L’educazione dello sguardo: parola e immagine nella poesia di Andrea Inglese, di Giuseppe Martella.
- Inventari e comparse
Quella di Andrea Inglese è una ricerca che si può definire nel complesso “fenomenologica”: ma essa varia poi nell’intenzione, nella forma, nelle modalità di esecuzione da raccolta a raccolta, nei diversi periodi della sua carriera, a testimoniare di una tensione continua, dell’inquietitudine della forma che caratterizza la sua poesia. Il suo percorso è caratterizzato da un costante “ritorno alle cose stesse”, un particolarissimo “partito preso delle cose” (F. Ponge), ma non nel segno della husserliana evidenza conseguibile da una coscienza sgombra da abitudini e pregiudizi e bensì invece in quello di un io intrappolato nell’apparato cui appartiene, di uno sguardo ineludibilmente opaco, di una voce sorvegliata che cerca di sottrarsi solo per un soffio alla monotonia della cronaca, attraverso la leggera inflessione di versi appena accennati, ritmicamente marcati. Questo ritorno disincantato, residuale e fattizio alle cose stesse, nel minimo margine di gioco che ci è oggi concesso, si definisce già nel suo libro d’esordio, “Inventari” (2001), specie nella sezione intitolata appunto “Rilievi”, di cui ecco un esempio anche tematicamente emblematico:
Cose stesse
Il ragionamento sta in piedi
e poggia sulla frase falsa
che fa da assioma, detta
dalla maschera che non cela
un volto, ma forse un ritratto
ormai stinto sulla parete
bianca, dentro una cornice vuota
e se qualcosa è stato (qualcuno
colpevole ha colpito) lo sai
al risveglio, per il pugno
senza traccia ma dolente ancora
sul sopracciglio, che poi è finto:
matassina di lana e acrilico
di un già passato carnevale.
L’antica metafora del mondo teatro viene qui sottoposta, come si vede, a una mise en abyme: lo sguardo e la parola dell’hypocrites (dell’attore in maschera), “la frase falsa
che fa da assioma” reggendo la Dichtung del poeta, intesa come ascetica composizione di luogo, non celano più neanche un volto umano ma semmai la copia, il simulacro, il suo ritratto “dentro una cornice vuota”. E le cose e gli eventi non sono mai sperimentabili in prima persona ma semmai solo di rimando, attraverso le tracce che hanno lasciato nell’apparato, nell’epoca del mondo ormai risolto in immagine, sul fondale stinto, color seppia di questo sempre “già passato carnevale” di cui siamo al contempo attori e spettatori.
L’esercizio, fenomenologico e cinematografico, della variazione prospettica (in cui Andrea Inglese eccelle) viene poi svolto esemplarmente in un’altra poesia, “Figura chiusa”, secondo i principi del ritaglio e del montaggio e più in generale della ricombinabilità tecnica, del riordinamento modulare di inquadrature standard, di tessere, che tentano di comporre un mosaico, una esperienza coerente, una “figura chiusa”, un’“orma finita” una “scena pulita della storia”, da cui emerge però di prepotenza “l’incontenibile fondo”. Si tratta qui di una buona metafora della crisi del principium individuationis, dell’inafferrabilità di cose ed eventi nella epoca attuale in cui la rappresentazione del mondo ha lasciato il posto alla sua simulazione, alla indefinita riproducibilità tecnica, al trionfo della copia nella cancellazione dell’originale e dell’origine. L’avita dialettica di originale e copia, che sta alla base della teoria platonica delle idee e dunque della metafisica e della logica occidentali, si dissolve ora nella indistinguibilità dei due termini, nella onnipresenza del ritocco occulto, dell’effetto speciale come tratto fondante di ogni icona, di ogni istanza della forma, dell’orma e del loro rapporto o logos. A tale dialettica logico-temporale del prima e del dopo, della causa e dell’effetto, dell’idea e della cosa, ormai messa in crisi definitivamente dalla possibile simulazione digitale di ogni effetto di reale, corrisponde concettualmente una tensione sincronica, all’interno della medesima figura (sia della percezione individuale che del “Nomosdella terra”) fra disegno e dettaglio. E’ un effetto dell’esercizio percettivo della messa a fuoco, cui fa riscontro quello discorsivo e poetico della messa a tema. Anche di questa tensione aperta fra dettaglio e disegno troviamo un bell’esempio nei “Rilievi” di Andrea Inglese. Val la pena di citare, appunto, dalla poesia “Dettaglio”: “lasciate che appaia un’asola,/un’unghia, un angolo di carta…/che la scena immane sbocciata/tra cavalieri, banchetti, ascensioni/sia lacerata, rasa/da un dettaglio… lasciate che remoto/il rammendo/come una lebbra sfiguri/cena, deposizione, martirio…”.
Anche questa dialettica aperta non riguarda però direttamente la realtà, la storia, il mito ma le loro raffigurazioni all’interno di un quadro, mentre lo sguardo che prende di mira l’oggetto è anch’esso a sua volta rimediato, come si evince dall’esortazione finale del componimento: lasciate che “una venuzza spaccata/sia rasoio nell’occhio/dei papi di Velasquez.” La pagliuzza nell’occhio del reporter è un elemento costitutivo della poetica di Andrea Inglese, che ha preso atto fino in fondo della impossibilità dell’immediato come tratto caratteristico del nostro mondo della vita, teatro dell’assurdo in cui non mancano scenari grotteschi o apocalittici, dove “la plastica respira in fotosintesi, l’acqua/di fonte è colorata e solida”, “uomini acrobatici/si danno fuoco davanti alle ambasciate” e “noi siamo puri accidenti nel corso/del mondo”, stralunate comparse.
