LIVE FOR THE MOMENT NOT THE MEMORY, DI SERGIO RACANATI

Live for the moment not the memory,
di SERGIO RACANATI

 

   

Sergio Racanati, sottopassaggio”, 2019, courtesy l’artista & CAPTA

La sensazione di pienezza mi giunge dallo stare fermo sulla mia posizione. Sì, in shavasana. Asana- in Sanscrito posizione/ postura- meravigliosa per rilassarsi, riavvicinarsi a se stessi,  connettersi e radicarsi al suolo.
Mi sento dove devo essere, in risonanza con i cuori dei pochi. Mi sento forte perché non dominante.
Mentre dall’altra il muro si sgretola ed i sostenitori della follia sono sempre più silenti. Smarriti. Aggressivi. Mostruosi. Il rumore di unghie sui vetri si fa assordante e satura questo villaggio globale.
Di questi tempi ho ripreso – in realtà mai abbandonato- le letture e il grande pensiero di Baudrillard:
Il cittadino di oggi non è sicuro che il mondo umano sia possibile”.
Siamo condannati a ingoiare  la pillola dell’oblio che Morpheus ci offre per farci accomodare nella vischiosa matrice. E poi si crepa. Sì, ci lasciamo risucchiare dal suolo.
Suolo dal Latino, la cui radice  è Proto-Indoeuropea, significa “asciugare”.
Per grandi salti un asciugare anche inteso come disidratare, desertificare, togliere sostanza, essiccare, privare.

Allora illudiamoci altrimenti. E tiriamo su architetture filosofiche, inganni e artifici, ingegnosi meccanismi di piacere. Insomma trascorriamo il tempo immaginando qualcosa di diverso. Qualcosa che prescinda o rimandi quell’odioso impaccio della morte. Non la morte come fine della vita ma come disastro. Come devastazione. Desertificazione. Insomma uno stato più precisamente agonizzante del vivente che trascina con sé -quasi con forze centrifughe e centripete- anche i non viventi.  Che poi chi ha stabilito queste maledette categorie? L’uomo.
La nauseante e fastidiosa classificazione dell’esistente ha depotenziato fino allo sfinimento l’esistenza stessa.
Ci guardiamo allo specchio e non siamo che brandelli, carcasse, cumuli di ossa, polveri ammassate di organi frullati, shake di proteine, fiale di amminoacidi, barattoli di vitamine. Macchine che non servono più.
Vedo un epitaffio – su quella lastra di vetro specchiato- a caratteri cubitali ogni volta che cerco di lavarmi il volto- siamo dentro un darwinismo dell’estinguersi.
Così come fece Burroughs e come disse Fam -Francesca Alfano Miglietti- “la fase colonialista del corpo è iniziata” e non è che propedeutica alla rieconomizzazione delle parti.

Il sistema delle relazioni si è esaurito. Ha raggiunto il punto massimo del tracollo. Le relazioni sono state riconosciute, liberate ed hanno avuto il loro momento di gloria e di rappresentazione. E con grande forza direi anche di post-rappresentazione. Siamo dentro l’inesorabile auto-rappresentazione che trova il misero tempo/spazio di un click, di un like.

Questa non è neanche l’epoca del contatto: siamo cresciuti nell’etica  del preservativo, nel dubbio della virulenza, nell’ansia smisurata del contagio e la dittatura della contaminazione. Il corpo è riposto nell’armadio, è smesso. Forse già sepolto nel più triste parallelepido in legno senza neppure le cromature oro.

Sergio Racanati, immagine di ricerca, 2021, courtesy l’artista & CAPTA

ARMONIE DEL DISAGIO

utente 1: “cerco x

utente 2: “cerco x e y

utente 3: “cerco z

utente 4: “cerco yx con un po’ di z

utente 5: “cerco x · (y⅓ + z⅝) = x · y⅜ + x · z²”

A volte è più divertente risolvere un integrale triplo che cercare di decifrare la valanga dei messaggi. Una acrobazia di parole in un flusso più simile al vomito post-sbornia dai colori verde acido giallo paglierino che a un flusso di parole incise per un epitaffio dei giorni nostri.

