Me paro la madona, poesie di Loredana Bogliun, con introduzione di M. Sambi

Me paro la madona, poesie di Loredana Bogliun, con introduzione a cura di Mauro Sambi.

   

   

Figura per molti aspetti iconica della Comunità Nazionale Italiana di Croazia e Slovenia, Loredana Bogliun scrive nell’antico e ormai quasi del tutto scomparso dialetto istroromanzo, arcaico idioma istriano autoctono preesistente all’istroveneto, nella sua variante di Dignano d’Istria, borgo a pochi chilometri da Pola, nell’attuale Croazia. Degli aspetti di tale iconicità il più essenziale e perenne è il fatto di essere una delle voci poetiche più alte che la piccola comunità, sopravvissuta all’esodo della maggior parte della popolazione italofona in seguito agli eventi seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, abbia espresso in circa settant’anni, ben al di là dei suoi confini geografici e per così dire esistenziali.
I suoi libri editi (Ma∫ere, La Peicia e Soun la poiana, ora riuniti in Graspi, EDIT, Fiume, 2013) si fregiano delle prefazioni/postfazioni di Franco Loi, Andrea Zanzotto, Tonko Maroević, Fulvio Tomizza, che ne hanno colto fin dall’inizio tutto lo spessore non solo poetico, ma anche implicitamente politico, in anni in cui, per gli italiani d’oltreconfine, parafrasando un luogo celebre di Rilke, cantare era esistere.
Bogliun, con un inflessibile impegno di scavo nelle profondità della lingua, ha saputo dotarsi di uno strumento di grande ma solo apparente semplicità e di stupenda forza espressiva, in cui perfino i limiti dovuti alla povertà del lessico sono volti in punti di forza, secondo principi variazionali propriamente musicali, che contribuiscono a fare di ogni singolo testo un nodo di un ipertesto di natura frattale. Tratto distintivo di tutta la sua poesia è la capacità di illuminare e far parlare e vibrare e rendere risonante un silenzio luminoso, irradiante, conquistato a caro prezzo, per sottrazione, da cui sembra erompere un moto complesso e armonico e soprattutto sincronico, fatto di più cose offerte alla coscienza contemporaneamente.
“Ci sono su questa terra momenti / di alberi senza foglie / che si espandono // si regalano / a quello che non si può dire con la parola. // dentro c’è la luce che mi fa bella.” (Il mandorlo)
Come ogni vero poeta, Bogliun sa che ciò che possono trattenere le parole è poco ed è altro rispetto al molto della vita, al molto anche del dolore – sa che la salvezza che la parola può offrire è una salvezza umile, povera e precaria, ma sa anche che questa salvezza è incommensurabilmente di più del nulla, di più dell’essere inghiottiti del tutto dal silenzio e dal buio senza traccia e senza resto. Bogliun questo evita alla sua gente provata dal fuoco e dalla cenere della storia. M.S.

    

Loredana Bogliun (Pola,1955). Scrive poesie in dialetto dignanese, antico idioma istroromanzo di Dignano d’Istria. Dedicatasi ben presto alla traduzione letteraria, pluripremiata al Premio Istria Nobilissima, è stata redattrice della rivista culturale la battana (EDIT). Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue e compaiono in antologie e riviste letterarie. Ha pubblicato Poesie, Impegno 80, Mazara del Vallo 1988; Ma∫ere-Gromače-Muri a secco, Book-EDIT-Durieux, Bologna-Fiume-Zagabria 1993, La peicia, Hefti, Milano 1997; La trasparenza – cinque poesie cinque incisioni, edizione artistica con Giorgio Celiberti, Hefti, Milano 1997; Soun la poiana, Lietocolle, Faloppio 2000 (Premio San Benedetto del Tronto); Graspi/Grappoli, EDIT, Fiume 2013. Franco Brevini ha incluso suoi testi nell’antologia Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo (Einaudi, Torino 1990). Christian Eccher ha dedicato alla sua poesia il capitolo L’istrioto come lingua assoluta di poesia nel libro La letteratura degli italiani d’Istria e di Fiume, EDIT, Fiume 2012.

*

Me paro la madona

Co le ca∫e se di∫gourba a peian a peian
mei se ch’a piura douto Dignan.
Ancui ghe vidi sulo la ruveina
i se ch’a mai el turnarò quil de preima.
Oun amur co fineisso lassa sempro
sta disperassion ch’a ∫langueisso

e la nustra tera ∫i douta drento la ma∫era,
al furmentòn impiantà cumo omini de pana
cu la radeiga soia, al cavel ingarissà

a ∫i me paro ch’a favela, la me tera
imbastardeida s’ciavunei∫ada

∫i la me campagna ingraiada

me paro scanteina, el se iò fato vidurno

al cavo par aria, se pou∫a cumo calado
in sirca d’al nouvolo ch’a vignarò ∫brombolando

virdo e ∫alo in tra le veide
el so cameinà iò impinei la buto.

