Lettera all’autrice, poesie di Francesca Del Moro.
Raccogliendo l’invito a contribuire a questo numero di Versante Ripido, ripropongo alcune poesie tratte dalle mie prime due raccolte. Sono state scritte una decina di anni fa, ma mi fa piacere offrirle qui, dal momento che la situazione familiare che le ha ispirate non mi ha mai permesso di diffonderle come invece ho potuto fare con i miei libri successivi. Per me non si è mai trattato di ricorrere al verso per sfogare un’esperienza personale e trarne conforto ma di interrogare, mettendo in gioco me stessa, la condizione della donna nella famiglia, tra i doveri, l’ansia di amore e i requisiti che è chiamata a soddisfare sentendosi spesso inadeguata. Il rispecchiarsi nei miei versi da parte delle donne che allora li hanno letti mi ha dato la fiducia necessaria per continuare a scrivere in questo modo, anche se i miei temi nel tempo sono cambiati. Buona lettura. FDM
Da Fuori Tempo, Giraldi 2005:
Questa cosa che mi dà fastidio questa cosa per cui provo orrore questa specie di scarabocchio un disegno con le linee che tremano un grottesco cartone animato questa cosa da cui mi protendo con occhi e mani per essere solo occhi e mani questa cosa da cui cerco di staccarmi tendendomi come un elastico che sento brulicare mentre mi allontano questa cosa che mi dà la nausea questa cosa che cerco di correggere mentre la guardo di plasmare diversa mentre la tocco questa cosa che è un marciume osceno questa cosa che mi blocca la gola questa cosa che si liquefa dietro la mia testa questa cosa che si attacca al letto questa cosa che schiaccia le persone questa cosa che è come il retro del cranio scoperto dove sento che si vede il mio cervello questa cosa da cui fuggo tutto il tempo
è il mio corpo.
Guarda quante cose sono
Guarda quante cose sono
moglie-mamma-amante-amica
redattrice-traduttrice-scrittrice-attivista
incasa-inpalestra-alcinema-inufficio
tutte le cose che sono
sono così tante cose
che non ho più bisogno
neanche di me.
Alle altre madri dopo troppo vino
Voi avete tutto ciò che sogno,
sentite l’essere due in uno
e la condivisione piena
mentre io sono sola, scissa,
separata, allontanata.
Davvero voi sapete
l’altra metà della mela,
l’anima condivisa,
lo sguardo raddoppiato,
il dolce essere insieme?
Davvero non ripetete
i banali rassicuranti
rituali dell’attenzione,
davvero siete state accolte
ricevute accettate inglobate per sempre
mentre io sono respinta
rigettata schifata sputata fuori
dall’idolo che ho indorato,
che mi schiaccia col piedistallo?
Davvero voi siete la dea
che è tutto il sogno, il desiderio,
davvero siete la lontananza
attinta quotidianamente?
Davvero siete la felicità
che si raggela in mille istanti?
Davvero, davvero?
Siete al di sopra del mio corpo
che striscia inutile e ignorato,
davvero siete statue immote,
ambite sfingi produttrici
di figli orgasmi correttezze?
Davvero siete già arrivate,
la vostra figa è un feudo ricco,
una ferita di piaceri
che ha chiuso tutti gli orizzonti
al vostro unico vassallo?
Così preciso, che vi adora,
che vi dà un senso quotidiano?
Io invece no, falsa signora,
un ratto molle, inadeguato,
a questa tavola sfiguro,
non fa per me questo banchetto,
non è l’amore imperituro
che il mio destino fa perfetto!
(snocciolo stolte rime nell’ebbrezza)
Oh dio davvero voi sareste
ciò cui ambisce la natura,
Veneri soddisfatte e ferme,
dispensatrici di lasagne
e di salotti lucidati,
lenzuola imbrattate
di sperma regolare?
