L’Infinito: mistica della felicità, editoriale di Alessandra Cerminara

L’Infinito: mistica della felicità, editoriale di Alessandra Cerminara.

     

     

Parlare dell’Infinito non è cosa facile: si corre il rischio di cadere nei clichè o di ripetere  mantra sentiti e risentiti; Leopardi infatti, è, a ragione e in assoluto, tra gli autori più studiati e approfonditi della letteratura.

Se proprio ci si vuole avventurare come kamikaze in quel pelago sconfinato che è l’universo leopardiano, conviene liberarsi dalle incrostazioni ideologiche e culturali che hanno relegato il poeta recanatese, senza alcuna possibilità di appello, all’ateismo e al pessimismo cronico (con buona pace di tanta e ragguardevole critica), per tentare un approccio più umano, meno accademico: l’unico che può restituirci il vero volto dell’uomo Leopardi, il vero volto di un’anima. La letteratura infatti, non sempre risponde a criteri scientifici, essendo sua materia di studio non una delle discipline matematiche (la cui trattazione conduce a risultati ovvi e perlopiù univoci), o lo sviluppo del pensiero razionale (soggetto a procedimenti logici), ma l’esperienza dell’animo umano, in tutte le sue innumerevoli e non classificabili sfaccettature.

Dunque, per dire (o tentare di dire) qualcosa di utile sull’Infinito, occorre rinunciare a schemi preconfezionati, per lasciarsi guidare soltanto dalla eloquente voce della poesia.

In un giorno come tanti, da sempre innamorato, anzi assetato, di spazi immensi e illimitati (a soli 15 anni aveva già scritto una lodevolissima e attendibilissima Storia dell’Astronomia, da lui definita, l’astronomia, “la più nobile di tutte le scienze”), il giovane Leopardi  raggiunge il colle vicino casa, alla ricerca di quella quotidiana dose di silenzio che il suo carattere solitario richiedeva. Siede all’ombra: lo sguardo teso sulla linea dell’orizzonte; forse a cercare il mare di Porto Recanati, che propaga i suoi colori e il suo profumo fino al borgo di sopra. Di fronte ha la siepe: la barriera, il limite che fa scattare la molla dell’immaginazione.
Sempre caro
Così debutta l’idillio più celebre di tutta la storia della letteratura: due semplici parole dell’uso colloquiale, ma qui utilizzate con una tale carica emotiva, da sciogliere anche le cime più fredde.
E si rimane sorpresi nel cogliere il vero significato dell’avverbio sempre, che, in qualche modo, contiene già racchiusa in sé l’idea dell’infinito. “Sempre” infatti vuol dire “da sempre”, ma anche “per sempre”; “senza fine” e talora, “senza inizio”. L’idillio insomma inizia come la fine, perché la contiene e la prepara. E caro poi, termine persino fanciullesco (ma in Leopardi mai scontato!) è un aggettivo riferibile ad un vecchio amico; a un fratello.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ e questa siepe…..
L’incipit leopardiano è dirompente, autentico; prende le mosse da situazioni e contesti della vita reale, senza mai scadere nel retorico o nel banale, lusso che solo i grandi possono permettersi.
Oltre il limite, fuori dal carcere entro cui l’uomo è costretto dalla fredda ragione, ci sono interminati spazi e una quiete profondissima che scuote il cuore del poeta. Davanti a questa immensità, lui, abituato alla negazione di Dio, prova un senso di smarrimento e di vertigine.
Il pensiero razionale parte. Si muove ad ogni stormir di foglia. Cresce sempre più. Ma come palloncini che volano nel cielo, provocando talvolta il pianto dei più piccoli, il pensiero razionale, imbevuto di materialismo e illuminismo, a un certo punto sfuma; e si perde.
Inizia la musica: e mi sovvien l’eterno…
Il poeta cita l’eterno, idea alquanto impegnativa: se il concetto di infinito, nella sua accezione più metafisica, desta non pochi problemi in una mente di formazione illuministica e materialistica, con l’eterno è ancora più dura; poiché, avendo come sua prerogativa la “atemporalità”, eterno è qualcosa che non ha inizio, né fine. La critica spiega l’esperienza cosmica leopardiana con l’immaginazione: attraverso la capacità immaginativa il poeta si prefigura questo luogo sovrumano in cui tempo e spazio rispondono a categorie diverse da quelle esistenziali. Tuttavia, sottoponendo il testo ad una lettura più profonda,  si comprende che eterno e infinito non sono  da ascrivere ad una dimensione puramente o esclusivamente  immaginifica, quanto piuttosto a quel tipo di conoscenza immediata che non si avvale del ragionamento e dei sensi, e che la filosofia definisce come “intuizione”. Infinito ed eterno sono intuizioni della mente, dove per “mente” deve intendersi non (o non solo) il pensiero razionale, ma la nous greca, che indica lo spirito razionale e il suo prodotto conoscitivo.
Il graduale crescere della tensione, che passa dalla semplice rappresentazione di qualcosa: io nel pensier mi fingo (v. 7),  all’avvertimento di qualcosa: ove per poco il cor non si spaura (vv. 7-8); il procedere dell’afflato poetico attraverso una progressione di intensità di suoni e di sentimenti: e mi sovvien l’eterno/ e le morte stagioni e la presente/e viva… (vv 11 e seg.); la minuziosità descrittiva e la meticolosità  lessicale (termini che implicano solo un richiamare alla mente e mi sovvien… e termini ed espressioni che invece indicano un vero e proprio rapimento dei sensi: s’annega il pensier mio… e il naufragar m’è dolce… vv 14-15), ci dicono che il poeta non immagina soltanto, ma vive. Vive e fa esperienza di uno spazio altro, di un altrove che sfugge alla umana comprensione.

