Lo spettro della Bellezza di Daniele Barbieri

Lo spettro della Bellezza di Daniele Barbieri.

   

  

Uno spettro si aggira per il mondo della poesia; è lo spettro della Bellezza. Si tratta di una parola e di un concetto davvero irritanti, salvo, forse, quando usati un po’ idiomaticamente con l’articolo indeterminativo davanti, come quando di un bambino si dice “è una bellezza”. Che cos’è invece davvero la Bellezza?

Si tratta ovviamente di un sostantivo che vorrebbe esprimere l’essenza di ciò che può essere qualificato attraverso l’aggettivo bello, il quale, per parte sua, poverino, si trova perfettamente a suo agio tanto nell’espressione “un bel volto”, come in quella “un bel contratto” – ed è difficile sostenere che ciò che ci permette di definire bello un volto è qualcosa di simile a ciò che ci permette di definire bello un contratto. Per non dire dell’uso di bello in espressioni come “un bel disastro”, o “un bel problema”: davvero, dove starà nascosta la Bellezza qui? Sino all’ambiguità costitutiva di “una bella domanda”, che può essere sia una domanda terribile, che una domanda particolarmente utile e interessante.

Va bene. Chiudiamo gli occhi e facciamo finta di niente. La Bellezza è relativa solo a uno degli usi specifici di “è bello”, quello che ha a che fare con la poesia (e con le arti e con un sacco di altre cose, ovviamente – ma credo che ci siamo capiti): insomma, la Bellezza ha a che fare con il giudizio estetico. Tuttavia, anche qui, i problemi non sono piccoli.

Prendiamo il giudizio di gusto meno problematico di tutti: il “mi piace”. “Mi piace” esprime chiaramente un giudizio soggettivo, che non pretende di estendersi oltre la soggettività di giudizio che esso esprime. Certo, se lo dico o lo scrivo, il semplice fatto di stare comunicando il mio piacere a qualcun altro è un implicito invito a condividere l’apprezzamento – però niente di più di un invito.

Ben diverso è il giudizio più propriamente estetico “è bello”. “È bello” può essere considerato grosso modo equivalente di “mi piace, e ritengo che vi sia ragione perché piaccia a tutti”. Vi sono molte sfumature di senso con cui “è bello” può essere detto. Il “ritengo che vi sia ragione” può essere constativo o ottativo, cioè può esprimere la mia credenza di appartenere a una comunità che ritiene che questo sia bello, oppure semplicemente l’augurio che una tale comunità esista. Il “tutti” va inteso non come un universale globale, ma come un “tutti nella mia comunità”, dove i limiti di tale comunità possono variare di caso in caso.

Comunque sia, però, “è bello” esprime l’accordo con una comunità, reale o virtuale, grande o piccola che sia, ed esprime, quindi, la presupposizione di un’identità etica comune, il riconoscimento di valori appartenenti all’intera comunità, sulla cui accettazione si basa il giudizio estetico. Dire “è bello” anziché semplicemente “mi piace” vuol dire dunque anche riconoscere un fondamento morale condiviso, sulla cui base l’evento viene valutato.

Proprio per questo motivo, in qualche caso, addirittura, “è bello” viene usato direttamente per esprimere una valutazione sostanzialmente etica, come una sorta di sostituto di “è buono”, come in qualcuno degli esempi fatti sopra. Lo potremmo considerare un uso semplicemente omonimo di quello estetico, se non fosse che di fatto è un venire a galla dei suoi presupposti.

Esistono poi anche giudizi intermedi tra “mi piace” e “è bello”. Dire, per esempio, “è bello per me” è appena più forte che dire “mi piace”, perché afferma e insieme nega l’universalità (relativa) del giudizio; o forse in quanto pone i propri valori individuali come universali, benché l’universo in questione sia costituito da me solo. Oppure dire “secondo me è bello” è appena più debole che dire “è bello”, perché mette in gioco l’incertezza della propria valutazione, pure se tale valutazione si propone come universale.

