Ma dimmi che c’è di poetico nel silenzio.
Poesie scelte e intervista a ELISA AUDINO,
di Giorgia Monti
Nessun sbagli
Ha detto che gli scrittori
Non camminano eterei,
Ma stanno in silenzio
E osservano.
In disparte.
Quindi non vivono.
Sanno già tutto.
Ciao Elisa. Per aprire la nostra conversazione ho scelto la poesia “Nessun sbagli” tratta, così come le successive, dalla tua opera prima “Io qui ci vivo” uscita per i tipi di Gattomerlino Edizioni nel 2021. I primi versi, assertivi, sono dettati da una terza persona di cui non ci è dato sapere (un tuo autore/autrice di riferimento? una/un critico? una conoscenza? un tuo alter ego?) e che inizialmente suggeriscono un atteggiamento di distacco, quando non di disinteresse, degli scrittori in contrapposizione a un’osservazione silenziosa e presumibilmente attenta della realtà. La chiusa decisamente caustica e, a mio avviso, anche fortemente provocatoria mi pare però altrettanto chiaramente riconducibile alla tua voce e al tuo pensiero critico, da qui la mia prima domanda: è veramente così, ovvero, chi non abbraccia e non s’immerge nell’attuale fragore della quotidianità e dell’informazione che ne viene data è destinato alla presunzione? Credi non sia possibile toccare il cuore della vita nel silenzio? È necessario accalcarsi oppure questa critica è rivolta solo a una data categoria di persone, nello specifico a quella degli scrittori, che pare non vogliano sporcarsi le mani?
È vero, quella poesia è nata come istantanea reazione a una sorta di sentenza di un’autrice e al suo idealtipo di scrittore che, per essere tale, non deve essere parte di qualcosa, ma deve osservare prima ancora di vivere. Stare su una parete. Ecco, io credo che a un certo punto della scrittura il distacco sia necessario, dia lucidità e maturità alla parola, ma la creatività non nasce forse anche dall’essere un transfrontaliero, dal passare da un luogo all’altro, incluso il dolore, assumendo su di sé la differenza anziché averla acquisita a priori? Rifuggo dall’idea dell’artista che sta sopra le cose senza esserne toccato, che ha le risposte per una qualche predisposizione naturale. Mi pare anche un po’ classista.
Per inciso, sapendoti particolarmente attenta alle questioni di genere (molto evidente la tua posizione in Le physique du rôle “Appartieni ai poeti, scrivi/Genere femminile, nessun diritto// Alla desinenza, aggiungo”), sarei curiosa di sapere se la declinazione al maschile del termine “scrittori” è voluta o se si tratta di semplice convenzione linguistica.
La lingua è recettrice di significati e allo stesso tempo li crea. Per questo credo sia importante la declinazione al femminile delle professioni. Mi rendo conto che alcuni nomi possono suonare male, all’inizio, ma è un’impressione dettata dal nostro orecchio poco abituato a sentire una parola. Una volta si poteva dire avvocato o al limite avvocatessa, avvocata sarebbe risultato grossolano. Oggi è la forma più accettata. Sulla scelta tra poeta e poetessa la questione è più fine: poeta vale anche per il maschile, poetessa suona un po’ draconiano a chi, come me, vuole considerare la poesia una cosa minuta, fragile per costituzione e non Poesia – renderla altisonante la allontana. In questo senso oggi preferisco usare poeta anche per le donne, ci sono dei precedenti in letteratura, ma se pure non ci fossero, possiamo decidere che cosa fare della nostra lingua.
