L’urlo barbarico, antologia poetica a cura di Antonio Merola, Le mezzelane ed. 2017, recensione di Sandro Angelucci.
Gli autori che, con le loro voci, vanno a comporre il presente florilegio poetico sono ragazzi impegnati nell’attività di stesura di un giornale universitario.
C’è da porsi subito un paio di domande allora – come fa Francesco Muzzioli in apertura della sua introduzione all’opera -: “Dove vanno i giovani?” e più drasticamente: “Esistono ancora i giovani?”. Interrogazioni cui si può rispondere in modo ambivalente (concordo con il prefatore), in quanto alle stesse si può replicare sia in senso assertivo che negativo.
Da una parte esistono come modello di una società che ha l’imperativo di essere giovane; dall’altra, quella stessa comunità li costringe – immolandoli sulla passerella dell’omologazione – al conformismo, ad invecchiare prima del tempo e, dunque, a privarsi della loro giovinezza.
E’ anacronistico o no, di conseguenza, parlare di gioventù? Ma certo che non lo è. Soltanto, si deve sapere che oggi vive emarginata, esiliata, bandita; anche se ingannevolmente le viene prospettato un ruolo da protagonista.
Il suo destino sembra essere quello della poesia (si evince di nuovo dallo scritto prefativo), e non c’è nulla di paradossale in questo; voglio dire: i ragazzi sono molto più vicini al dire poetico di quanto – non solo noi – ma essi stessi sospettino. Ovviamente non a tutti ma – come in questo caso – ad alcuni, per ragioni di studio o per accadimenti, succede di imbattersi nel patrimonio artistico e letterario. Cosa avviene a quel punto? Si verifica una sorta di rielaborazione che assomiglia e finisce col prendere le fattezze di una presa d’atto, non più passiva però. Scatta una qualche sfida – parafrasando Muzzioli – e i giovani reagiscono con il rifiuto di tutto ciò che sa di pretestuosamente stantio e propongono più autenticità.
Tutti i partecipanti a questa antologia hanno, in primo luogo, questa necessità; nella diversità degli stili e delle esposizioni – ci mancherebbe altro che non fosse così – ciascuno denuncia il proprio disagio perché si alzi il grido della ribellione (la poesia non può non essere ribelle).
A partire dal titolo prescelto, appropriato e significativo. L’urlo deve esprimere la sua potenza, e quale vocabolo migliore si poteva individuare? I barbari erano dei primitivi, e il primitivo non è ancora contaminato, quindi se il grido con il quale ‘scendono’ fa ‘paura’ alla massa, al contempo serve a svegliarla dalla sua assuefazione, dal sonno profondo in cui l’hanno fatta addormentare i ‘sedativi’ di una società politicizzata e materialista, che obbedisce al potere finanziario e ne fa un feticcio. Evviva i barbari, allora, se con il fuoco dei versi bruciano le immondizie che soffocano il respiro delle nostre presunte civiltà.
Nutro, tuttavia, delle riserve sulla nascita di una nuova tendenza, laddove questa venga intesa in senso strettamente letterario (il passato non conforta). Se, però, così dev’essere per rinnovare, ebbene sia, a patto che non ci si aspetti un qualcosa di definitivo ed immutabile ma un nuovo corso il cui destino ci è ovviamente ignoto.
La possibilità di riuscita di un movimento che vuole rivoluzionare – è fondamentale ricordarlo – va presa in senso storico: solo così si evitano le facili illusioni di aver trovato la panacea che guarisce da ogni male.
A mio parere – ne sono fermamente convinto – sarebbe meglio focalizzare l’attenzione sull’esistenza e la necessità del male finendola di vederlo soltanto come nemico del bene (lo è: ci mancherebbe altro) ma concentriamoci anche, e non meno, sul suo voler essergli amico in nome di un equilibrio che, prima ancora che umano, è cosmico, universale e – consentitemelo – infallibile (non credo ci sia bisogno di esempi migliori di quelli che quotidianamente ci offre la natura per comprenderlo). Certo: ci siamo spostati sul piano spirituale (non codificato, però) ed è necessario per controbilanciare quello materialistico dello sviluppo occidentale (come giustamente è stato notato).
L’ego diventa una trappola se non s’intraprende un esame autocritico, e l’autocritica – come la fede autentica – si basa sul dubbio non sui dogmi. Bene, dunque, che questi ragazzi si mettano in discussione: è il primo passo da fare. Un passo che inizia con lo scegliere degli pseudonimi onde evitare narcisistiche deviazioni.