Mio dio voi mi umiliate,
disastrata disarticolata,
non amata, per sempre non amata,
guardata con l’occhio obliquo
della passiva rassegnazione:
la prole è indesiderata
e poi adorata
con quella madre zavorrata.
Dentro quel letto troppo asciutto,
troppo ordinato,
dormo solo.
Contra naturam.
Contra naturam.
La donna inutile infeconda
controversa compromessa
di fronte a voi così compiute
sprofonda tutta nella melma.
Indietro nella vita vera,
vi sento gemere al mattino
della domenica e il marito
sognarvi lieto ad occhi chiusi,
voi sfingi vaghe colorate
di tutti i sogni dell’aurora,
dei seni enormi della madre,
del ventre freddo che si adora.
Dio mio che siete!
E io che nulla
sono e fin dove mi trascino!
Contra naturam
la mia brulla
figa ignorata
e io nessuno!
Ho perso, ho perso tutto infine
in questo gioco della vita,
la donna vera l’ho mancata,
meschina e vuota è la mia vita.
Sono un’icona da deridere,
al parco mentre sgranocchiate
biscotti piano e dondolate
carne figli soldi sperma
e compiaciute gongolate.
Lettera all’autrice
Ti vedo chiara sulle pagine,
il tuo sorriso è definito
e gli occhi sono luminosi
dell’indulgenza un po’ modesta
di chi ha capito della vita
tutto e si accetta e può insegnare.
C’è sempre un poco di ironia,
un timido strizzare l’occhio
alle altrui e proprie debolezze
in queste nuove e snelle guru
della moderna affermazione.
Ecco che salti svelta e lieta
sui tasti delle tue conquiste
che ora si accendono uno a uno
come i punteggi dentro un flipper.
Mhm, quattro figli tutti belli
ed un marito innamorato,
due lauree, un libro, che successo,
Dio mio ma quanti sacrifici.
Bastano un grammo di ottimismo,
tanti sorrisi e frasi fatte
ed ecco che, senza capire,
siam tutte quante soddisfatte.
La vedo ancora la tua faccia
che fa cucù mentre io svolto
tutte le pagine geniali.
Complice e gaia mi sorridi
e io ho una smorfia molto amara,
ti cavo gli occhi brutta troia,
cospargo gelatina e sangue
su questa tua felice storia.
Aborti terapeutici
Mi vedo ancora adolescente,
dietro la schiena sussurrata
la stessa frase tagliente.
E poi sdraiata sul letto,
la stanza bianca di sogno,
accarezzando l’idea
della mia morte indolore.
Chiedevo scusa a mia madre
perché non ero perfetta,
perché volevo morire.
Gli occhi fissi nel suo sorriso,
nel suo sorriso inconsapevole.
La stanza azzurra di sbieco,
le suore i giochi i bambini,
io sola muta e pensosa:
“Mi sento, quindi io vivo”
questo rovello interiore
e la preghiera di non sentire
e la speranza di non essere
ancora nata del tutto.
Non avrò mai un altro figlio,
non oserei la scommessa.
Un figlio morto o infelice
io lo potrei sopportare
ma non un figlio imperfetto.
Così dovrei trasformare
il mio ventre in una tomba.
Scusami, ma devo ucciderti,
ti vergogneresti mi vergognerei.
Ogni giorno accanto a me
il brivido del fallimento,
ogni giorno accanto a me
l’errore che mi accusa.
Un figlio che non è all’altezza,
che non si può esibire splendido
coi vestitini stirati,
di cui non si cantano le lodi,
i bei voti a scuola
e i trionfi sportivi.
Un figlio malriuscito,
inferiore inabile incapace,
un quasi essere umano.
No no, ucciderlo in grembo al più presto!
Dite, che cosa volete?
spiacenti, non ci riusciamo.
Noi non ci emozioniamo
davanti all’ultimo detersivo,
noi non ridiamo e danziamo
tra i biscotti ogni mattina.
Noi no non siamo felici
24 ore su 24.