Me paro la madona.
Parchì no ∫i viro ch’a sulo
le fimene iò lagrema santa

*

Mio padre la madonna

Quando le case si sfasciano a piano a piano / io so che piange tutto Dignano / Oggi ne vedo solo la rovina / so che mai tornerà quello di prima. / Un amore quando finisce lascia sempre / questa disperazione che langue // e la nostra terra è tutta dentro il muricciolo di campagna, / il frumento piantato come uomini di pannocchia / con la radice propria, il capello sgualcito // è mio padre che parla, la mia terra / imbastardita, fatta schiavona // è la mia campagna cespugliosa // mio padre traballa, si è fatto incolto // il capo per aria, si posa come afflosciato / in cerca della nuvola che arriverà rotolando // verde e giallo tra i vitigni / il suo passo ha riempito la botte. // Mio padre la madonna. / Perché non è vero che solo / le femmine hanno lacrima santa

***

La poupa

Oun vistitein de merlo
sti oci selesti, po∫ada cumo pena reivada
la me poupa me guanta
par quil sulo rispeir ch’a cugnussi stagno

ouna drissa de louganighe cumo ∫ornade
inguantade d’al distein de sti oci boni.

Ingroumerein ∫alo al furmentòn a grain
par la me peicia brava.
∫i favela quista ch’a nasso
seita in tala pansa de la maro,
ouna fadeiga ch’a crisso drento
in tala louss cha reiva d’al scour

∫alo al culur de l’oro
∫alo de furmentòn
e de poulenta calda

i passarè cumo piouma in tai fondai de maraveie
e sta me poupa scumpareida la se farò de∫egno

*

La bambola

Un vestitino di merletti / questi occhi celesti, appoggiata come appena arrivata / la mia bambola mi prende / per quel solo respiro che riconosco vero // una treccia di luganighe come giorni / fermati dal destino di questi occhi buoni. // Raccoglieremo giallo il granoturco a chicchi / per la mia piccola brava. / Parola questa che nasce / zitta nella pancia della madre, / una fatica che cresce dentro / nella luce che arriva dal buio // giallo il colore dell’oro / giallo di granoturco / e di polenta calda // passerò come piuma nei fondali delle meraviglie / e questa mia bambola scomparsa si farà dipinto

***

amur

co i te stren∫i de dona
al vudio se impineisso in tal’aria
seita la favela ardo in tala carno,
cumo brama brou∫ada
la vouia ∫i de issi s’cita.

Coussei nouda
gnente me se taca ∫ura,
no lassa signo al suspeir
de sto sussour ch’a se banduna

e douto me caio e me se inguanta
la trasparensa me par ch’a ∫vula.

Ciapime douta, mouvimento de l’anema.
Missiade in tala scudela feile de grain
parchì ∫uta al siel in tra le fuie stusseiga
∫i l’umbrì ch’a de la louss la lassa al signo

e là drento
cu tei me magni
i sarè cun tei al ba∫ito de la neina nana

*

amore

quando ti stringo da donna / il vuoto si riempie nell’aria / zitta la parola arde nella carne, / come ardore bruciato / la voglia è di essere pulita. // Così nuda / niente mi si attacca sopra, / non lascia segno il sospiro / di questo sussurro che si abbandona // e tutto mi cade e mi si attacca, / la trasparenza mi sembra che voli. // Prendimi tutta, movimento dell’anima. / Mischiate nella ciotola file di grani / parchè sotto il cielo tra le foglie stuzzica / è l’ombra che della luce lascia il segno // e là dentro / quando mi mangi / sarò con te il bacio della ninna nanna

***

omo

col te iò veisto in fasse
el te iò deito omo

coussei a sto me paro
ghe tremava la ganassa

mei te portarè in tal’anema soia
piena de furcai ∫uta al sul de fogo

feio meio tinaro cumo lou

par teio, meio altro omo, vistirein la louna
(cunsiensa nustra de fate cu la criansa)

*

uomo

quando ti ha visto in fasce / ti disse uomo // così a questo mio padre / gli tremava la guancia // io ti porterò nell’anima sua / piena di forcate sotto il sole di fuoco // figlio mio tenero come lui // per te, mio altro uomo, vestiremo la luna // (coscienza nostra di farti con la creanza)

***

Veneranda

∫uta al porton sulegna, ouna carega
cu le ragnadele in fra le gambe.
Cumo par imbroio seina capeighe qualco
∫i morta Veneranda, cu gnente afan. A peian.

