L’uomo
racconto di Rina Xhihani.
Io ho sessant’anni. Porto sempre un vestito, camicia bianca e papillon. Se non fosse per la giacca lercia, più grande di quattro taglie nessuno mi taccerebbe di essere un barbone. Di fatti non lo sono. Ho casa. Ma ho le mie abitudini. Mi aiutano a non diventare matto, non del tutto.
Eppure vedendomi molti direbbero che già lo sono. Come la storia di questo papillon, è un’abitudine, mi ricorda ogni giorno, anche se ogni giorno più puzzolente, che sono esistiti i tempi in cui mi facevano regali, specialmente le donne… una donna.
Ho un’altra abitudine, due volte a settimana vado dal pakistano di corso Garibaldi, mi compro una confezione di merendine scadenti, quelle con la farcitura all’albicocca, il cioccolato non mi piace, mai piaciuto, una bottiglia di vino, e poi mi siedo sulle panchine, in Piazza 24 Maggio- preferisco quando ci sono ragazzi giovani accanto a me, loro conservano ancora una purezza che mi mette a mio agio, bevono dalle bottiglie come me, e mangiano schifezze, come me. Non mi guardano male, come gli adulti, non fanno strane smorfie, ridono o bisticciano spensierati, non notano niente di strano, nessuna bizzarria. Siamo simili, mi fanno sentire meno solo.
Io scarto la prima merendina, poi la seconda, poi bevo un sorso di vino e poi finalmente mi accendo una sigaretta. Non penso, aspiro, profondamente.
D’altronde a cosa puoi pensare quando non ti ricordi nemmeno se è stata tua moglie a regalarti quel papillon… che poi chissà cosa vuol dire, moglie. Il pakistano mi parla spesso della sua famiglia. Io vorrei proprio capire che significa, vorrei potermelo ricordare. Ma ho le mie abitudini, e quelle dicono alla testa, stai calma, va tutto bene. Così mi dico, va tutto bene, non esplodere, non oggi, ancora un altro giorno, prego.
Allora mi accendo la seconda sigaretta, ed i ragazzi continuano con il loro chiasso spensierato. A volte mi chiedono una sigaretta, a volte gliene chiedo io una. Poi mi sdraio sulla panchina e fisso le stelle. Non che si vedano dal centro città ma mi piace sapere che sto puntando lo sguardo verso qualcosa di profondo, sconosciuto e luminoso. Non ci si può perdere nell’infinito, perché non ci si può nemmeno ritrovare, non ci si può soffocare nell’infinito perché non c’è nemmeno bisogno di respirare. M’accorgo di respirare solo quando mi viene un attacco di tosse e devo alzarmi dalla panchina. Raccolgo le mie cose e mi avvio, a volte non mi ricordo nemmeno il dove ed il perché, non so nemmeno dove arrivo né quando, ma so che ho la mia abitudine di merendine e sigarette e cielo e ragazzi sconosciuti ma amorevoli, ed è solo uno sciocco rituale di un non barbone con il papillon… ma mi tiene vivo, dice alla mia testa non scoppiare, non oggi, così inganno i giorni, inganno le ore ed ogni loro minuto. Non sono sicuro che siamo venuti a questo mondo per ingannare i giorni, ma per ora va così.
Una ragazza dalle parti della biblioteca municipale mi ferma un giorno, fumavo, anche lei, mi allunga un libro, “Orientarsi con le stelle” di un certo Carver. Erano lunghe poesie che non sembravano poesie. Lo legga mi dice, ed allora per non deluderla lo feci. Non avevo nessuna voglia di poesia né allora, né ora, credo. Non ci capii granché, eppure parlava schietto. Pagine e pagine riempite di gente stramba e sola, persa e delusa, gente che beve cognac di prima qualità davanti al camino e non sa scrivere lettere d’addio, gente che porta a passeggio il cane e mangia nei bistrot ma non sa piangere, gente che viene pagata per scrivere eppure non saprebbe dire una parola autentica su di sé. Allora mi sentii meglio. La miseria umana infinita e dolcemente penosa. Orientarsi con le stelle, orientarsi con le stelle. Ma non ci sono stelle visibili in centro città-lampioni-motorini-tavoli e sedie-licei pieni di fantasmi felici-insegne ed insetti tecnologicamente avanzati-escrementi-distributori del latte- crepe sui muri- graffiti e graffi-padroni e collari- padri e rimpianti.
No, non ci sono stelle, né orientamento finché non ci accenderemo interiormente.