Liberazione del pianeta Terra, inediti di Alfredo De Palchi.

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in dieci libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montaldo, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker (2010); 12 poesie, Tallone Editore, Alpignano (TO) 2014; Nihil, Stampa 2009, Azzate (VA) 2016.
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
http://www.alfredodepalchi.com
LIBERAZIONE DEL PIANETA TERRA
21– 28 ottobre 2016
1
Questo mio lascito valida ai venti la Terra, invendibile proprietà di nessuno… ma per tutti una sorta di truffa legale… vendesi il Globo… è più chic per aver vissuto finora di assoluta libertà, non lo voglio… mi risulta che nessun possidente i possedimenti se li porta con sé… invece il caritatevole le dona alla fede religiosa quando, all’ultimo momento, non fa in tempo a impossessarsene… totale svalutazione dell’antropoide… niente è più valido del “lasciate ogni speranza”[1], il demanio non protegge nel forziere della banca… è nel mio cuore, essiccato fungo ai venti…
2
l’antropoide… fiato mozzo alla gola nera di viltà, ingordigia, invidia, gelosia, vendetta, vanità, si esibisce dio megalomane con assoluta mancanza di pudicizia… punge, è velenosa edera e ortica… freneticamente si succhia ripugnanza di bava e rigurgito…
3
circolando intorno a sé stesso e al contempo vastamente intorno al sole, il pianeta Terra quando occorre si scuote telluricamente per riempire e assestare immensi vuoti sotterranei… si bilancia frenando un attimo per strapparsi dalla superficie la grandiosa madre… dallo spazio planetario si scaglia centrandosi negli spazi senz’aria, flora e fauna… ma sul pianeta ne sopravvive un residuo fiorente…
4
il pianeta gravemente sinistrato dalla frenata si rimette impercettibilmente in sesto… devia fiumi, forma laghi rocciosi fra montagne, aumenta il livello dei mari e degli oceani, attrae irregolarità di forze astrali dal sistema solare più lucente di autocombustione…
5
dalla ripresa della grande madre sul pianeta, la rinascita della femmina splende unicamente libera… non più soggetta alla morale maschile dell’antropoide… lungimirante e decisamente dedita a creare un nuovo mondo senza obbligazioni maschiliste, sceglie di abortire feti maschi nel fondale delle paludi vive di alligatori e coccodrilli… geneticamente la femmina rifiuta di riprodurre il gene maschile…
6
generazioni dopo generazioni di feti maschi abortiti, a terminare le esequie a generazioni di antropoidi, la femmina si autoseleziona fino all’ultima scintilla… dal sottosuolo nessuna crescita sale come raccolto alla luce… la grande madre snatura, rinnega ed elimina la fauna carnivora…
7
increduli della verità, realtà vivente, credono nell’inesistenza… nessun orecchio percepisce il grido dall’eterno… strepito volgare della moltitudine che si scorge da secoli nello spazio a girare come proiettili intorno al pianeta e i rimanenti a terminare nel sottosuolo senza uscita… non una sillaba, una vocale che valga più del masticare degli erbivori….
8
non c’è eternità senza pazienza, e nessuna scorreria nello spazio occluso alla vista… non c’è nient’altro che visione di splendore, flora lussureggiante, fauna docile e luce…senza rimorso di madre natura nella profonda brace della terra si polverizza l’ossame cancerogeno della stirpe antropoide…
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[1] Dante Alighieri. La Divina Commedia, Inferno, Canto III

Non conosco De Palchi, ma questi inediti francamente non mi piacciono. Credo e spero che abbia scritto di meglio. Queste parole-pensieri, prosa-versi, sono scontati ed enfatici nel contempo. Informi, direi. Mi spiace ma devo essere sincero.
Nel suo libro tradotto in italiano come Benvenuti nell’Antropocene, Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995, riprendendo la parola coniata dal biologo Eugene Stoermer negli anni ‘80, argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce, in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone, sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’Antropocene coinciderebbe con la prima rivoluzione industriale fino ai nostri giorni, dove l’aumento rapido dei gas a effetto serra (GHG, greenhouse gas) è probabilmente l’elemento che definisce meglio l’inizio della nuova era.
La poesia legge i cambiamenti, anticipa, riproduce strati emotivi, come in questo caso. Un verso oscillante tra catastrofismo e vitalismo naturale, un enunciato cosmico, un argomentare bioecologico. Un punto di vista rispettabile, anche se concede poco o nulla alla resilienza dei sistemi ambientali, in primis, e, sistemicamente, di coorti resistenti di homo sapiens, non ancora mutate in oeconomicus. Resilienza, sì, purtroppo anch’essa nel novero delle parole ammalate di pessimo utilizzo. Non leggo un verso che resiste, che incorpora i disturbi e le fluttuazioni, ed è resiliente, così da non perde le sue caratteristiche di unicità genetica. Versi, quelli del poeta, che stanno sul precipizio del baratro, come sovente si legge delle sorti di questa nostra navicella persa nello spazio, ma che talvolta imprimono un colpo d’ala, seppur poco convinta di un decisivo quanto indispensabile viraggio dell’Umanità. La leggerezza di Calvino si colora di gravità, a me pare, anche se le suggestioni sono ad elevata densità, tali da non smarrire la complessità della vita.