Il racconto del mese: “Sulla collina” di Aurora Luzzi

SULLA COLLINA

racconto di Aurora Luzzi

              

   Dopo una notte insonne Elena aveva deciso di portare tutti i suoi pensieri sulla collina. Pensieri d’acciaio. In fondo in fondo nella mente uno solo di diamante che carezzava con un sentimento solenne di venerazione. Per strada, assieme ai fogli svolazzanti di un quotidiano e al menu assai pretenzioso di un ristorante per il cenone di Capodanno, giacevano dozzine di scatole di botti, vuote. I nuovi barbari, come li chiamava lei, stavano colonizzando anche quella bella collina. I comuni dovrebbero iniziare a multare queste stravaganze di una cricca di incivili a danno della comunità, così poi imparerebbero a stare al loro posto, meditava, mentre nuvole blu viola cospiravano sul suo capo.
Camminava a fatica, il fango rendeva pesante ogni passo, le scarpe non erano adatte e l’ombrello le creava impiccio. Lei non lo avrebbe certo portato, ma sua madre le aveva urlato dalla finestra “l’ombrello, non scordarti l’ombrello”. Pertanto per non darle un dispiacere era tornata indietro a prenderlo. Il terreno trasudava acqua a causa della pioggia incessante dei giorni precedenti, riposando nei grossi solchi rosso mattone scavati dal trattore.
A mano a mano che saliva, il vento si faceva più inquieto, in armonia con i suoi pensieri, facendo mormorare le cime degli alberi e soffiare in aria le foglie, che innumere, correvano repentine come l’argento vivo di qua e di là in una fuga perpetua, danzavano sul muretto a secco, sulle mele marce, poi ripiovevano a terra, lungo il pendio, sparpagliandosi sulle olive nere, appena cadute da un albero al confine delle due proprietà, coperto ormai da un tappeto generoso d’erba, che beffandosi del rigore delle mappe catastali si allungava fin sopra l’orlo del burrone, sotto l’egida del vento.
Il ventre rugoso dell’ulivo tratteneva in mezzo all’argentea corteccia minuscole perle d’acqua, lievemente azzurrate. Cardi selvatici dappertutto, tarassaco, finocchietto, biancospino. Arrivata in cima all’erta collina, Elena si fermò per prendere fiato e osservare il paesaggio. Era stanca. Piantò l’ombrello a terra. Il brulichio cittadino lassù finalmente taceva. Lo strepito dei motori, le grida dei bambini, il fischio del treno, tutti morbidamente avvolti nel silenzio. Appena a qualche metro di distanza da lei una cornacchia inzuppava il becco in una pozzanghera scura alla ricerca di semi o vermi.
Sul Monte Scuro gravitavano nuvole di pioggia, che si spostavano rapide verso l’antenna della stazione meteorologica dell’Aeronautica, andando infine a congiungersi ai pinnacoli spogli della montagna. La strada delle Vette era avvolta in una garza di foschia. Il vento cambiava continuamente direzione. Dalle case vicine saliva alla conchiglia del suo orecchio un tintinnio continuo, instancabile, simile al batacchio di una campana. Forse un ferro vecchio. Forse un barattolo di latta incagliato dal vento in una siepe. Forse un campanello giapponese. No, non poteva trattarsi di un campanello giapponese, era un suono stridulo, orfano di armonia, che lacerava l’aria con accordi scuri, un po’ lugubri.
Il piede scivolava nel fango e lei non aveva energie per frenarlo. Anzi lo accompagnava con indolenza. Aveva le dita della mano destra intorpidite a causa del farmaco. Le schioccò per aria più volte, per ritrovare il movimento. Senza successo. Tuttavia il vento le stava alleggerendo i pensieri, che bella sensazione! Respirava l’aria calda e mite. Fin troppo calda per essere gennaio. Pensava che avrebbe potuto portare il cane. Non aveva ancora vestito il suo pensiero quando iniziò a piovigginare, un’acquerugiola lenta lenta che sarebbe durata tutto il pomeriggio a giudicare dalle nuvole che si erano addensate tutto d’un tratto sulla montagna della Crocetta.
Dalla Crocetta arrivava puntualmente lo scirocco e la pioggia, da Monte Scuro grandine e neve. Decise perciò di tornare indietro verso casa quando un bagliore argenteo ai suoi piedi la distrasse. Fra due zolle di terra una lunga scintillante ragnatela d’acqua, incalzata dal vento, si allungava sfumando i labili contorni. Al centro una goccia più grande e regolare con dei riflessi rosati, tutto attorno piccole gocce argentate che tremolavano al movimento del vento. Ad ogni suo sbuffo la goccia centrale lievitava, pronta a staccarsi da un momento all’altro, come una lacrima della terra. Poi il vento si abbassava e quella perla d’acqua resisteva ancora, giocava con esso, cambiava forma, cedeva infine alla purezza del cristallo, adagiandosi negli occhi di Elena con l’evidenza della bellezza.
Bellezza pura. Bellezza superiore che la natura offre continuamente all’uomo. Bellezza universale, che si schiude ogni giorno attraverso piccole e sommesse forme d’amore sussurrate a tutti. È un attimo e tutte le cose si armonizzano fra di loro.
Avvertì un fremito lungo l’esile corpo. Rimase per qualche minuto ferma, immobile, come in attesa, sospesa fra il rancore dell’insonnia che le pungolava la carne e la dolcezza del momento. In mezzo al parto di una nuova chiarezza. In natura regna l’ordine la felicità la pienezza, bisognerebbe imparare dalla natura, si ripeteva.
Il tintinnio era cessato sotto il gracchiare della cornacchia che si stava alzando in volo. Sì senti di nuovo collegata alla vita, scattò con il telefonino la foto della ragnatela per conservare quel momento di estasi, mentre affondava senza resistenza il piede nel fango e un effluvio di giunchiglie saliva nell’aria umida.

     

Racconto tratto da “Le intermittenze dell’amore”, Terra d’ulivi edizioni, 2016. 

               

Il piccolo Nicolas e i suoi genitori, Laurent Tirard, 2009
Il piccolo Nicolas e i suoi genitori, Laurent Tirard, 2009

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