L’ISOLA DI GARY.
Una proposta di MARIA PIA LATORRE
La Natura ci dona tutto di sé. Tutto. Non è arrivato il momento di restituirle ciò che le abbiamo sottratto? Non è arrivato il momento che la poesia se ne occupi con coscienza? All’appello hanno risposto poeti di straordinaria sensibilità. Coscienziosamente, da questa comune urgenza, è nata l’antologia L’isola di Gary (a cura di Maria Pia Latorre, Independently published, Opera Indomita, 2021) Nella raccolta, con prefazione dello studioso Sandro Marano, trentatré accorte voci si sono riunite per cantare la natura, una natura che appare oggi visibilmente in sofferenza.
Come un fiume che via via s’ingrossa e s’arricchisce d’acqua, sono confluiti i versi di Cataldo Accetta, Mariateresa Bari, Annarita Campagnolo, Marta Maria Camporeale, Simona Chiesi, Letizia Cobaltini, Rosa Colella, Rosa Costantino, Maria Curatolo, Vito Davoli, Orietta De Giorgi, Nicola De Matteo, Mauro De Pasquale, Ezia Di Monte, Piero Fabris, Dina Ferorelli, Zaccaria Gallo, Anna Gramegna, Luigi Lafranceschina, Cosimo Lamanna, Maria Pia Latorre, Elvira Leone, Monica Messa, Vittorio Nicolardi, Gianni Antonio Palumbo, Maura Picinich, Daniela Pinassi, Paolo Polvani, Cosimo Rodia, Pasqua Sannelli, Elisabetta Stragapede, Raffaello Volpe, Giuseppe Zilli.
Gary è Gary Snyder, poeta ecologista americano, vincitore del premio Pulitzer per la poesia nel 1975, autore della raccolta “L’isola della tartaruga”, una delle opere che negli Stati Uniti più ha fatto scalpore per il forte tono di denuncia dei disastri ambientali perpetrati dall’umanità negli ultimi millenni, frutto di un agire dissennato e spregiudicato, irrispettoso e vorace nei confronti della Terra, vissuta a lungo come semplice territorio di razzia e di contesa.
Il poeta americano, nelle sue accorate poesie, prende atto del disastro ambientale, ma non si arrende di fronte alla rovina, invitandoci a “ripartire dal primario, dalla grana delle cose”, convinto che siamo ancora in tempo. Riporto qui, dall’esergo del volume, un’accorata poesia-appello di Gary Snyder, tratta proprio da L’isola della tartaruga. Nitido il pensiero dell’autore ma, ad un tempo, incisivi e struggenti i versi che accarezzano quanto di più prezioso e delicato l’umanità abbia: i bambini, il nostro unico possibile futuro. Il poeta, nei versi iniziali, compie un’operazione inconsueta, e cioè ribalta quella che è la percezione della situazione ambientale attuale, parlandoci di pascoli e vallate, di immagini bucoliche e rasserenanti, ma aggiunge subito dopo, “se ce la facciamo”. Gli ultimi versi di questo testo, che potremmo considerare a buona ragione una sorta di manifesto ecologista, si apre ad un messaggio universale di forte partecipazione e commozione.
Per i bambini
Nel prossimo secolo
o in quello dopo ancora,
dicono,
ci saranno vallate, pascoli,
dove potremo incontrarci, in pace,
se ce la facciamo.
Per scalare queste future creste
due parole a voi, a
voi e ai vostri bambini:
restate uniti
studiate i fiori
viaggiate leggeri
Invito il Lettore ad accostarsi all’antologia con uno sguardo di solidale amore verso il futuro del Pianeta.
Sono davanti ai nostri occhi gli effetti di tanto sfacelo e tutti ne stiamo cominciando a pagare le pesanti conseguenze.
Oggigiorno dobbiamo fare i conti con danni ambientali di vastissima portata, e non è più sufficiente pensare a piccoli ‘aggiustamenti’ e correzioni da porre in essere, no, qui ci troviamo di fronte ad una catastrofe preannunciata da tempo e che necessita di un immediato cambiamento di rotta.
Continui i colpi inferti quotidianamente all’ambiente, senza il benché minimo tentativo di dare una frenata al procedere suicida dell’umanità che, come un treno a folle velocità, sta andando a schiantarsi verso la catastrofe.
Dalle piogge acide all’inquinamento terracqueo e dell’aria, agli incendi dolosi, alla deforestazione, allo smaltimento dei rifiuti, ai cambiamenti climatici, alle migrazioni, allo scioglimento dei ghiacciai, alla riduzione della biodiversità, il pianeta appare oggi un luogo malato.
La sostenibilità ambientale è ormai urgenza globale per la sopravvivenza, ma assistiamo al continuo disinteresse della politica. Si tende ad affrontare i guasti ambientali in modo superficiale quanto inefficace, come se si trattasse di realtà scomode da rimuovere dall’inconscio collettivo, per dirla con Jung.
Siamo ormai, da secoli, abituati a legare il concetto di sviluppo con quello di crescita economica; ma è ben evidente che non potrà esserci una crescita economica all’infinito; è da folli pensare che il sistema economico mondiale possa reggere ancora a lungo e occorre mettere in atto strategie economico-ambientali innovative.
