L’ironia è una cosa seria, rubrica di N. Bondarenko

L’ironia è una cosa seria, rubrica di Natalia Bondarenko.

   

   

L’ironia è una facoltà a numero chiuso. E più o meno a numero chiuso è anche la mia rubrica che, come tutte le cose, forse un giorno ‘morirà’. Prima però, e visto che questo numero è tutto al femminile, ho deciso di ‘intrufolarmi’ usando una dose eccessiva di disinvoltura (e con la timidezza per un momento messa da parte).
Non è semplice scrivere di se stessi e per di più spiegare perché la tua poesia fa ridere o almeno sorridere. «Dietro una grande ironia, ci sono anni di solitudine». Chi lo ha detto – non si sa. La frase è apparsa su Twitter qualche giorno fa e poi è sparita nel nulla. E qui mi sarebbe piaciuto discutere sulla parola “grande ironia”, o solo su “grande”, o solo su “ironia”, o approfondire la questione della “solitudine”, ma ho paura di diventare ‘pallosa’ come una nata sotto il segno del Capricorno e alla fine perdere il filo della questione scadendo nella retorica inutile.
Anche se poi, tutto inizia da lì, da quello stato singolare che finché sei giovane – la questione della solitudine ti sfiora appena. Invece, con l’età, inizi a fare i conti con l’inevitabile: qualcosa è successo, è stato già ‘digerito’, sospirato e archiviato… così, anche nel giorno dei funerali di tua madre sei cosciente che l’hai persa già da tempo, molto prima, magari quel giorno in cui sei partita per un altro paese per sempre. Così, tornando a ‘casa’ (in Italia), intanto che l’aereo sorvola tutti i paesi ‘sbriciolati’ come il pan secco per colpa o grazie al famigerato Berliner Mauer (il Muro di Berlino), sfoglio la rivista “CHI” lasciata da qualcuno nella tasca del sedile davanti al mio: sulla copertina una famosa showgirl con le labbra gonfie come i palloncini delle sculture di Jeff Koons e con una certa dose di sicurezza addosso. È in quel momento che nasce questa poesia-rendiconto:

Una volta ero tutto,
ogni cosa del cortile,
la ruggine dei pali per sbattere i tappeti,
il gradino spaccato di cemento,
l’odore acre della mangiatoia per i gatti,
l’arroganza dell’acacia cresciuta a dismisura,
ero l’aiola calpestata,
il segnalibro trovato per terra, ero
l’erba bruciata, la mela troppo matura,
la percussione dei vetri rotti,
la delusione delle porte chiuse,
la parte mancante di un inverno puro…
Ora sono anche
un’oca migrante.

Non è la prima volta che uso qualcosa degli altri. Il mondo è pieno di belle parole buttate al vento o di frasi sottovalutate. Ed io, che non soffro per niente di cleptomania, mi diverto ad usare a mio favore quello che vedo. Una semplice insegna vista su Facebook, come la cartolina di ‘benvenuti a Napoli’ (città mai visitata) fa scattare una serie di emozioni… poi, se quell’anno (2014) è il più bagnato degli ultimi 50 anni, la situazione insopportabile si trasforma in una specie di gioco e di provocazione:

Quando finirà la pioggia
ti farò vedere il sole dai miei occhiali rotti,
ti farò ridere con quella insegna
vista a Napoli, nei quartieri spagnoli,
nella vetrina di una rosticceria
Tacchini e polli, a richiesta si aprono le cosce!
ti farò un caffè dal gusto bruciato,
consueto, angosciato,
acquoso come il tempo,
anche se devo dire che la pioggia ultimamente
mi mette sempre di buon umore, e,
a prescindere dall’umido dei tuoi piedi
e dei miei occhi, ti dirò,
fosse per me, mi piacerebbe che piovesse
un giorno sì
e un giorno
anche.

