Lo spirito mistico religioso della poesia femminile contemporanea. Radici, fonti, ispirazioni, necessità. Di Cinzia Demi.
Ha un senso oggi parlare di “poesia religiosa”? Quali poeti la praticano e in quali forme è possibile identificarla? Quali sono le finalità e i messaggi di chi prova a incamminarsi su un territorio poco battuto al presente, se pure grandi tracce vi hanno lasciato anche nomi del recente “secolo breve”? Da Caproni a Luzi, da Rebora a Turoldo, dalla Merini alla Spaziani allo stesso Ungaretti, solo per citare alcuni nomi: tutti hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Dio e quanto da lui rappresentato. Ma oggi, in un momento in cui a fronte di una figura così imponente e popolare – e per certi versi rivoluzionaria – come quella di Papa Francesco, chi può dire di sentirsi ancora completamente attratto da una forma di spiritualità cristiana, distratti come siamo dal rumore del mondo? Quanto coraggio ci vuole per pensare a forme nuove di avvicinamento alle nostre radici, per umanizzare le figure di Cristo e di Maria per sentirle camminare vicino a noi? La croce ha ancora un suo valore morale e di senso? La carne e la fede, la vita e la morte, lo spirituale e il sociale possono incontrarsi e continuare a convivere senza strappi o fratture? Quali dubbi portiamo con noi verso un Dio che sembra concedersi poco al dolore del mondo?
Ritengo che affrontare oggi percorsi tematici in sintonia con uno spirito religioso peculiare per ognuno, sia appannaggio molto significativo della poesia femminile che diventa, sempre più spesso, mezzo comunicativo incandescente e, a volte, azzardo vero e proprio. Ma, se di azzardo parliamo, è in primis un azzardo linguistico e stilistico a cui pensiamo, se pure consonante con quella poetica ricercata nelle viscere della propria interiorità, capace di trovare un contatto con l’altro da noi, per verificare se si è ancora in grado di avvicinarsi al divino attraverso l’umano, per provare a portare con la voce della poesia il senso vecchio e nuovo delle cose che ci appartengono.
Così, il contenuto di quest’articolo va nella direzione dell’analisi del lavoro odierno di alcune poetesse nel quale ho rintracciato non solo orme o riferimenti ma, interi percorsi di ricerca e confronto, veri itinerari spirituali – mistici a tratti – che inducono a riflettere su come la natura della poesia femminile – con buona pace per i detrattori della distinzione – prende spesso la complessità di tali vie interiori, diventando a volte lirica, preghiera, trascendenza, per trovarne conciliazioni.
Tante le citazioni e le trame che si intrecciano nei nodi letterari di sempre: dalle sante mistiche del Medioevo – alle quali non potrò non accennare – alle recenti filosofe novecentesche, dalle apparentemente fragili autrici che hanno trovato conforto nella morte cercata alle contemporanee di cui approfondirò alcuni aspetti, i legami sono, oggi, ancora più forti e certamente necessari per una resistenza etica e spirituale tra tradizione e modernità. Se Santa Caterina da Siena ci consegna la visione di un suo “matrimonio mistico” con Gesù[1] tanto da mostrare il cuore del suo senso religioso, la sua spiritualità autentica ecco che Caterina da Bologna ci tramanda per rivelazione soprannaturale la vicenda storica della “miracolosa traslazione” della Santa Casa di Nazareth;[2] se Santa Chiara conclude il suo itinerario contemplativo con la visione del “Re della gloria”[3] ecco come gli scritti di Santa Teresa D’Avila, tra i quali figurano diverse opere poetiche, arrivano all’apice con l’opera il “Castello interiore”[4]. Da qui, il passaggio alle poetesse e filosofe ottocento-novecentesche – con un salto temporale necessario per mancanza di spazi – è breve ma concreto e getta le basi per rivisitazioni e nuove interpretazioni da parte di più attualissime voci. Già in un libro particolarmente vicino ai nostri intenti, Emily e le altre, Gabriella Sica racconta di quante mani si sono aperte per raccogliere la poesia di Emily Dickinson – in fondo una poesia veramente visionaria e quanto mai profetica – incarnata, lei, in vesti monacali, di vestale impregnata di passioni trattenute, sempre piegata sotto il peso