Noi no non siamo scattanti,
non sorridiamo non strizziamo gli occhi,
un nuovo mascara
non è la nostra rivoluzione.
Noi non valiamo,
non valiamo un centesimo.
Il nostro corpo si sfalda,
i nostri gesti rallentano,
ciò che è dinamico ci fa orrore,
comunicare ci fa orrore,
noi non abbiamo un cellulare
piantato al posto del cuore.
Meglio strozzarci nell’utero,
meglio abortire l’errore.
Da Non a sua immagine, Giraldi 2007
Senso
Aspetta.
No, ancora, ti prego.
Dammi un senso, dammi un senso.
Oh, strizzami, schiacciami, slabbrami,
convalidami, autenticami, rilasciami.
Fammi esistere, fammi esistere.
Sì, timbrami, sturami, ricaricami,
sto per scadere, sto per muffire.
Sciacquami presto,
lubrificami, sto per arrugginire.
Tu il mio scovolo,
il mio sturalavandini,
il mio cavaturaccioli,
mia ventosa, mia siringa,
prelevami, trasfondimi,
rimettimi in circolo.
Sono viva ora, sono viva ora.
Se non mi tocchi io scompaio,
se non mi tocchi mi cancello.
Ecco, così,
mi hai annaffiata per bene,
il mio terriccio è bagnato,
le mie radici sono salve.
Annaffiami e annaffiami
finché il vento
mi strapperà ancora verde.
Giorno dopo giorno
non ho altro scopo
che fiorire
sotto le tue dita.
Il mio unico traguardo,
la mia temuta sconfitta.
Tenerti dentro il più possibile
come se, colmo d’ironia,
fossi proprio tu la costola
che un giorno Dio mi portò via.
Il coito cartesiano
è l’Essere rimasto immune
a venti secoli di lotta intestina:
ammetterete
che una donna non è nulla
senza un pene esclusivo
piantato dentro la vagina.
Per un figlio, solo uno
Per un figlio, solo uno,
non due o tre
o addirittura cinque,
una nidiata da sbalordire.
Non il ventre fecondo
delle nostre nonne,
non i fianchi orgogliosi
delle donne del sud.
Non le mani possenti
delle antiche matrone,
forti nell’impastare.
(A quando il fratellino
e la femmina la vuoi?
domande morte tra le cosce)
Per un figlio, solo uno
il piede pesante di un uomo
sopra la mia testa,
le sue avide radici
gonfie della mia linfa,
il terriccio-donna
inaridito dalla pianta
saprofita.
Per un figlio, solo uno
la mia rinuncia
la mia miseria
quello che potevo fare
quello che potevo avere
quello che potevo essere.
Di tutte le vite possibili
rimangono notti
ad addentare le lenzuola,
a ubriacarsi di orologio,
rimangono sere
di grembiuli e sporco sulle mani.
(La gente non fa più figli,
chissà perché)
Per un figlio, solo uno,
chino la testa
davanti al capo ignorante,
non alzo più la voce,
accetto l’ingiustizia.
Per un figlio, solo uno,
non so più tentare,
non so più rischiare,
per lui mi venderei,
ruberei, ucciderei,
tradirei, accetterei
ogni ricatto e compromesso.
Per un figlio, solo uno
la solitudine più nera,
il mio totale fallimento,
il senso di non-esistenza.
(Bassa natalità,
colpa dell’egoismo
o della precarietà?)
Per un figlio, solo uno
poche foto nei cassetti
pochi piatti sulla tavola
pochi letti nella casa.
Per un figlio, solo uno
una vagina ancora stretta
un utero quasi imballato
troppi ovuli al macero
niente premio produzione.
(Sotto la media:
un fenomeno preoccupante.)
Poco madre, poco donna,
genitali monouso.
Per un figlio, solo uno
capitato per errore,
amato subito, troppo amato.
Una donna
per modo di dire,
per un figlio, solo uno.