Nel suo bellissimo libro “Leopardi”, Pietro Citati si sofferma sui termini s’annega e naufragar:
Annegare, naufragio, perdersi, insieme a immensità, mare, annullarsi, dissolversi, fondersi sono parole tipiche del linguaggio mistico cristiano e islamico”.
Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano 2010
Per quanto lo stesso Citati esprima dubbio sul fatto che si tratti di una mistica oppure no:
“ma quella di Leopardi non è una mistica, o è una mistica dove l’oggetto, invece di Dio, è la reverie, la vita interiore dell’individuo”
Ibidem
tuttavia, mette molto in risalto la scelta lessicale operata dal poeta, davvero inusuale per un materialista incallito:
“…non so se Leopardi comprendesse di avere impiegato le parole principali di questo linguaggio. Credo di sì, a causa dell’assoluta unicità di s’annega e naufragar”.
Ibidem
L’autore rileva molto acutamente che rispetto alla Reverie di Rousseau, nell’Infinito c’è “un’estrema precisione mentale” e che l’espressione e mi sovvien l’eterno (v. 11) significa non solo, come suggerisce Luigi Blasucci, “mi viene alla mente”, ma anche e soprattutto “mi ricordo”; come se il poeta ricordasse “ciò che non è possibile ricordare”.

La chiave che spalanca questa porta inaccessibile sull’infinito è l’abbandono; cioè la rinuncia a capire: “il naufragio del pensiero”. E insieme al pensiero naufraga anche il materialismo. Autorevole esempio di questo tipo di conoscenza, dove però l’oggetto non è un altrove aspaziale e atemporale, ma Dio stesso, è il canto XXXIII del Paradiso, in cui Dante, a guida di S. Bernardo (allegoria della ascesi), “naufragando” nel  mistero divino e trinitario, paragona se stesso al matematico che si arrovella, cercando col solo supporto dell’intelletto la quadratura del cerchio; ma, non riuscendoci, si affligge invano:
Qual è il geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio e non ritrova
pensando quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova
Attraverso l’ascesi che supera il percorso conoscitivo razionale, Dante rinuncia a comprendere e  si lascia avvolgere dalla luce divina; per cui l’io conoscente non è più soggetto autonomo (come avviene nella dimensione razionale), ma si lascia rapire, illuminare dalla conoscenza stessa, nella misura in cui ad essa si abbandona:
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgea il suo disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Sebbene non possiamo sapere quale sia stato il grado di consapevolezza del poeta e di quale altrove si trattasse di preciso, l’Infinito è il mirabile racconto poetico di un momento mistico, di cui solo alle menti libere ed eccelse è dato di fare esperienza. E non deve stupire che un illuminista, materialista ateo abbia tradotto in versi una siffatta avventura, così come non bisogna temere di usare in riferimento a Leopardi termini o espressioni del tipo “religiosità” e “senso del sacro”: c’è molta più religiosità (non religione) in Leopardi, che in molte bellissime pagine manzoniane! Il rovesciamento dialettico, infatti, è tipico della mente complicatissima e duttilissima del poeta recanatese, sempre pronta a tentare nuove strade, sempre disposta a decostruire ogni sistema per trovare una risposta in grado di garantire all’uomo una felicità. Il primo a evidenziare questa mobilità di pensiero fu Francesco De Sanctis, che nel mirabile saggio “Schopenhauer e Leopardi” scrive:
“Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; .…E’ scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e ti infiamma a nobili fatti.”
Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, Rivista Contemporanea, Torino, anno VI, vol XV, fasc,61
Mentre Schopenhauer, tecnico della filosofia, è serenamente rassegnato alla decostruzione dell’idea, oscillando tra il dolore e la noia, Leopardi, in quanto poeta, trasmette il contrario di ciò che afferma. E non ci sta, non si rassegna come i veri pessimisti, al dolore, al vuoto, alla morte. Ne La sera del dì di festa, scrive: E qui per terra/ mi getto e grido e fremo. Oh, giorni orrendi/ in così verde etate! E, nello Zibaldone: Le illusioni non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita.
La sua mente non è mai ingabbiata in forme rigide e stereotipate; come l’aria, ama gli spazi aperti, le altezze, le possibilità, le vie d’uscita. E’ continuamente pungolata da una volontà di ricerca che fa del dubbio il suo antidoto, la sua energia: chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapererecita lo Zibaldone. E tutta questa smisurata energia mira ad una sola cosa: l’ostinata ricerca della felicità; la possibilità di una vita felice. Anelito che, dapprima individuale, si gonfia, fino a raggiungere le inarrivabili altezze della Ginestra (definita da walter  Binni la poesia più grande degli ultimi due secoli), monito universale alla felicità, attraverso la reciproca compassione e la solidarietà tra esseri accomunati da un unico destino di guerra, di resistenza e di morte.