di un bagaglio fatto più di rinunce che di vita, di solitudine e abbandono ma, anche, e soprattutto di poesia quale offertorio di mistero, con quel lessico nuovo, con quella lucida follia che la rende incommensurabile, quale autentica credente di un “Soprannaturale [che] è il naturale dischiuso” E quante mani tese verso di lei, dicevo, o meglio dice la Sica: “le mani finissime di Margherita Guidacci, “Regina del Calvario”[5], di Cristina Campo,[6] […]”. Ma, oltre alla Dickinson e alle sue possibili compagne, possiamo aggiungere il misticismo di Simone Weil la quale, per anni sofferente di continue e terribili emicranie, capisce ad Assisi di poter identificare il dolore per il quale stava soffrendo con la passione di Cristo. Un’esperienza mistica, descritta così nella lettera al poeta Joë Bousquet del 12 maggio 1942: Durante quel periodo la parola Dio non aveva nessun posto nei miei pensieri. L’ha avuto soltanto dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più potuto rifiutarglielo. In un momento d’intenso dolore fisico in cui mi sforzavo di amare, ma senza vantare il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito (senza esservi preparata per niente, dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, analoga all’amore che traspariva dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri.” Donna e filosofa sempre in lotta con la Chiesa, nella quale non accetterà mai di entrare, viene definita da André Gile come “la santa degli esclusi” ritenendola “l’autrice più spirituale del secolo, mentre Eliot la descrive come “una donna geniale, quel tipo di genialità che appartiene ai santi”. Più lontana poi dal misticismo ma altrettanto visionaria nei suoi percorsi poetici – almeno per certi tratti – non posso non citare Alda Merini le cui parole propongono l’essenza dell’amore, che in Cristo raggiunge i suoi vertici più drammatici e più sublimi poiché l’amore cristiano appare all’autrice come disarmato, umile, con l’unico potere di chi ha abbandonato ogni desiderio di potere. La Merini, infatti, così lo canta: come un amore senza difese, radicato nella carne umana e quindi in tutte le sue passioni, ritenendo che Gesù, per primo, si sia esposto agli sguardi e ai bisogni degli altri, al bisogno di verità e di amore dell’uomo, senza sottrarsi, con la generosità del servo di Dio. In lei sembra che anche la poesia non possa ritenersi esente dal rischio del peccato, perché né la parola né il pensiero lo sono: Puoi dunque, Dio, distinguere l’arte / dal suo peccato, / dalla sua presunzione d’amore? Ma se un pensiero, e il suo certo lo fu, è capace di affrontare amore e morte umilmente, senza poteri di difese, o può trovare gioia della creazione ascoltandone il dolore, allora questo pensiero potrà riuscire nel suo intento, quello di restare in attesa dell’estasi eterna. Ultima delle grandi autrici del secolo scorso che, per certi versi, si avvicina alle tematiche religiose è Maria Luisa Spaziani che con il suo poemetto dedicato a Giovanna D’Arco affronta quell’eroismo di fede insito in alcuni personaggi cristiani. Di questo lavoro la stessa Spaziani ci racconta che venne scritto “con passione e inesplicabile furia” di getto nel novembre 1988, dopo anni di ricerche storiche sulla figura dell’eroina. “È una favola se si vuole, dalla quale però la Giovanna D’Arco storica esce intatta con la sua fede, il suo slancio, la sua genialità, la sua verità, il suo assoluto disinteresse, la sua travolgente simpatia.” Incontro sconvolgente, lo definisce ancora l’autrice, quello con la Pulzella d’Orleans, figura di valori straordinari e alta illuminazione morale e religiosa, che viene riproposta attraverso la divisione interiore fatta di voci e un finale prima salvifico, diverso dal reale, di condanna al rogo per eresia, del quale ella stessa muterà le sembianza in un volontario ricongiungimento al suo destino. Così, il poemetto della Spaziani nell’altalenante ritmo di salite e discese, senza retorica si conforma al lirismo emblematico che ne caratterizza i toni, diventando una sorta di “Cantico dei Cantici” popolare, dal quale scorgere il divino: Forse un angelo parla a tutti, eppure / in quel supremo momento pochi ascoltano.
