Giovanni Mogentale: viaggio alla ricerca delle radici e del passato, di Silvia Secco

Giovanni Mogentale: viaggio alla ricerca delle radici e del passato, di Silvia Secco.

  

   

Ho iniziato a cercare di te poco dopo che Paola se n’era andata. Ti avevo già, ma eri uno dei tanti, in fila fra quelli da leggere. Vento Dell’Orsa, nell’edizione del 1976 è un quadernino color bruno, col titolo e uno dei tuoi nomi: Nivan Gelamonte. Dalle mani di tua sorella Elvira alle mie, allo scaffale. Non ero ancora nata nel 1976. Non sapevo fossi tu. Non avevo capito.
Poi Paola se n’è andata. Qualcuno mi aveva detto che era malata. Non sapevo, malà de morte (1). Non avevo capito. Non l’ho salutata. La sua ultima voce è rimasta quella di una mattina presto, nell’allora mio terrazzino bolognese. Era uscita a riannodarsi i capelli in quella sua treccia indissolubile, dopo la notte che lei ed Enio avevano passato da me. Guardava verso San Luca. Io preparavo il caffé e lei si stupiva fosse già primavera. Era di Aprile, tempo fa.

Primavera! E’ nell’aria.
E’ venuta a piè leggero
lungo gli argini ed i fossi,
ha sorriso ai bucaneve,
si è fermata sul sentiero.
Verde gonna, petto bianco,
un sorriso di viole
nei suoi occhi di zaffiro
ed un tepor di sole
e una freschezza
di respiro! 

L’han sognata il pesco e il pero;
i  glicini in loro cuna
la volevan trattenere,
la volevano cullare
nelle notti senza luna
in un lembo di corolle. 

E’ venuta sugli ormeggi
col suo piede d’alabastro:
frulli d’ali e gorgheggi.
L’aria oliva
di mentastro. 

devo andare, devo andare!”
-sorrideva la gentile.-
Già sull’Alpe scioglie le acque
e ride Aprile. 

La vedeste voi passare
verdi crespi di arboscelli,
fra un garrir di capinere
 e di fringuelli?”

(Giovanni Mogentale, Primavera, nella forma ritrovata al Fondo Cecchi, 1965)

Poi se ne è andata. L’ho saputo da un post, che se n’era andata.
Non riuscivo a capire. Non l’avevo salutata.
Era il pomeriggio della fine di Ottobre. Due anni da qui.

Misericordiae Domini quia non sumus
consumpti” (Geremia)

Perdona a noi, o Dio,
l’avventura umana.
Ombra per breve tempo fugge
sulla crosta terrestre
e la insegue il tempo vorace.
Scompare l’effimera larva
e gli eterei silenzi guardano:
l’uomo non lascia traccia.

Rughe invisibili
dagl’infiniti spazi
sono i monti altissimi,
che lente le acque livellano:
e non lasciano segno.
Passa lo sconfinato volo
dei mondi; breve respiro
dell’eternità. 

Perdona, o Dio, l’avventura umana,
quando alla terra
lascia ciascuno
la sua maschera cerea,
e con piede immobile,
solo, si avvia
all’ultimo viaggio.”

(Giovanni Mogentale, Due Novembre)

Ho ripreso a scrivere qualche ora dopo il suo funerale. Ho accompagnato Martina a San Nazzario e l’ho aspettata a bordo fiume, mentre finiva il lavoro al cantiere. Ho scritto per Paola, per capire.
Per Enio, per piangere, per non sentire il fragore del traffico in Valsugana ma solo quello d’acqua, che lì dirompe e scassa e fragra; per ricordarmi la sua voce e la sua risata.
Me le ricordo: se mi concentro riesco a sentirle.
Ho ripreso a scrivere perchè se scrivo ricordo chi sono. Certe volte me ne sono scordata. Anche a lungo, anche per degli anni.

Quietami i pensieri e le mani e in questa veglia pacificami il cuore”
C.S.I. “Fuochi nella notte” da “In quiete”, 1994. 

S’ingola il nodo dei pensieri
nel fragore insulso della strada
e del ricordo di lei, non più viva:
il timbro della voce
la terra prima calda
intreccio d’argilla ed argine per te.
Tempo di lei, che si stupiva
Senti? E’ già primavera qui!” 

Qui gela invece ora, e spolvera
grigio il tempo sui capelli e sbianca
il volto e ti sfianca il corpo minimo
nell’inutile viavai
che ormai non vale a niente,
assente lei. Il tempo che l’hai perduta,
il mio mancato addio e il tuo dolore,
lo spazio in cui non sono stata. 