Parliamoci chiaro: se siete qui se siamo qui – nel senso se siete dentro una di queste deliranti e psicopatiche costellazioni di Grinder, PlanetRomeo, SCRUFF o GROWLr o la nuova sofisticata Hole con deliziosi abbonamenti a pagamento – è per un semplice motivo – sì definiamolo così perché la psicoanalisi delle relazioni poi avviene in una seconda fase – e sicuramente non è parlare della pulsazione che ha spinto Emma Bovary, alla fine del romanzo di Flaubert, a togliersi la vita, né tantomeno analizzare il Dialogo Sopra I Due Massimi Sistemi di Galileo.

Ma a dir la verità io sono in queste acrobatiche e deliranti chat per parlare proprio di questo e sondare se l’umanità che popola e brulica dentro questa specie di palestra dell’incontro/scontro è tutta divenuta miope o se nell’aprire ad intermittenza i fanali del volto anche i neuroni riescono a creare pensieri divergenti rispetto a uno scambio di tre foto – quasi del tutto uguali e anonime – per il supremo fine di un incontro da consumarsi in una o al massimo due eiaculazioni al massimo in una casa con della musicaccia senza arte né parte. Ma d’altro canto tutti mi dicono che qui in chat si viene per quello. Mi si accapponano le carni e proseguo come un kamikaze dentro le chat a cercare con il lanternino un’anima diversa caduta involontariamente nella trappola della rete nella speranza di trovare un seme scampato all’incendio della banca del seme stesso.

Siamo umani: c’è chi cerca sesso, sesso, sesso, e ancora sesso e chi una relazione perché “sesso” fa tanto mainstream.

Dentro queste pseudo-miracolose armoniche congiunture di incontri, le informazioni vengono tutte esplicitate nella presentazione iniziale che antecede la mitica fotografia.
Bene,la veridicità delle sottospecie di carta di identità possono essere di discutibile attendibilità.
Qui la verità è veramente un valore abbandonato mentre viene scaricata l’app sul proprio device. Altezza, peso, colore occhi, colore capelli, città, una
foto!
Ecco l’ID potenziale lanciato nella rete tentacolare delle tentazioni. Sì, una ormonale tentazione fatta di cumuli di pixel e una frase di introduzione che possa ammaliare e incuriosire il cacciatore di turno.

Ecco sì, proprio così!

Una sorta di foresta nera in cui Diana scappa, scappa, scappa tra le fila delle fotografie dal suo cacciatore.
Alla compilazione dell’ID manca solo l’IBAN. Be’ qualche infiltrato – chiamiamolo così per simpatia al mondo reale – si dichiara eurochiavatore chiedendo senza troppe censure di essere pagato per le sue divine prestazioni.
Se si finisce in una di queste app è forse perché, da un lato, siamo ormai dentro una prestigiosa eredità di solitudini e dall’altro, siamo parte della forza motrice che divora rapporti fulminei senza interrogarsi più sul valore umano e sulla sua singolarità.
Ma poi di umano oggi cosa resta? Forse provo a cercarne ancora il significato sul vecchio vocabolario tra le pagine tarlate mentre alla voce umano di Wikipedia mi dice error page!

macte nova virtute, puer, sic itur ad astra.

Vai, appena clicco su invia il profilo si attiva.

Eccomi, sono dentro.

Non si prova neppure più il brivido dell’ignoto, il brivido della potenza, dell’avventura, della ricerca.

Tutti hanno più di una app attiva.