E come non parlare dell’intimità… Un giorno, durante una serata poetica, una poetessa quasi settantenne mi disse in tutta confidenza che lei ancora non ha coraggio di scrivere alcune cose. Io le risposi che non c’entra il coraggio, si deve scrivere la verità… come se fosse semplice scrivere la verità. E poi, detto da una bugiarda come me, che della poesia ha fatto sempre un minestrone di vite altrui, un consiglio così, suona quasi come una bestemmia. Penso però che in fondo, poi, scrivere in prima persona confonde le acque e risulta molto convincente:

Ti vorrei così,
confuso e insicuro,
come un bambino
attaccato alla gonna della madre,
consumato
come la pallina del cane
sempre per terra,
sempre nel posto dove non l’aspetti,
come un pallone dopo la partita,
la tua,
mascula e prepotente, magari
senza vinti né vincitori.
Ti vorrei,
      [insomma] per inciampare…

o, un’altra poesia, un po’ sfottente, un po’ femminista, e (questa volta) molto personale… (sì, a volte mi ci casco anch’io):

Stamani
cambiando le lenzuola
sul cuscino ho trovato un tuo capello bianco.
Sapeva di pino silvestre. Sapeva
degli ultimi pomeriggi del nostro passato stanco.
Pensando a me – inghiottivo la sconfitta
di essere credulona
      [c’est la vie… visti i tempi che corrono],
ma gioivo pensando
che da oggi
alla tua precoce calvizie mancherò anch’io.

Credo che colui che sa ridere di sé, sa anche come portare le persone con cui sta parlando a ridere di se stessi, riesce ad essere contagioso diventando in qualche modo un antidepressivo. Ecco, proprio così, vorrei essere una pillola, una tisana, una seduta psicoterapeutica, un lorazepam ma senza gli effetti collaterali. Vorrei che la gente capisse che anch’io ho gli stessi problemi, che sono ‘umanamente donna’. Magari un po’ sfigata e, si sa, quelle sfigate, non so perché, ma ci piacciono così tanto.

E che c’è di bello dopo i cinquanta?
Qualcuno ha detto che la nostra età
viene definita dai nostri gesti.
Infatti,
mi hai lasciato in un giorno poco feriale,
senza nessun motivo.
Non era la prima volta. Posso dirlo,
ero abituata.
Nel frattempo,
valanghe di malinconia
hanno afferrato il mio corpo,
è caduta la neve
sulla testa in un giorno d’estate
e la ragazza,
la figlia dei vicini,
mi ha chiesto affascinata:
«Ma che bel colore di capelli!
Chi è il suo parrucchiere?»
Scusami, senza pensare troppo,
ho dato il tuo indirizzo.

Ora, in conclusione, vorrei precisare che per me l’ironia più che uno stato mentale è un modo di essere. È quasi un non saper fare a meno di buttare un po’ di colore sul grigio. Quante volte ci meravigliamo delle stupidità che sentiamo o ci arrabbiamo per un’informazione inutile che ci danno, ma io sto lì, in attesa, che qualcosa di banale mi riuscirà a trapanare gli orecchi e così alla prima occasione ne approfitto e me ne approprio.

A questo punto non so se sono tanto a posto
perché
quando la statistica del TG dice
che sono la sola deficiente
a non essere uscita questo sabato sera
e nemmeno quello precedente, e
      [a dire il vero] nemmeno quello prima ancora,
non mi sono presa una sbronza,
non ho postato nessuna foto di locali,
luci colorate e cannucce nei bicchieri,
nessuna foto di sorrisi a 32 denti,
dicono,
      [prestigiatissime fonti,
      Twitter e Facebook] è uscito anche il mondo,
è andato a farsi un drink, due drink, dieci drink
da qualche parte
e allora, se anche il mondo è uscito,
non è che per caso sono uscita anch’io
e non riesco a capire bene dove mi trovo?

                                        

Mary Hayllar, Tennis in bassa stagione, 1881 - in apertura Tennis party
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2 thoughts on “L’ironia è una cosa seria, rubrica di N. Bondarenko”

  1. «Dietro una grande ironia, ci sono anni di solitudine»: un articolo che ho molto apprezzato, un’ironia garbata ma forte, incisiva. Poesie che sanno colorare il grigio con i colori dell’arcobaleno, preferibilmente sui toni sfumati del “rosso”. Malinconie che si perdono guidate dall’intelligenza. Davvero: l’ironia può salvarci in questi tempi calamitosi. Grazie

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