Libretto di transito di Franca Mancinelli, Amos Ed., 2018, note di Annalisa Giulietti: “una frase per te”.
Dopo le prime due raccolte in versi, Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013), Franca Mancinelli ha scelto col suo Libretto di transito di «andarsene con i lunghi passi della prosa, e nessuno che possa lamentarsene». Così, Carlo Betocchi invocava la libertà creativa della vecchiaia, e i brevi passi in prosa di questa giovane voce, per Franco Buffoni «già riconoscibile e consolidata», esalano coralmente lo spirito di una moderna suite musicale. Con la messa a fuoco di semplici e insieme luminose azioni quotidiane, preparare la valigia, vestirsi, aspettare il treno, innaffiare il giardino, fumare o preparare un uovo, questi trentatré brevi componimenti, o poesie in prosa, vorrebbero fungere da umile foglio di via che col suo movimento costante, per sequenze narrative e successive stazioni, sappia riempire il vuoto con qualcosa di concreto («to fill a Gap /insert the Thing that caused it») ,i versi della Dickinson in epigrafe all’opera) e combattere lo sradicamento dell’età moderna riportando l’uomo alla verità dell’albero radicato in cielo (Simone Weil, la seconda epigrafe). Il vuoto, l’assenza poetica che, per Carlo Bo era attesa di una voce eterna, ha bisogno anche in Mancinelli di qualcosa di concreto che ne riempia l’abisso, di una falda da cui nasca umore vitale.
A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare. Il treno e la linea gialla della banchina, gli oggetti preparati o dimenticati, le scarpe da calzare, l’abito scorza in cui confezionarsi, sono solo alcune delle immagini a cui ci si aggrappa per cercare il senso degli attimi e proseguire. Come già in Mala kruna, la poetessa cerca di andare oltre i confini del foglio a partire dalla realtà: centrale è per lei una zona più limpida dello sguardo che punta come un mirino alla fenditura, alle faglie e intercapedini che, memori della lezione montaliana, lasciano filtrare un filo di luce. «È sempre qui che ci incontriamo», scrive in un’altra delle sue prose, «in questo campo di forze »incostante, mutevolissimo, in cui « accovacciati goffamente retti sui piedi» cerchiamo di vedere cosa filtra da noi. La modernità non può negarsi e la poetessa sa bene che «le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te». Durante il viaggio non c’è mai destinazione che si possa raggiungere completamente e tutte le cose che ci circondano, il bicchiere d’acqua rimasto sul tavolo, la brocca, il suono del padre che annaffia, il vento che muove le foglie e il grido delle rondini, trapassano. Dalla via degli occhi, però, la riflessione poetica illumina come un lampo brevi istanti di quello che sembra un magico rito di fertilità: «ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità de bosco». Attraverso i riferimenti primigeni all’acqua e alla terra, dalle quali ha origine tutta la nostra esistenza, Mancinelli cerca col lavorio preciso e costante della sua parola di radicare al cielo l’albero di cui parlava Simone Weil, quelle foglie che, parlandosi e parlandoci fraternamente, «dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te».
Da Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018)
Non è solo preparare una valigia. È confezionarsi, vestirsi bene. Entrare nella taglia esatta della pena. Gesti a una destinazione sola. Calzando scarpe che non hanno mai premuto la terra, dormiremo nel centro dello sguardo, come neonati.
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Le cose che hai scordato di portare con te. Lasciate negli scompartimenti dei treni, scivolate dai sedili degli autobus. A un tratto ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza, come attraversando una zona più limpida dello sguardo.
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La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
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Indosso e calzo ogni mattina forzando, come avessi sempre un altro numero, un’altra taglia. Cresco ancora nel buio, come una pianta che beve dal nero della terra. Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte. Puoi sentirle cadere a un tratto come per un inverno improvviso. Nello stesso istante perdi anche la coda e le ali che avevi. Da qualche parte del corpo lo senti. Non sanguini, è una privazione a cui ti hanno abituato. Non resta che cercare il tuo abito. Scivolare come un raggio, fino al calare della luce.
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Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone. Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che disfi la valigia, ti scordi di partire.
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Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più. Con gli occhi chiusi continui a lottare. La terra è una roccia, si sbriciola in ghiaia sottile. È una parete e una porta. Continua a dormire. Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te.
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