Quando ti ho chiesto se fossi interessata a questa intervista sul tema dell’informazione hai subito accettato con entusiasmo dicendomi che ti stai “muovendo molto sul tema delle merci e della globalizzazione” e indicando proprio le notizie come la migliore merce in circolazione. Anche nella tua nota a “Io qui ci vivo”, riferendoti al tuo lavoro, affermi “vedo la merce spostarsi, ascolto le parole di chi la produce e di chi la consuma”. Io stessa, sempre per motivi professionali, a seguito dell’entrata in vigore a maggio 2018 del regolamento europeo GDPR (General Data Protection Regulation) in materia di Privacy e protezione dati in campo aziendale, ho assistito a svariati incontri a riguardo il cui punto di partenza è sempre stata l’ormai celebre affermazione del matematico Clive Humby “Data is the new oil”.
Tu come sei arrivata a interessarti dell’argomento e che idea ti sei fatta? Quali sono le parole che hai sentito ricorrere più frequentemente da parte di chi questa merce la tratta?
“Data is the new oil” è una buona sintesi. Ho studiato sociologia e c’è un fitto interrogarsi sulla gestione dei dati personali, i big data, e sul modo in cui possono essere utilizzati per fini utili – pensiamo alla gestione del traffico in base alle posizioni degli utenti o alla sanità – e per fini non utili – quelli commerciali generano profitto, più che utilità. Il flusso dei dati e delle notizie mi pare corra alla stessa velocità e con le stesse modalità di approvvigionamento delle merci: dati, notizie e merci devono essere immediatamente reperibili e devono avere un prezzo di vendita basso. Quindi, devono costare poco e il lavoro necessario per produrli deve essere sottopagato, da cui la qualità ridotta: abbiamo la fast-fashion, la distribuzione editoriale che impone un numero elevato di titoli all’anno e abbiamo anche il fast-food delle notizie. Sovraccarichiamo l’offerta per stimolare la domanda, confondendola e producendo spazzatura. Più che notizie, abbiamo ormai uno schermo liquido che assomiglia a una bacheca di Facebook con continui aggiornamenti. Difficile starci dietro, finisci per ingurgitarli, ma non sei mai sazio. Io credo che questa velocità e la deriva speculativa sia la rappresentazione della nostra epoca. È il motivo per cui, quando nel 2021 l’Ever Given, la grande nave portacontainer, si è incagliata nel Mar Rosso per sei giorni fermando il traffico mondiale di merci e creando una coda di altrettante 400 navi, ho trovato quest’immagine potentissima. La realtà ha una capacità narrativa, e quindi metaforica, ben più potente di un qualsiasi tentativo di scrittura: la ‘Mai Data’ si è bloccata nel Mar Rosso durante una tempesta di sabbia, è stata rimorchiata dal Carlo Magno e poi portata lunghi i laghi Amari in attesa di definire le responsabilità. Ora, gli ebrei dopo aver passato il Mar Rosso erano finiti in un’oasi che avevano ribattezzato Mara, per via delle sue acque, amare. Incredibile, non credi? L’esodo biblico e quello delle merci, con cubi di metallo addosso, una Babele di merci, e un equipaggio di nazionalità diversa da quella dell’armatore – come sempre accade la deresponsabilizzazione passa attraverso una serie di matrioske in cui la coda difficilmente si riesce a collegare alla testa.
La questione mi ossessiona e rappresenta l’oggetto del mio prossimo scrivere. E non credo potrebbe essere diversamente, vivo le merci per lavoro, vivo la globalizzazione, i contatti amicali oltre confine e ho sempre letto molta letteratura straniera. Il mondo mi interessa e le sue distanze sono flessibili, a seconda dei tempi di percorrenza che ci si può permettere. E poi sono una consumatrice, come tutti, e non sono certo pura: ecco, io non confido molto nel consumatore etico, che con i propri comportamenti può regolare il mercato. La potenza e la velocità dell’offerta sono tali che ci rendono inermi. Non sempre possiamo o sappiamo resistere. Ma va regolata.
La parola più usata è trasporto, direi. E il nuovo proletariato è quello dei trasporti, prima era il commercio, ora si sono affiancati gli autisti e tutta la catena logistica, dal corriere alle navi. Non abbiamo idea del traffico che c’è negli oceani e quante volte può viaggiare un prodotto. Un po’ come una notizia che perde di vista il proprietario appena inizia a navigare nel web. Non conta neanche più chi l’ha scritta e quali fonti ha a disposizione.