- Montaggi e sequenze
Le poesie di Andrea Inglese si possono leggere da una parte come pazienti esami strumentali e dall’altra come drastici interventi chirurgici sulla carne del mondo, sulle vedute, paesaggi, profili che esso offre a uno sguardo sbieco, ravvicinato, parassitario e a una mano abile, invasiva che rovista fra i suoi detriti fossili e scarti organici, metodica e impietosa come deve essere quella di un buon chirurgo. Il rapporto fra osservazioni e descrizioni nel discorso di Andrea Inglese si può paragonare peraltro a quello fra prese dirette e riprese in studio, in quella che possiamo definire a tutti gli effetti una poetica cinematografica. Questa caratteristica si accentua ne L’indomestico (2005) rispetto alla raccolta d’esordio, Inventari (2001). Perché se lì si poteva parlare ancora di analisi del quadro, della figura riprodotta, nel dipinto o nell’istantanea, di isolamento del dettaglio e di fermo immagine, di esercizio di inquadratura e preparazione al montaggio, qui ora si tratta anche e per lo più di piani sequenza e carrellate, a compiere vere e proprie scenografie dell’infra-ordinario e riflessioni sull’immagine-movimento. Generalizzando, mi sembra che nel corso della ricerca fenomenologica di Andrea Inglese si possa osservare un’evoluzione che va dal ritaglio alla carrellata e dall’inventario alla scenografia, cioè un movimento verso l’intreccio vero e proprio, verso la narrazione e la prosa, che culminerà infine nell’autobiografia intellettuale (Autoantologia, 2015) e nel romanzo-saggio autobiografico (Parigi è un desiderio, 2017).
Ed ecco un chiaro esempio di questo sviluppo (che non è però affatto lineare) della cinematografia di Andrea Inglese, dall’inquadratura e dal montaggio elementare verso il piano sequenza e la scenografia ad ampie campate, senza mai rinunciare però all’effetto zoom, alle variazioni di distanza e di prospettiva, che consentono la scoperta di particolari inediti, delle rughe e dei rifacimenti nei corpi, della ferite e delle protesi, degli artifici presenti in ciò che consideriamo naturale. Si tratta di una descrizione prevalentemente affidata alla coordinazione, alla paratassi, che nel discorso verbale è l’equivalente del piano sequenza cinematografico: “questo sopra quello sotto,/ e poi il geranio e il filo di ferro,/ gli esterni gli interni e sfondamenti,/… e poi…/e poi altro… a perdersi, in ritorni e fughe,/finché ci saranno coordinazioni (e poi…)/ per allineare nella paratassi (e poi… )/ altro ancora, malvisto, poi visto fin troppo/…e ancora, in successione, trovando/ un posto, anche noi, tra i fatti:/ il posto dell’ostacolo”.
Questa poesia si può considerare un vero e proprio manifesto della sua poetica, che è chiaramente debitrice nei confronti degli autori del cosidetto nouveau roman, (Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, ecc.). Si tratta infatti di una riedizione della “scuola dello sguardo” che ora però appare sempre più congiunto all’intervento della mano e esplicitamente si svela nella sua natura tattile, cioè come effetto di interferenza dello strumento nel campo di osservazione per cui assume infine “il posto dell’ostacolo”, in questa moviola esistenziale che tenta di afferrare i minimi dettagli e adombramenti delle cose (“lo scatto dei denti/sugli echi”), nel loro venire al proscenio, nella loro futile reciproca lotta per il rilievo, nella infra-ordinaria e straordinaria polemica del divenire. E alla indagine della percezione si affianca poi quella della memoria, non solo visiva ma propriocettiva, organica, che si rivela essere al contempo un doloroso esercizio di mnemotecnica, che è il sostrato indispensabile di ogni poetica, il presupposto fabbrile delle belle immagini di sogno apollinee, o anche il prezzo che ogni artista ha da pagare nell’eterna oscillazione fra “la perfezione della vita e quella dell’arte” (W.B.Yeats):
“Sei nella colonna
vuota, in caduta, passi i piani della memoria
finché ricorderai non ciò che vedevi
con imprecisi contorni e richiami,
ma lo spessore di tavoli e sedie,
…
ed altre tattili inezie che sotto
le dita non hai percepito
nell’urgenza di tanto sognare.”
Fino alla bellissima surreale, sincopata apocalisse di tutte le cose:
“Fra poco torneranno. Tutte quante. Le cose.
…
Con il loro blues, il mormorio roco
di fondo, in umida mota, dal fondo
sorgeranno. E meditano, nel sommo,
una calma definitiva adunata.”
E’ questo il correlativo oggettivo della mobilitazione del desiderio, della confluenza onirica di parole e immagini, del gioco aperto di condensazioni e spostamenti che incarnano il dualismo cosmico di Eros e Thanatos: “ci spostavamo sui fondali/ senza mai doverlo consumare/ il desiderio, ed esso si eternava/ davanti a noi, nitido nell’aria,/ come un fiore crudo, una galassia.”