Potessi dilatare il tempo
che mi stringi alla vita le mani…
liquida anch’io, avessi invece parole
per te, ferma sostanza,
capacità degli arti
da alleviarti almeno il peso del giorno
quietarti all’andare delle cose
saper pacificarti il cuore.”

(Silvia Secco, Così vanno le cose)

Penso tu sia venuto a cercarmi lì, a San Nazzario, nel fragore d’acqua, mentre mi ricordavo chi sono e la risata di Paola e le mani di Enio e i suoi occhiali e tutto quello che avevo scritto prima: i miei vuotidaria riempiti di versi, la mia curvatura dell’Orsa.
Sei venuto a cercarmi per mostrarmi l’assonanza fra le tue stelle e le mie. A dirmi di cercare lì, che lì ti avrei trovato.

E’ un vuoto immemore di luna
sui nostri passi attutiti in arenile
sui massi frangiflutti oltre la linea
d’increspatura, a riva. 

Offuscata/ventilinea curvatura dell’Orsa
sui capi di una corsa a lato mare.
Ci si tiene per mano così…
Per non disperdere un fuoco d’accendino. 

Sussurrati, sospirati pensieri
d’altre partenze come sabbia sollevata,
alati pensieri in una folata, velieri…
Agli opposti emisferi, come sarà?” 

E’ disfatta alle spalle una distesa di giorni,
una spiaggia inesauribile di cocci, di grani.
Ci si porta fino al nero liquido limine.
Si dice Finisterre ogni luogo di maree.”

(Silvia Secco, Finisterre)

Vento dell’Orsa (1976, Ghiorzo Edizioni, Sestri Levante) é un rebus.
L’autore dei tuoi versi è l’anagramma del tuo nome. Uno dei tuoi pseudonimi, uno dei tuoi vari: Giovanni Mogentale, Professor Giovanni Battista Mogentale, Nivan Gelamonte, Letangemo… Eri, per me, un camioncino giallo di plastica che avevi fatto avere a mia madre tramite Elvira, perchè me lo consegnasse quando ero bambina: non mi avevi mai visto. Non sapevi. Non avevi capito fossi femmina. Sei sempre stato questo: lo zio di mia madre, che vive lontano; un camioncino giallo; un vaso indiano sul tavolino del salotto, che le hai fatto avere di ritorno da uno dei tuoi viaggi. Non credo ci siamo mai visti. Non ne ho ricordo. Poi sei stato la fotografia di te anziano, scuro, su una lapide. Uno che riposa in pace nella tomba di famiglia. Ti ha voluto Elvira, lì: suo fratello,  *26/11/1910, +30/06/1990, tornato a casa.
Fino all’Orsa, sei stato questo. Fino a che non ho capito.

Lenta l’armonia dei grilli
tenta i cieli opachi.”

(Giovanni Mogentale, Notte estiva)

Erano i giorni del tuo compleanno: un secolo intero nel quale eri nato, vissuto, morto, dimenticato, tornato a tentarmi di trovarti. Così ho pensato alle coincidenze di date: il mio compleanno ed il tuo, le stelle dell’Orsa ed il Sagittario. Ho preso a cercarti dal tuo nome. E dal tuo terrore: l’essere dimenticato/ perduto/ morire/ finire/ esaurirsi.

Corri corri sempre
con sì gran fretta
piccolo, inquieto
verme terrestre.
Sul tuo capo nessun ti conosce
sotto i tuoi piedi
non ti conosce nessuno;
intorno a te
sei quasi sconosciuto.
Sarai presto dimenticato.
Dove scendi
non sarai nessuno.”

Nivan Gelamonte (o Giovanni Mogentale) 1910-1990

Giovanni Battista Mogentale, fratello di Elvira, madre di mia madre, sei nato a Dueville in provincia di Vicenza, a pochi chilometri da dove sono nata io, il 26 Novembre del 1910: un giorno dopo me, 68 anni prima. Siamo contadini, mani grosse, ossa di maiale, piedi scalzi sui campi e sul pavimento. Ma tu vuoi studiare. Non solo le elementari. Sei bravo, oscuro.

Rabbrividisce
la sera
lungo la siepe del fiume,
e sale la nebbia
dal pelo delle acque.
Sulla scia
l’olea fragrans
lascia cadere i suoi fiori.
E’ il più dolce e il più triste
profumo che ci sia,
oh mia breve estate,
e tu muori;
l’afrore della tua agonia.”