 A volte simultaneamente. Un videogame di umani. Di click dopo click. Una specie di mitragliatrice che spara icone. Cazzi, pettorali, quadricipiti. Se ti va bene esce un volto. Sperando sia quello vero. I più veritieri sono i fake! Adorabili giocatori. Amabilissimi atleti della fittizia carnalità. Assatanati di spermificazioni. Più digitali a volte che reali. L’occhio digitale – sorella webcam per essere precisi nella dimensione familiare della tecnologia a portato di mano – si attiva aprendo il sipario del quadricipite gonfio – come canotti portati a mare per far divertire i bambini piccoli – per la meccanica coreografia sterile ma goduriosa tra lo schermo, il corpo, lo schermo e il corpo. Una necrofilia delle passioni.

Lancio un messaggio, al di là del mio schermo, che ho trovato sul web anche a tutti quei presuntuosi e vigliacchi che mi scrivono dicendomi che mi conoscono ma restano nell’anonimato:
“Conosci il mio nome ma non la mia storia. Hai sentito cosa ho fatto, ma non cosa ho passato. Sai dove sto, ma non da dove vengo. Mi vedi ridere, ma non sai come ho sofferto. Smettila di giudicarmi. Sapere come mi chiamo non vuol dire conoscermi.”

DISAGI CHE NON CAPITE

muoio bannato
la prima volta che vedo mio figlio scrivere sulle nuvole

il neolitico
i romani
i normanni
i saraceni
le frazioni
le potenze
i verbi della prima
della seconda
della terza coniugazione
– a memoria –
un perfetto archivio di forme utili
per una inutile esistenza

ho visto mio figlio
trasformarsi in un’appendice della Play
– così tra di loro la chiamano –
ho assistito nel silenzio
quasi tombale
della sua cameretta
a una contrazione dopo l’altra
a velocizzare like su insta
una maratona di dita scheletriche
atrofizzate
deformate

mio figlio
fabbricatore di armi virtuali
di sogni infranti
di robot con intelligenze artificiali
sguinzagliati
alla conquista di un post-mondo
online

una lapide di cristalli liquidi

il suo corpo
gracile
sfibrato
svilito
senza muscolo
senza sorriso
senza pelle
denudato di tutte le gioie adolescenziali
abitato da alieni
che ballano
sparano
sputano fuoco
e volano tra la notte di Natale e Santo Stefano

entra ed esce
una infinità di chat di gruppo
la sua solitudine si moltiplica
invia la prima foto
click
e parte il palleggio di una caterva di emoticon
mitragliata di notifiche
ingolfo di pixel
sofferenza letale

un eterno presente
di fantasmi sospesi
tra il divano e il ghiaccio ventre materno
dritto
fino al prossimo semaforo senza sosta
in attesa dello scooter in palio alla promozione

vorrei rivedere mio figlio
quel bambino di ieri
– oggi un delicato automa
videosorvegliato h24 –
giocare con l’acqua
mai vista

   


Sergio Racanati, Bisceglie (BT) 23-09-1982. La ricerca artistica di Sergio Racanati si sviluppa all’interno della moltitudine di relazioni, idee ed esperienze volte a generare connessioni con il materiale fragile dell’umanità, affrontando la questione degli spazi del sensibile, dei processi comuni e comunitari. In questo quadro la sua pratica guarda alla sfera pubblica e agli immaginari collettivi come luoghi di indagine privilegiati. Alla base di questa ricerca vi è un interesse per le scienze sociali, per gli eventi storici, per la cultura popolare e la cultura di massa, visti attraverso una lente quasi etnografica. L’artista opera nel campo della valorizzazione del patrimonio storico-artistico, nella consapevolezza che tale campo costituisca un insieme organico di opere ed un campionario di esempi volti a rappresentare un modello di archivio. Il risultato dei suoi progetti è la creazione di spazi multidisciplinari, piattaforme di pensiero, modelli di pratiche antagoniste e spazi per nuove comunità. L’approccio di Racanati è basato su un’idea/modello sperimentale di creazione di situazioni ibride attraverso una complessa matrice di appropriazione, scoperta di siti e creazione di ambienti/set transitori, flessibili e in continua evoluzione, in cui la ricerca diventa spesso condivisa e l’opera d’arte mette in crisi la stessa autorialità a favore di un processo corale e collettivo.

 

    

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