Sempre nella nota finale al tuo libro affermi che “le distanze e le assenze sono uno dei temi ricorrenti”, lontananze rese meno drastiche grazie all’utilizzo dello smartphone, seppure in un’ulteriore distorsione della realtà: “Sul telefono ho un’applicazione per i fusi orari. Io sono ferma.” Tu stessa ti interroghi: “va a capire se è più quello che ci ha dato o tolto in termini di comunicazione”.
Sei riuscita a darti una risposta? Se non proprio lo smartphone in sé, quanto pensi che i social e i media in genere influenzino e agiscano non già e non solo sulla diffusione delle notizie, ma anche e soprattutto sulla nostra capacità critica o acriticità?
Lo dico da consumatrice di media: hanno tolto più di quello che hanno dato, riducono la nostra capacità di concentrazione, sfruttando la nostra dipendenza dalla socialità e dalla comunicazione. È pericoloso anche a livello neurologico. Sui social: ognuno di noi ha una bacheca ritagliata sulle proprie preferenze personali, èinteressante, ma è un meccanismo simile a quello delle bolle speculative: se è normale prendere il caffè con chi ci assomiglia, quegli stessi contatti e inserzioni non faranno che rafforzare l’idea che abbiamo di noi stessi, annullando il fattore ‘d’, la differenza, che è alla base della creatività e della stessa vita. Le molecole viventi, infatti, sono tutte asimmetriche, tanto che c’è la probabilità che la vita sia stata generata dall’introduzione di un elemento asimmetrico in una precedente situazione di simmetria (1), il che mi fa pensare che l’appiattimento del confronto finirà per far scoppiare la bolla, se non interveniamo.
Grida solo chi può
Lascia allora
che io rompa tutto
piatti
giardini
aspettative.
Sono diverse
i n c o m p a t i b i l m e n t e.
Lascia che io suoni
S B A M
e che sposti a destra
il rumore
e a sinistra.
L’avanzare degli stereotipi
quotidiani
contiene verità silenziose
[lo dico da sempre]dialoghi scritti
cubi di cemento
voti
la ricerca del colpevole
[a favore di chi].Tutto già visto.
E se mi faccio divorare
dall’assenza di altezza
se mi faccio mangime
per le fameliche bocche
per i lombrichi di piazza Statuto
allora poi
lasciare andare
se non posso andare
è buttare tutto
giù
o sigillarmi
qui
.
Le bilance poetiche
Dà spessore
una certa mascolinità allunga
citare la terra,
non credi?
Qualcosa a che fare
con il reiterare se stessi.
Ma dimmi
che c’è di poetico
nel silenzio
quand’è timore del mancato decoro
e odora di quieto vivere
[abbiamo tutti diritto a una tv al plasma
e a un vaso di fiori al cimitero]
nell’essere disarmati
dal fare corpo
Camerata, attenti!
[dalle istituzioni
caritatevoli
sempre]
quand’è notoriamente fuori tema
alzare la mano
affare non inerente al
ringrazia che hai un lavoro
[Grazie!]
Che c’è di poetico
nel caricare bifolchi su un pullman
condurli a una sorgente d’alta quota
stranirli con l’aria pulita
e l’allegra compagnia,
legittimare la sacralità
delle loro aspettative commerciali
[le offerte della domenica
e il Prime, per inciso]
Che c’è di poetico
negli scheletri abusivi di cemento
nelle triadi sindaci-geometri&figli
nel palazzo a cinque piani
che ostruisce la sagoma del Monviso
nei condomini vuoti
nei cottage di cartone progettati a nord
nel vino dell’ipermercato
nell’amico senza patente
che guida con un cartoccio in mano
nell’età in cui era definito brillante
e ora non più
nella madre che passa le giornate
a rincorrerlo in ogni taverna,
in ogni osteria,
nella vecchia che è diventata,
nella tessitura chiusa da anni
e nei camion carichi d‘acqua
all’uscita di scuola.