Così, Charles Folie – pur vivendo “l’imperitura agonia del se fossi” e “ridott(o) a clessidra”, “brucat(o)” – non rinuncia alle sue “Hawaii” selvagge, nonostante senta alle porte l’arrivo di una nuova guerra mondiale, perché questo fa il barbaro, mentre i civilizzati piagnucolano. Skara, più intimisticamente ma non meno determinata, “anel(a) i fuochi di (se) stessa” con un verso sperimentalista che, forse, ricerca una estraneità per ritrovare l’appartenenza alla vita. Iuri Lombardi lascia gli “appunti di un apostata” scegliendo di non scegliere, come la migliore delle possibilità che abbiamo di non essere condizionati nella decisione da prendere. Rocco Schmidt annusa “come fanno gli animali” per conoscere nel senso più ampio del termine, ossia entrando in comunione con l’altro e con le cose. Carlo V. si sente chiamato dal mondo degli adulti e si accascia: “anch’io crescerò, – scrive – come un dente che si caria”; “ostinato e contrario”, se gli altri vogliono invecchiare, lui è disposto a proseguire da solo, ma solo non è, perché la vera compagnia si trova se prima troviamo noi stessi. Immerso nella merda della vita, “guard(a) avanti, aspett(a) un altro maggio”, “giovane finalmente, perché giovani si diventa”. Charles Dexter Ward parla di “tremenda meraviglia / del dramma cosmico” e dopo aver annaspato libera il suo urlo: invita al silenzio, a tacere ed ammirare “colei che non aveva mai sorriso (la giovinezza)”. Lev Pyotr – come altri dei ragazzi qui presenti – si rende conto che il troppo pensare ci porta lontano dalla verità e scrive, mentre è in volo: “Sopra, un firmamento dove tutti rispondono all’appello / Sotto, una terra dove gli assenti sono sempre più”. Joe More (non presente nella versione 2017 ma presente nella prima versione di questa antologia, pubblicata dalla rivista YAWP nel 2016) denuncia: “E intanto l’apparenza colorita / Porta a sfioritura la frontiera del bimbo / Omni-vedente, pluri-visionario / Che eri ed eravamo”; ed urla: “-Dimenticate! Dimenticate tutto! / …. / – Tutto questo è condannato / a indolente morte”. Ricorre al suo alter ego: “Viaggia / mio estro esondante / e segui le rotte remote / di ciò / che mai fu detto, / di colui / che già fu matto / da perdersi in te.”. Ed ecco la sua conclusione: “Ma io ora ho smesso. / Ho smesso di istruirmi.”, con la quale mi piace terminare.
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Immagine in apertura: Demetrio Polimeno, Visions of Johanna, senza titolo 09-2016
“La poesia non può non essere ribelle”, scrive Sandro Angelucci. Poi aggiunge: “i ragazzi sono molto più vicini al dire poetico di quanto – non solo noi – ma essi stessi sospettino”. Da qui quest'”urlo barbarico”, questo grido di ribellione, questa antologia poetica ad opera di studenti universitari che denunciano poeticamente il proprio disagio, la propria volontà di cambiamento. Così, afferma il recensore, “scatta una qualche sfida – parafrasando Muzzioli – e i giovani reagiscono con il rifiuto di tutto ciò che sa di pretestuosamente stantio e propongono più autenticità”. Estremamente interessante, in questa prospettiva, io trovo la visione relativistica ed anti-ideologica dell’Angelucci (non so quanto allineata con quella dei curatori e del prefatore della stessa), secondo il quale le rivoluzioni non vanno prese nel senso illusorio e assolutistico di panacee definitive, bensì in quello di semplici scossoni rigenerativi di rilievo prettamente storico. E sta in questa temporaneità storica il valore squisitamente spirituale di ogni rivoluzione autentica, fondata sull’autocritica molto più che sulla critica. Cambiare se stessi per poter cambiare il mondo. Attivare l’alter ego, dice giustamente Angelucci, riportando i significativi versi di Joe More: “Viaggia mio estro esondante / e segui le rotte remote / di ciò / che mai fu detto, / di colui / che già fu matto / da perdersi in te”. E conclude, in chiave decisamente anti-ideologica ed anti-intellettualistica, citando la conclusione dello stesso Joe More: “Ma io ora ho smesso. / Ho smesso di istruirmi”.
Franco Campegiani
In una società che “ha l’imperativo di essere giovane” ma che in realtà invecchia vertiginosamente, ci sono fortunatamente ragazzi che si ribellano all’omologazione, che si rifiutano di essere ciò che il sistema vorrebbe fossero. La ribellione, frutto di sensibilità, può trovare sfogo in vari ambiti, dall’impegno sociale o politico all’amore per l’arte. Ho letto in questi giorni del vertiginoso aumento nell’ultimo anno del numero di visitatori nei musei italiani. Amore per l’arte che cresce dunque, anche per quella poetica.
Ecco allora che c’è una parte sana di gioventù che, come sottolinea Sandro Angelucci nella recensione dell’antologia di studenti universitari, reagisce al disagio dei tempi “con il rifiuto di tutto ciò che sa di pretestuosamente stantio” mettendosi in gioco con autenticità e non per emulazione. Interessante e condivisibile la sua disamina del titolo. I giovani quando si ribellano, urlano perché quello è il timbro della loro voce, quella la forza dell’età.
Mi auguro che l’uso dello pseudonimo non sia una forzatura. Personalmente non avrei considerato narcisistico presentarsi subito con il proprio nome. Tra di loro alcuni, in futuro presumibilmente troveranno il consenso della critica e sarà allora che si potrà distinguere chi veramente sa restare se stesso –pur incoronato d’alloro- e chi cadrà nella trappola del protagonismo da cui forse aveva deciso di scappare.
Essere autentici credo sia la carta vincente per affermarsi in ambito affettivo e sociale. Penso che ogni autore sia stato citato dal recensore e che ogni ragazzo sia nell’intimo grato per la sottolineatura dei propri versi ma sarebbe bello conoscere il loro sincero parere al riguardo.
Annalisa Rodeghiero