santa, vegetariana e patria dello yoga. Bandisce gli alcolici e accoglie i fricchettoni dello spirito. Il Gange vi scorre rumoroso. Di notte ancora brontola dietro il nostro chalet tra i monti. Nervoso, quasi furioso nelle sue rapide vorticose e spumeggianti. Acqua verde che tira all’azzurro. A tratti trasparente da scorgere il fondo. I locali vi pescano di frodo il mahseer, una sorta di grosso barbo reputato per le sue carni.
Ho rivisto il fiume più a valle, là dove raggiunge l’apogeo della santità e dell’inquinamento. A Haridwar, una delle nove città sante dell’induismo, una gigantesca statua di Shiva si erge all’entrata della città, come un totem, un monito al rispetto e alla devozione. Il fiume si è calmato, sembra essersi riappacificato con gli uomini, anzi quasi addomesticato, ingabbiato tra i ghâts di cemento che gli scendono dentro, lacerandogli i fianchi con i loro gradini invadenti. I devoti praticano abluzioni, meditano, accendono fuochi, fanno suonare le campane dei templi, diffondono mantra dagli altoparlanti. Sul fiume navigano minuscoli battelli di foglie di banano riempite di lumi intrisi nell’ olio di canfora, petali di rosa e garofani d’India. Lucciole acquatiche che trasportano fino alle orecchie degli dei le preghiere dei fedeli. I sadhu, gli asceti, gli uomini santi offrono benedizioni di ogni sorta, secondo le richieste e in base alle tariffe. Per chi desidera l’amore sono 200 rupie, 400 per la ricchezza e 500 per la salute. Per le tre si ha diritto a uno sconto. Al tramonto assisto alla cerimonia dell’aarti sul ghât Har-ki-Pauri, non lontano dalla pietra su cui Vishnu lasciò l’impronta di un suo piede… Ci sono migliaia di persone, pellegrini, devoti, curiosi che assistono al rito quotidiano in onore della dea Ganga. Sotto le torce infuocate, la superficie del Gange si tinge di riflessi ramati e brilla di tante iridi gialle trasportate dalla corrente.

Poi rotta verso Benares dove il fiume continua la sua corsa verso l’oceano. La sporcizia disseminata ovunque fa parte dell’atmosfera decadente di quella riva sospesa tra nirvana e naraka. In superficie galleggiano detriti e rifiuti di ogni sorta, inorganici ma soprattutto organici. Sugli argini, giovani donne dai sari sfolgoranti raccolgono ciò che con tutta probabilità diventerà la loro cena. Un incantatore di serpenti, bufali d’acqua e cani malandati ci seguono con la coda dell’occhio mentre contrattiamo il noleggio di un’imbarcazione. Scegliamo quella dall’aspetto più solido. Il giovane Caronte ha un sorriso disarmante, così saliamo, pronti a essere traghettati. Cadavere-di-sadhu-sul-Gange-a-BenaresRisaliamo il fiume in direzione di Manikarnika, il ghât più sacro dove hanno luogo le cremazioni. Gli scalini che s’immergono nell’acqua sono gremiti di uomini e bestie, pescatori e capre, bambini e vacche. Uomini seminudi s’insaponano e risciacquano, donne vestite lavano i panni. Quasi tutti fanno abluzioni, pregano, meditano. Uno sciame di ragazzini galleggia su copertoni da camion, spruzzando e fendendo l’acqua in schegge. Ben presto le narici sono assalite da un odore insolito, mai sentito prima. Odore dolciastro di combustione. Non si contano le pire umane sulla riva del fiume. La fabbrica della morte non chiude mai i battenti, i falò ardono ventiquattr’ore su ventiquattro. I roghi sono fatti di tronchi, legni più o meno preziosi e costosi, in funzione delle possibilità del defunto. Alcuni indiani risparmiano tutta la loro vita per potersi pagare la cremazione sul Gange. I corpi giacciono sopra i bracieri, avvolti in bianchi sudari che ne lasciano indovinare la sagoma. Quando le carni iniziano a bruciare, il cranio è franto a colpi di martello, per liberare l’anima dalla prigione del corpo. Per corredo funebre solo unguenti e petali di fiori. Le ceneri sono raccolte e disperse tra le onde. È un atto finale, una comunione, una riconciliazione inevitabile, tra la madre e i suoi figli.
Mentre la barca avanza, un remo colpisce qualcosa che galleggia; non faccio in tempo a distrarre i bambini con una scusa o a coprire loro gli occhi, che il corpo mummificato e rannicchiato di un uomo ci passa accanto. È il cadavere di un sadhu, dice la nostra guida, un uomo santo. Loro non vengono bruciati ma gettati nel fiume che ne conserverà le spoglie.