Il concetto di “sviluppo sociale”, disgiunto da quello di “sviluppo economico”, andrebbe modificato in un approccio che impatti il meno possibile sull’ambiente. Da qui il proliferare di nuove filosofie di vita suggerite da pensatori e filosofi contemporanei; tra queste, una che sta riscuotendo notevole successo è la cosiddetta “ecologia profonda”, che nasce con il filosofo norvegese Arne Naess.
Gary Snyder è il teorizzatore della ‘Wildnerness’, cioè della teoria del ‘Grande Flusso’. La natura, da sempre, ha il potere di regolare e unire la vita di tutti gli esseri viventi e non viventi. Tornare ad essere in armonia nel ‘Grande Flusso’ significa, dunque, riappropriarsi di se stessi, in uno stato di felicità autentica, in cui non esiste una dissociazione tra uomo e natura, bensì in cui essi sono in perfetta armonia e in reciproca interazione. La natura respira nella sua naturalità, ma è nell’adattamento umano che si dispiega la sua intelligenza ed è a noi esseri umani, oggi, che è richiesta quest’intelligenza.
C’è una parola che, di tanto in tanto, fa capolino nelle nostre vite: è la parola serietà; ebbene nei versi della raccolta si respira forte il senso di serietà, l’impegno, la difesa, la cura; ne L’isola di Gary trentatré voci battono ritmi d’ amore per il futuro del Pianeta, come s’intende dalle parole del prefattore Sandro Marano, egli stesso raffinato poeta. Qui riporto un suo intenso e delicato testo, edizione aggiornata di una poesia contenuta nella raccolta “La via del ritorno”. Nei versi, per la maggior parte ipermetri, con alcuni decasillabi e dodecasilabi, veniamo proiettati in una scena filmica, cadenzata dai passi del poeta che procede lungo un sentiero di campagna, dove cresce la ginestra. La poesia si sviluppa come un flashback che, dal procedere spaziale in avanti, compie un percorso temporale indietro nel tempo, un doppio binario spazio-temporale che ha il potere di avvolgere il lettore e portarlo subitaneamente nella realtà esperienziale ed immaginifica del poeta. Da qui l’incanto che fa silenzio intorno e crea muta partecipazione, muovendoci fisicamente verso i versi finali: “gli ulivi, non fanno domande e mi prendono dolcemente per mano”.
Per il sentiero dove cresce la ginestra
Per il sentiero dove cresce la ginestra
e l’ultimo bagliore salutano le cicale
cammino sfogliando il quaderno del tempo
e mi riconosco in quel ragazzo
invaghito della magia della risacca
e della passante incrociata per strada
dal sorriso misterioso e seducente.
L’abbazia è silenzio profondo,
la sua parola risuona in fondo al cuore.
Indugia sopra gli ulivi una falce di luna
e sono giganti buoni, tenui ombre lucenti,
gli ulivi, non fanno domande
e mi prendono dolcemente per mano.
Brillano di luce propria i versi di Paolo Polvani, poeta di lungo corso, che ha attraversato mezzo secolo di storia poetica italiana. Il piacere di proporre qui le sue liriche è pari al dovere morale, di ospitalità, ma soprattutto di gratitudine verso la generosità con cui egli ha risposto alla chiamata.
Delle tre poesie contenute nella raccolta, “Dove sono i nugoli di mosche?”, “Sull’ Ofanto” e “Il pino della ferrovia”, si riporta qui la prima. Il trittico poetico proposto da Paolo Polvani manifesta matura consapevolezza ecologica rivendicando per l’uomo il ruolo di custode e non di dominatore dell’universo. I versi, sempre carichi di sottile ironia, mostrano uno sguardo del poeta decentrato, dalla prospettiva dei nugoli di mosche; e solitario, come il pino della ferrovia. Essi procedono in un assordante silenzio che è grido imploso, “un discorso sulla solitudine” che “incanta la dimestichezza dei passeri”. Le immagini poetiche costruite sono potenti, come il “brulichio di stelle dentro un silenzio freddo, acuminato” che “teme le spine della crudeltà di luglio”. Le descrizioni struggenti, immersive, vivono dello stesso ritmo della natura, tanto che il poeta esorta “sintonizziamo il respiro col respiro dei salici” e, con grande ottimistico slancio e consapevolezza, auspica “saremo i custodi del paesaggio”.
Dove sono i nugoli di mosche?
Dove sono i nugoli di mosche,
gli assalti di zanzare, quei perniciosi ronzii
che insanguinavano le notti, e le cicale?
quelle magniloquenti sinfonie che i rami storti
degli ulivi irradiavano come un gesto di fede,
una presa d’atto dell’esuberanza della vita,
una pronuncia notarile irrorata dalle chiome
spumose di pinete, un fertile ululato
delle voglie di luglio, le mosche che volavano
con evidente libidine intorno a un impervio trofeo
di cacca, e il ricamo lieto delle vespe, le api
nelle operose divise, i calabroni
agghindati come bombardieri,
le infinite vite, dov’è finito l’impero degli insetti?
quanto più ci parla, quanto più ci avvicina
alla nostra fine?