Saranno allora queste radici, questo stratificato spessore culturale che non possiamo non sentirci nelle ossa, a dar forza, visionarietà e attrazione spirituale alle autrici più recenti di cui vorrei affrontare brevemente il percorso. Penso ad esempio a Silvia Comoglio, che nel suo lavoro Via Crucis (Puntoacapo, 2014) affronta il drammatico percorso di Cristo con la croce sulle spalle, percorso con il quale ognuno dovrebbe confrontarsi, partendo dall’inizio della vicenda: da quando Dio fattosi uomo viene condannato a morte. Questo, e solo questo, potrebbe già bastare per farne un’esperienza poetica. E la Comoglio ci prova, ci restituisce l’esperienza dell’essere umano che si confronta e testimonia la sofferenza estrema, attraverso una concretezza che tenta di cogliere l’aspetto corporeo del divino stesso. Per l’autrice la presenza di Dio e di suo Figlio, si avverte senza bisogno di mediazioni mistiche, se pure nei dubbi che la assalgono. Ed è verosimile anche il risuonare costante di un’assenza/presenza fatta di eternità dove, inevitabilmente, riconoscere il trascendente poetico della parola quotidiana fatta di oggetti muti che raccontano la stessa Via Crucis e che si aggrappano all’interiorità della visione che cerca la verità. Così, con fratture di linguaggio e di sintassi, quasi ad evitare di voler dare un senso del compiuto al resoconto drammatico che la sfianca, la Comoglio naviga per frammenti in una geografia d’ambiente dove alcuni segnali devono essere presi a riferimento perché smarrirsi diventa molto facile per il lettore, se perde d’occhio la bussola, comunque evangelica che, se pure nelle more di una reinterpretazione del tutto personale, guida il cammino verso la parola rivelata che, nel finale, si fa chiara diventa apparizione: in cima, in cima alla collina, dove il labbro /in forma di prodigio, intesse tutto il balbettio, in vibrante semplice discorso.
Penso a Daniela Raimondi e alla sua Maria di Nazareth (Puntoacapo, 2015) che in questa fabula poetica, come la definisce Ivan Fedeli nella prefazione, ricongiungendosi ai precedenti lavori (Avernus e La regina di Ica) affronta e completa il percorso intrapreso alla ricerca della Venere-madre, unificando le sofferenze fisiche del corpo alla drammatica rappresentazione simbolica della via crucis. Maria, in quanto emblema della maternità, interseca la propria esperienza con quella di tutte le madri, diventandone inevitabilmente archetipo puro e semplice, sublimando anche il corpo, denunciando la violenza, contrastando eppure rappresentando tutte le donne della storia nella loro terribile passione umana, nella loro vicenda universale. Con un linguaggio che non può non uniformarsi alla congiuntura tra l’umano e il divino, anche la Raimondi ci propone il suo personale percorso dove è prevista anche la ribellione al già dato, eppure consapevole dell’impossibilità di farlo: Io mi ribello./Io disobbedisco a dio./Perché tu il solo dio/tu il solo ordine,/la mia terraprimavera!
Penso a Laura Corraducci e al suo libro Il Canto di Cecilia e altre poesie (Raffaelli, 2015) che nell’ultima parte contiene il poemetto dedicato alla figura di Santa Cecilia. Qui, nel dare voce alla Martire cristiana del II secolo[7], l’autrice ripercorre il viatico del suo lungo martirio (dopo i tentativi di asfissia non riusciti, infatti, la pena di morte venne convertita in quella per decapitazione. Si narra che il carnefice vibrò i tre colpi legali e che Cecilia, che ancora non moriva, venne lasciata nel suo sangue) dove ogni momento si rivela anche per la musica che lo compone. Il canto nato dai gemiti, la melodia di fianco all’anima che è il ricordo dello sposo, mentre anche la preghiera chiede: che sia la Tua musica a inebriarmi la mente, che sia nel corteo nuziale o verso il martirio – in lontananza un bambino cantava.