Nel bacino privato
che produce energia per il fondovalle
nei solchi dei fuoristrada
e nei fucili a colazione,
insieme ai croissants.
Nelle frane.
Nel recintare bambini
in un campo da calcio
ed esserne orgogliosi,
sempre !
[senza mai rinunciare
ad avviarli al bar]
Nell’ospizio in cui è rinchiuso
mio padre
insieme al padre del costruttore
dell’ex-sindaco
dell’operaio
dell’ex-bambino
dell’alcolizzato
del cacciatore.
Hai ragione.
Le strade di questo paese
hanno bisogno
di una bilancia poetica,
ma io non credo
sia mio dovere
alleggerirne la tara.
Il tema del silenzio e delle verità taciute ricorre anche in queste tue due poesie “Grida solo chi può” e “Le bilance poetiche”. La prima, in cui il senso di rabbia e frustrazione sono evidenti, ha tuttavia un sapore più intimista e malgrado la forza della tua scrittura pare pervasa da un senso di sconfitta la cui unica via di uscita sembra di nuovo essere l’isolamento. I versi: “la ricerca del colpevole// [a favore di chi]” mi rimandano all’intervista fatta a Sam Paglia (pubblicata su questo stesso numero) che chiede: “la verità in cambio di cosa?”. Trovo in queste due domande una forte assonanza di senso e direzione.
“Le bilance poetiche” è invece a tutti gli effetti un’invettiva che ci riporta al ruolo del/della poeta, non solo in letteratura ma anche e soprattutto nella società.
Quali verità dovrebbe dunque esprimere e veicolare la poesia? Quale apporto di verità deve contenere la parola? La realtà va sempre rappresentata e se sì, qual è la forma che più si addice a questa rappresentazione?
William Wall mi ha detto di essere sempre stato affascinato dal motivo per cui una certa poesia piaccia a qualcuno e ad altri no: «La poesia viene compresa in modo viscerale e questo spiega perché la gente a volte dica ‘Non so cosa significhi, ma mi piace’». Accade anche con la musica. Quindi, non me la sento di dire che la poesia ‘impegnata’ contenga più verità di altre, ma io sono sempre stata attirata da chi racconta qualcosa del nostro tempo. Forse perché sono fortemente progettuale. Pensiamo a Langston Hughes, con ‘I, too’. Questa poesia è un grido, un’invocazione ed esprime tutta la realtà del razzismo di quegli anni. ‘Anche io sono l’America’: la liricità di un verso è la perfetta sintesi del dolore di una società intera.
Ancien Régime
La poesia è rivoluzione,
scriveva Amiri Baraka,
e rivoluzionario è chi maledice le disuguaglianze
dalla strada.
Il rap è stato rivoluzionario, all’inizio,
la trap per dieci secondi, nell’idea,
i Beat per una ventina d’anni,
il jazz finché è stato nero.
La poesia italiana la sua rivoluzione
la esprime nella rima baciata
o in parole tipo lugubre, teschio, cimiteriale.
I Classici, dice.
La Conservazione, intende.
“Ancien Régime”, nel chiudere la raccolta, ci riporta in modo definitivo alla tua lucidità di pensiero, alla franchezza della tua persona che si traduce in versi ironici e sferzanti, al disincanto della tua visione. Del ruolo del/della poeta abbiamo già detto prima, perciò ti domando:
c’è ancora una rivoluzione possibile? Per arrivare a cosa?