In India si ha l’impressione che l’acqua rifletta gli splendori e le miserie dell’uomo.
La Yamuna, affluente del Gange, dopo aver attraversato Delhi giunge esangue ad Agra per languire ai piedi del Taj Mahal. Il marmo bianco del palazzo dell’amore eterno si specchia nelle sue acque immobili, mortifere più della peste e del colera. La devozione per una donna defunta sopravviverà ai secoli. Il rispetto dell’ambiente è da tempo agonizzante.

Ogni anno Mumbai celebra in pompa magna il compleanno di Ganesh, il paffuto dio elefante. I devoti si procurano statue della divinità e, dopo averle decorate e venerate negli altari domestici per una decina di giorni, le portano in processione verso le spiagge per immergerle nel Mare Arabico. Un tempo queste effigi erano Sadhu-sul-ghat-di-Benaresplasmate nell’argilla e così la terra, attraverso l’acqua, se ne ritornava alla terra, rispettando il ciclo di creazione e dissoluzione nella natura. Oggi le statue sono di gesso, meno costoso ma difficilmente biodegradabile, e vengono dipinte con vernici tossiche al mercurio e al cadmio. Il giorno dopo le celebrazioni e le immersioni di massa, sulla riva e sulla superficie del mare si accalcano banchi di pesci morti.

Ad Amritsar, nel cuore del Punjab, il Tempio d’Oro, sacro ai Sikh, si erge nel mezzo di un laghetto quadrato, il Bacino del Nettare, dell’Immortalità. Vi si accede attraverso quattro entrate, simbolo dell’apertura a tutti i popoli, a tutte le credenze. Purché il capo sia coperto, i piedi scalzi e lavati e non s’introduca alcol né carne né tabacco. Un luogo paradisiaco le cui acque dorate portano ancora il ricordo del sangue di oltre mille Sikh separatisti, massacrati nel 1984 dai carri armati dell’esercito indiano, per ordine d’Indira Gandhi. Quelle acque dissacrate covarono vendetta e quattro mesi dopo l’eccidio il primo ministro indiano trovò la morte per mano delle sue guardie del corpo, anch’esse sikh.

La morale?  La vita continua a fluire come un corso d’acqua, come fa il Gange, succeda quel che succeda. Ancora troppi indiani vivono accecati da antiche tradizioni religiose, ingiuste e antidemocratiche. L’acqua, per portare la vita, non dovrebbe mai stagnare. Allo stesso modo le credenze, per accompagnare l’evoluzione e la crescita dell’uomo, non dovrebbero irrigidirsi in dogmi ancorati al passato, ma scorrere come le acque di un fiume.

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mother india

erano scrosci. di fine pomeriggio e di acidi fermentati in cielo
poi gocce aguzze come baci di picchio in faccia all’aria,
l’oro terreno della curcuma per sedare il morbo ibernato nei cubetti da cocktail
e i rubinetti col filtro, la sete castrata, il nemico nella vasca da bagno.
sospesa all’eucalipto spiavo la vita cucita alla morte in una matassa odorosa
cercando d’intuirne le mosse, le svolte, le direzioni sanza meta
ma in realtà volevo solo bere tanto da annegare,
affondare le ventose della labbra nella freschezza di un getto
attaccarmi alla bottiglia e succhiarle la parola, fino al fondo.
ho sfiorato in sogno un fiume amico, un oceano benevolo
lavagne bagnate su cui scivolare insieme a ceneri ed elefanti di gesso.

Sikh-al-Tempio-d'Oro---Amritsar

 

 

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