Laura Corraducci, in questo suo ultimo percorso poetico ci propone dunque un passaggio dove non è più l’io poetico protagonista ma, una seconda persona, donna in primis e una santa martire che contiene in sé, nell’esperienza della scrittura che si fa religiosa – anche qui, senza visione mistica ma semplicemente con la com-passione che necessita una con-divisione di fede, che l’autrice porta dentro di sè – un distacco dall’esperienza soggettiva per rafforzarsi, così come dice anche Massimiliano Napoli nella prefazione, in «un’altissima invocazione metafisica… Nel poemetto posto in ultimo… Laura Corraducci ha sublimato la sua peculiare risposta, non solo stilistico-formale, alla collocazione dell’io» .
Penso, infine, ad Alda Cicognani e al recentissimo Le fonti dell’Amore. Poema mistico (La vita felice, 2015) del quale ho appena terminato la lettura. Qui, a mio avviso, ci inoltriamo nuovamente – del resto è la stessa autrice a dirlo, nel sottotitolo – in quella sorta di misticismo tutto femminile di cui abbiamo in parte accennato il percorso nei primi passaggi di questo articolo. Infatti, se pure la Cicognani nella nota introduttiva segnala di come il vissuto umano accomuni chi “è accompagnato dal sentimento religioso” con “chi è del tutto ignaro delle rivelazioni”, sottolineando come la Bibbia e il Vangelo riescano a dialogare con noi, magari rassicurandoci, e di come spesso anche “mirabili uomini invasi da Dio […] hanno goduto di quello spirito lieto che pure sarebbe la via maestra per il cuore del Padre”, se pure molti altri – altrettanto mirabili – “hanno patito e sono stati testimoni del martirio del dubbio, dell’incertezza, anche nel dialogo con Dio”, se pure tutto questo, l’autrice si affida alla benevolenza del lettore che – magari lontano da un percorso di fede – possa trovare consonanza di un vissuto umano prima che religioso, nel senso stretto del termine. Entrando nel testo, perché dico che il percorso di quest’autrice ci riporta al misticismo iniziale dell’articolo? Ma perché, senza dubbio, vi ho ritrovato molti di quei sentimenti che hanno invaso l’animo delle mistiche, sia Sante che filosofe che poetesse, spesso avvolte anche da dubbi e ossessioni, spesso consorelle di una fede non sodale a loro stesse, al loro essere donna, spesso alla ricerca di un Dio più presente, attanagliate da dubbi esistenziali, che alcune hanno risolto con la morte. La Cicognani parte da un dialogo, certamente e inevitabilmente, visionario, fra anime che si cercano e in questa visione si confronta con l’Angelo perituro, con la figura della Santa di Bologna – Santa Caterina, di cui ho già parlato – e naturalmente con qualcosa di Grande, con quel Dio a cui riconosce, è dovuta L’obbedienza ma del quale lamenta la mancanza di spiegazioni, con quel Dio che ci ama ma che fa tirannide della sua grandezza, sperdendo la povertà delle menti. Poesia in forma di eresia? È una possibile interpretazione, un tentativo di avvicinamento alla verità. Poi, nella seconda parte del poemetto, il dialogo si fa più pressante: s’interrogano la Madre, il Padre, sono i figli che chiedono ancora, mai sazi di Parola e Verità. Ma è Il Momento del dolore del tempo presente il luogo dove la parola si fa presenza umana e chiede, disperatamente chiede al Padre un segno: ma rendici il tocco del tuo dito/sai quel vitale tocco che ha dato al figlio/primo fra tutti la tua somiglianza… e invoca il tempo dove I Bambini a cui le fiabe davano riparo… mentre adesso: è la fiaba che nessuno ha narrato/ora è l’abisso che aperto esala l’essenza del male… e chiede la parola, implora la parola, di sapere: Come riguadagnare il tuo perduto amore? In un crescendo incalzante di domande che a volte contengono in sé le risposte – perché l’uomo è anche artefice del proprio destino – l’autrice ci conduce alla terza e ultima parte del poemetto dove Il Padre, infine, pare voler rispondere a chi si interroga, ponendo a sua volta un ulteriore quanto pesante dubbio sul suo stesso operato, e il primo cedimento affonda