Venuto meno il limite della ragione, il poeta naufraga in un mare sconfinato (che tanto ricorda il dantesco mare de l’Essere, Paradiso, canto I) in cui il tempo si assottiglia fino a divenire inutile brandello, e nulla mai si perde di ciò che abbiamo amato; come in una mistica bergsoniana durée, in cui tutto è eterno presente. E di questo bagaglio di felicità i Canti costituiscono il tentativo di recupero attraverso la memoria, che si fa più vigorosa nella seconda stagione della poesia leopardiana, successiva alle Operette morali, di cui i Grandi Idilli, attraverso l’antidoto della “rimembranza”, costituiscono il superamento, il riscatto. Un riscatto che esplode negli occhi inconsapevoli di Silvia, simbolo di innocente bellezza, la cui commovente vitalità può essere compresa da uno spirito amante, più che da un erudito. I Canti non rappresentano soltanto un vagheggiamento idillico, ma la personale  risposta al dolore, alla perdita e, in quanto tali, possiedono una sistematicità, una struttura, una propria ossatura intellettuale e di pensiero dalla critica sempre  negata. Lo stesso De Sanctis afferma: “Leopardi è poeta; e gli uomini comunemente non prestano fede ad una dottrina esposta in versi; ché i poeti hanno voce di mentitori”. Tutta la poesia leopardiana è la testimonianza di un animo inquieto, passionale, violento, che la malattia ha abbattuto, ma non prostrato; ha spossato, ma non spento. Un animo che nonostante le avversità e il peso di una innegabile quanto inevitabile formazione illuministica, non ha mai perduto il sacro vizio di vivere; cosa che né malattia, né ideologia, né filosofico sistema poteva scalfire, perché parte non della mutevole personalità dell’uomo/ poeta, ma della sua indole (nocciolo duro e immutabile) irrimediabilmente amante e combattiva. Materialista e pessimista sì, dunque, ma di formazione, non di indole.

Per gustare gli altissimi versi dell’Infinito e saggiarne spessore, altezza e profondità, occorre quindi una rilettura in chiave sinottica di tutta l’opera leopardiana (Epistolario compreso); rilettura che, valorizzando un approccio comparato degli scritti in prosa e in versi, superi l’ormai cristallizzato dualismo cuore-poesia/ragione-filosofia.
Leopardi è il poeta della felicità, di cui Infinito e La ginestra (liriche correlate che aprono e chiudono rispettivamente la grande esperienza letteraria e umana di Leopardi), rappresentano la vetta più alta, il coronamento: l’Infinito nella sua dimensione mistico-religiosa e individuale; la Ginestra in quella più concreta, storico-sociale e universale.

         

Shibata Zeshin, "Acero autunnale", XIX sec. - in apertura "Sole e rami di prugno", MET Museum New York
Shibata Zeshin, “Acero autunnale”, XIX sec. – in apertura “Sole e rami di prugno”, MET Museum New York

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