A ∫e gila ch’a de istà la ∫iva par ciuche
e la viva l’ocio dananti e l’ocio de dreio
e ∫uta la soca oun’altra soca,
la careità in tale man mai firme.

Teirada la stava cumo leigada
sentada in tel’aria a rento la ca∫a,
dananti iera al mondo e drento la prighiera.

Oh siel cun sta louna ch’a varda Veneranda!

*

Veneranda

Sotto il portone solitaria, una sedia / con le ragnatele tra le gambe. / Come per imbroglio senza capirci qualcosa / è morta Veneranda, senza affanno. Piano. // È lei che d’estate andava a cercare le chiocciole / e aveva l’occhio davanti e l’occhio dietro / e sotto la gonna un’altra gonna, / la carità nelle mani mai ferme. // Stava tesa come legata / seduta nell’aria vicino a casa / davanti c’era il mondo e dentro la preghiera. // Oh cielo con questa luna che guarda Veneranda!

***

Soun a ∫regna

Cumo ch’a passa la staion
reiva oun’altra staion:
fuie ch’a invulteissa l’aria
in tal bandon de sto inverno straco.
Vignarò anca la boura,
suspeir li∫ier de la me Eistria
ch’a ta∫o soun in tale piere de ∫regna,
∫i al carsulein ma ∫ura d’ai monti
a varò da crissi ouna madona binideita.
La ∫ento se specia e guanta refolade,
feil de ierba ch’a no se rompo,
ouna fadeiga sula in tal seilensio
de la campagna. La veita.

*

Su a Sdregna

Come passa la stagione / arriva un’altra stagione: / foglie che attorcigliano l’aria / nell’abbandono di questo inverno stanco. / Verrà anche la bora, / sospiro leggero della mia Istria / che tace lassù tra le pietre di Sdregna, / dove c’è il carso ma sui monti / dovrà crescere una madonna benedetta. / La gente si specchia e si becca i refoli, / filo d’erba che non si rompe, / una fatica sola nel silenzio / della campagna. La vita.

***

La musca, mei, le mandule e le feighe

In tal buri∫ein de preimavira
a ven fura la preima musca
virgina e ∫à fata
Intreigu∫a, salvadeiga e magnamerda

Chei vuravo dei
ch’a la ∫i fasteidiu∫a
nigra cumo la fan
e odiu∫a parchì la spurca

Sula e indanada cumo gila
me ∫langueisso al stumigo
co sto ∫gourlo me ma∫inia aturno
Stoufa anca de gila
i ghe sussouri e la me intendo
de quila ∫magna ch’a i porti drento

Gnochi, fiuchi, mandule e feighe
a pol curo sionire
Mei i cugnussarè sempro
quil ∫beiro dreio ‘l viro
vula ch’a douto se vido
e gnente se ciapa

Scavassando anca la fiaca
i iè scumensià sto discurso
cun quila musca ch’a ∫bou∫a l’aria
co la geira in tondo

*

La mosca, io, le mandorle e i fichi

Nella brezza di primavera / viene fuori la prima mosca / vergine e già fatta / Scocciante, selvatica e mangiamerda // C’è chi vorrebbe dire / che è fastidiosa / nera come la fame / e odiosa perché sporca // Sola e infuriata come lei / mi langue lo stomaco / quando quella citrulla mi gira intorno / Stufa anche di lei / le sussurro e lei intende / di quel tormento che porto dentro // Gnocchi, fiocchi, mandorle e fichi / possono infuriare temporali / Io conoscerò sempre / quella furbastra dietro al vetro / dove tutto si vede / e nulla si afferra // Frantumando anche la fiacca / ho incominciato questo discorso / con quella mosca che buca l’aria / quando gira in tondo

***

Loredana Bogliun, poesie in dialetto dignanese (da Graspi/Grappoli, Fiume 2013)

               

Frida Kahlo Autoritratto con scimmia 1940 - in apertura La mia nascita 1932
Frida Kahlo Autoritratto con scimmia 1940 – in apertura La mia nascita 1932

5 thoughts on “Me paro la madona, poesie di Loredana Bogliun, con introduzione di M. Sambi”

  1. Davvero una bellissima poesia. Continuo a pensare che la migliore poesia italiana di oggi non sia scritta in italiano.

  2. Leggere queste poesie anche in un dialetto a molti sconosciuto o tradotte in altra lingua fanno capire l’amore e il legame della sua terra che Loredana ha per luoghi e ricordi.della sua Gioventù

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