nella comprensione del pensiero femminile, che se avessi edotto lei per prima/quale destino/la mia creazione di tempo in tempo avrebbe/diversamente segnato un trionfo […] Infine, quasi a risanare tutto il tempestoso viaggio verso la verità, l’autrice fa pronunciare a quel Padre tanto invocato, e apparentemente assente, le parole che solo in parte sono riconciliatorie e inducono a riflettere, a continuare la ricerca della verità, prima in noi stessi e con l’aiuto indispensabile della fede e della conoscenza ma che, forse, neanche basterà a comprendere : Che io non abbia pena neppure tu lo pensi/ma la mia pena dura in eterno e il risorgere a me/sarà per te l’estrema espiazione il non sapere. Visionario eppure concreto, questo lavoro della Cicognani si distingue oltre che per il contenuto intenso, a volte dogmatico, eppure per la limpidezza dei versi, per gli squarci illuminati dal fulgore delle apparizioni di sentimenti e natura che lo rendono una sorta di breviario moderno, da cui attingere i benefici del dubbio, le riconciliazioni, la dimensione contradditoria e umana del nostro essere fatti di carne, l’immersione contemplativa del nostro essere fatti di spirito.
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[1] Nella visione, Maria la presenta a Gesù che le dona uno splendido anello e le dice “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti prendo in sposa; fiducioso che ti manterrai pura finché celebrerai le tue nozze eterne con me, in Paradiso”.
[2] Nella rivelazione la santa apprende direttamente da Gesù che Maria fu concepita fra le sacre pareti di Loreto, e di come avvenne il trasporto angelico della Casa.
[3] Vicina alla morte, Chiara vede il mistero di Gesù riassunto proprio in questo titolo: Egli è il re, colui di cui parlano i salmi, il figlio di Davide, il re che entra a Gerusalemme acclamato dalle folle ma in verità non accolto, il piccolo bambino di Betlemme di cui parlava anche Francesco.
[4] Qui, con la metafora delle stanze, Teresa spiega come sia possibile che le anime dalla prima stanza, o al di fuori del castello, cioè nello stato di peccato mortale, giungano alla settima stanza, la stanza più vicina a Dio.
[5] La pietà espressa dalla «via crucis» smuove spesso il sentimento dei poeti cristiani che sulla linea delle quattordici stazioni coniugano la Passione di Cristo e quella dell’uomo.
Qui, lo scultore Leonardo Rosito e la poetessa Margherita Guidacci nell’opera La via crucis dell’umanità (Ed. Città di Vita, Firenze) hanno raccolto la riproduzione di 15 bronzi raffiguranti le XIV stazioni, più una quindicesima, la Resurrezione. La visione sta nel fatto che non sono le stazioni di Cristo ad alludere alle stazioni martoriate dell’uomo ma, sono le stazioni dell’uomo che rimandano a Cristo, e che, in qualche modo, si inseriscono in quella sua via crucis che tutte le riassume e riscatta. E’ una via crucis «dell’umanità», che ha inizio, nel primo bronzo, con Caino che uccide. Abele e che si chiude nella penultima stazione con il fuoco di Hiroshima. Quasi a commento di questa tragica visione Rosito scrive in epigrafe al libro: «In diecimila anni l’uomo si è evoluto tecnologicamente, ma nella sua intima natura è rimasto primitivo come Caino e Abele».
[6] Per Cristina, asceta e fata al tempo stesso, l’arte divenne rivelazione di destino, possibilità di attingere all’invisibile, bellezza per i segni sovrannaturali che vi si trovano, luogo privilegiato dove il bene e il bello possono trovare conciliazione e, lo si legge ne Gli Imperdonabili, rimase convinta che fosse tramite «l’infanzia che si accede al regno dei cieli», tant’è che in età adulta «se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe».
[7] La storia di S. Cecilia, si compone di atti caritatevoli e di risposte crudeli da parte dei carnefici, così come per i santi martiri dell’epoca. Condannata a morire per asfissia, si narra che invece di morire cantasse lodi al Signore. É considerata patrona della musica e protettrice di strumentisti e cantanti.