Infine, visto che siamo in gioco, “è un’opera d’arte” è un giudizio ancora differente. Esso esprime l’appartenenza dell’oggetto in questione a una categoria a cui si applicano i giudizi del tipo “è bello” (che però non si applicano solo a questa categoria di oggetti). Cosa sia un’opera d’arte cambia a seconda delle epoche e delle teorie estetiche che vengono messe in gioco. Anche per questo ci sentiamo giustificati a giudizi del tipo “è un’opera d’arte, ma non mi piace”. Un giudizio di questo genere riconosce che l’opera in oggetto appartiene alla categoria delle opere d’arte, che altri potrebbero trovarla bella, ovvero universalmente valida, ma esprime pure il fatto che il mio giudizio non concorda con quello che ritengo comune, anche se riconosco che il mio giudizio non possiede l’autorità per mettere in discussione quello che attribuisco agli altri. “È bello, ma non mi piace” è un giudizio dello stesso genere, ma assai più vicino ad apparire contraddittorio; può essere inteso come “ritengo che vi sia ragione perché piaccia a tutti, ma a me non piace”.

gattoLADY WITH A VEIL (ROSLIN)Di fronte a una visione così sfaccettata del giudizio estetico, in cui soggettività, proiezione di universalità, e universalità relativa si intrecciano continuamente, che senso rimane alla parola bellezza, ipostatizzazione astratta di una qualche essenza da idea platonica? Dove sta questa bellezza? Risiede da qualche parte? Nelle cose che definiamo belle, magari? Ma le cose che definiamo belle sono semplicemente cose su cui il giudizio si è aggregato, o su cui auspichiamo che si aggreghi. In verità, non esiste una bellezza se non attraverso un complesso pulviscolo di valutazioni in reciproca interazione.

Esiste, in fin dei conti, un cugino accettabile della bellezza, ed è il bello. È accettabile perché, essendo un termine filosofico, è sempre stato usato con mille precauzioni, e perché, essendo assai meno suggestivo, il suo uso è molto limitato. Il bello è privo, infatti, dell’aura mistica della bellezza. Una frase come “la bellezza ci salverà” sembra infatti avere un senso; ma “il bello ci salverà” ha qualcosa di ridicolo, e rivela implicitamente la scarsa significatività anche dell’altra formulazione.

Ecco quindi perché bellezza è una parola così irritante: perché è una parola vuota, tronfia e supponente, che serve per gonfiare le frasi facendole sembrare più importanti e più significative di quello che sono. Lo spettro della bellezza si aggira nel mondo della poesia perché la poesia ha bisogno di sentirsi forte, e importante – e tanto più da quanto conta così poco. Ma si aggira in generale nel mondo dell’arte, perché il mondo dell’arte è pieno di persuasione e di fuffa, e ha bisogno di essere continuamente stimolato con abbondanti iniezioni di cocaina – visto che le opere che davvero ci appaiono belle (poesia o altre arti che siano) sono sempre troppo poche, mentre quelle che aspirano a esserlo sono sempre tante, e di solito troppe.

Lo spettro di Marx, il comunismo, è stato un’idea trainante, che ha portato grandi beni all’umanità, finché è rimasta un riferimento un po’ incerto di fondo, una meta ideale irraggiungibile. Là dove ha preteso di realizzarsi materialmente ha preso di solito la forma di un incubo. E noi, vorremmo davvero vivere in un mondo basato sulla Bellezza, sottraendola alla sua natura di spettro?

Ho la sensazione che le idee platoniche farebbero meglio a restarsene a casa loro, nel lontano iperuraneo, in special modo quando sono così vaghe e fumose come questa.

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One thought on “Lo spettro della Bellezza di Daniele Barbieri”

  1. Hai espresso con chiarezza quanta ambiguità si nasconda dietro la parola “bellezza” che si vuole salvatrice del mondo. Certamente mani insanguinate non sono belle, forse che sono belle manimollicce, fredde e sudaqticce, con unghie per potate dei nuovi predatori?
    Daniele mi ( ci) hai scosso i pensieri; siamo pigri, ci adagiamo sul conformismo del dejà vu, dejà senti.
    Ottima idea prenderci per mano lungo questo sentiero.
    Narda

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