Equivale a rispondere alla domanda: usciremo da questo stato di rassegnazione che, citando Giuseppe Micheli, da specifica è ormai diventata aspecifica(2)? Ho paura a rispondere. Le rivoluzioni che ci hanno preceduto partivano da situazioni differenti, mentre a noi è stato detto che avevamo già tutto, che la battaglia dei diritti era già stata combattuta e vinta e ora sembriamo aver interiorizzato il declino e tendiamo ormai a fare senza le istituzioni, a distanziarci dalla politica. Ilvio Diamanti dice che in sostanza «decliniamo senza crederci davvero; e senza preoccuparcene troppo». (3) Ma io ora mi sto chiedendo, invece, se non abbiamo sottovalutato l’individualismo, che è il risultato di una società di esasperato capitalismo: le rivoluzioni non nascono anche quando c’è un noi? Tendiamo a preoccuparci dei diritti solo quando ci riguardano, ci rivolgiamo a un sindacato quando rischiamo di perdere il nostro posto di lavoro, gridiamo alle ingiustizie quando toccano i nostri figli, non quelli degli altri. Eppure, e me ne sono accorta lavorando alla traduzione di ‘Non dire che non è il tuo paese’ di Nnamdi Oguike (Capponi Editore, 2022), non in tutte le società accade lo stesso: in Africa la parola comunità – parenti, vicini, acquisiti, quartiere – rimbomba. Una comunità che può essere, certo, anche oppressiva e schiacciare l’individuo, ma si pre-occupa dei propri componenti e se ne prende cura. Abbiamo ancora sottovalutato il ruolo della cultura, nel senso antropologico del termine.
___________________
(1) Levi, Pasteur, Chiralità. La vita è asimmetria?, ed. Gattomerlino, 2013
(2) MICHELI A. G., Come spiegare l’inazione delle nuove generazioni. Derive biografiche e condizionamenti generazionali, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1/2013, il Mulino, pp. 89-90.
(3) DIAMANTI I., in DEAGLIO M., DIAMANTI I., et al., L’Italia è in declino, in «Rassegna Italiana di Sociologia», il Mulino, 3/2005, pp. 529-532
Elisa Audino, cuneese, ha un lavoro ordinario e una laurea in Comunicazione Interculturale. Ha attraversato femminismo e giornalismo locale, organizzato eventi politico-culturali in un paesino microscopico e fatto parte del Collettivo Poetico pinerolese. Ha pubblicato la raccolta poetica Io qui ci vivo (Gattomerlino/Superstripes, 2021), il romanzo Orata in offerta (Capponi editore, 2022), tradotto Do Not Say It’s Not Your Country di Nnamdi Oguike, autore nigeriano (Non dire che non è il tuo paese, Capponi editore, ottobre 2022). Collabora con la rivista culturale L’EstroVerso, per cui ha tradotto Lola Shoneyin e Dami Ajayi, e NiedernGasse, per cui ha tradotto Logan February, Dami Ajayi e William Wall. Vive in montagna per scelta e fugge in città per necessità.
Cosa c’e` di poetico nel silenzio ? Cosa c’e` di poetico nel fatto che questa intervista , trabordante di contenuti suggestivi , meritevoli ognuno di lunghe discussioni, non abbia ricevuto commenti ? (o forse sono io, che , avendo saputo dell’esistenza di Fanzine solo da 2 giorni, non riesco a vederli, complice anche la mia scarsa abilita` tecnologica?). Forse e` eccessiva l’abbondanza di spunti interessanti qui offerta, uno non sa da dove cominciare. Ci provo, restando limitato al primo tema, quello del silenzio del poeta, in bilico fra umilta` e snobismo, trovando qualche volta una soluzione nell’accidia, qualche altra volta nell’autoincensarsi come non opportunista. Provo a rispondere con una provocazione, vi prego di prenderla come tale , non troppo sul serio.
Il vero artista e` il poeta che non scrive, il pittore che non dipinge, lo scultore che non scolpisce, il musicista che non compone ne` esegue, il cantante che resta muto: tanto sublime e` la sua sensibilita` per la propria arte che si rende conto dell’imperfezione sempre presente nella creativita`, nel passaggio da ispirazione a realizzazione.