(Giovanni Mogentale, Oh mia breve estate)

A dieci anni entri in seminario. A diciassette vesti l’abito. Lo svesti l’anno dopo, quando te ne vai.
Non ci sono fotografie di te bambino. Non ce ne sono di te ragazzo. Elvira dice che le hanno bruciate quando ti sei svestito: era un’onta. Bisognava tacere, dimenticare.
Ma tu scrivi. E ciò che è scritto resta, non tace, ricorda, si fa eredità.

Acque sorgive, che chiare lasciate
le ghiaie del fondo,
piegando le selvette dei crescioni!
Non tornerò più
tra i filari rossi dei salci
 e il rullio dei carri,
che lenti vanno ai maggesi. 

Son risalito pel greto
del torrente, che grande all’infanzia
apriva una via misteriosa,
ma tu, Silvana,
vergine agreste, non c’eri.
Sono rimasti i sassi nerastri,
tracce d’un tempo,
spoglie disperse
di non so quale antico delubro
e un filo d’argento
che scivola lieve
fra limpidi specchi
e gemine ombre
chiuse come penetrali. 

Tagliano ora la quarta volta
i maggesi laggiù;
ampio passa il respiro della sera
e vi è aroma
di fieni appena falciati
e odor di granturco in fiore. 

Torna a primavera laggiù,
fiore di madresilva,
cogli un grembo di viole sul borro,
quelle che olezzano
al soffio di Marzo,
che ancor si trastulla laggiù
sull’erba nuova con l’ultima,
lacera foglia rimossa.
Oh mia plaga,
che or sotto le ruspe scompari!”

(Acque sorgive, da Canti di terra e di mare, 1954)

Ti laurei a Padova; lettere e filosofia. Probabilmente poco prima della Libia, poco prima di Kufra. Ci va anche lo sposo di Elvira, a combattere in Libia, Bruno: padre di mia madre. Forse vi incontrate, vi parlate.
Insegni. Sei un professore: italiano, lettere. Elvira non ricorda: vivevi a casa? Altrove? Avevi un amore? Chi era Silvana?
Poi c’è la guerra.

Primavera di guerra 1944
Noi che tinnemmo il mondo di sanguigno”(Dante)

Non so che divinità nuove
hanno aperto sul colle
sognanti pupille
ne la chiarità mattinale.
Salgono al sole
nei candidi pepli
dei ciliegi in fiore.
Per l’ampia terra
infinite pupille si aprono,
umane, ma son di sangue intrise,
e di lutto.
Va per la notte l’ombra di Caino,
erra sui ruderi
delle industri opre dei padri. 

Il mattutino risveglio
desta brusii di candidi sciami
fra voi, o divinità della terra,
tendenti al sole.
Oh addormirsi di oblio
in questo errar sanguigno
sotto le ali vostre
d’infiniti occhi pietose!
Transumanare in forme virenti,
in lontane stagioni,
da questa ferocia umana
che sanguina,
alla vostra obliosa pace.

(Giovanni Mogentale, L’obliosa pace, nella forma del manoscritto inviato a Emilio Cecchi, 1965)

Prendi parte alla resistenza: lo testimonierà anche A.Capasso, nella prefazione ai “Canti di mare e di terra” del 1959.

Trasse qualcosa dall’involto;
gli porsi il braccio.
M’ero appena svegliato,
nel mio letto,
reduce dalla Balcania.
-Falle tutte endovenose,
-mi disse- e vieni,
quando puoi, t’aspettiamo-. 

L’hanno impiccato all’alba,
pende da un platano
lungo la via.
Il padre a Mathausen,
la giovane madre
uno spettro disfatto.
Non era che un ragazzo.
Ho chiuso sul suo tavolo
un libro: dispense di medicina.
-Lo preleviamo stanotte,
avrà sepoltura in montagna-.”

(“Libro chiuso”, testo non edito, ritrovato nel manoscritto inviato da N.G. A Emilio Cecchi nel 1965, presso il fondo Cecchi all’archivio Vieisseux a Firenze)

La prima pubblicazione in ordine di tempo, di cui ho trovato traccia sin’ora è un articolo uscito sul quotidiano socialista “L’Umanità”, il 20 Novembre 1948, intitolato “Il Socialismo di Pascoli” (ora presente presso l’archivio di stato di Lucca e, nella versione originale, presso l’archivio Pascoli a Barga).
Il 4 Febbraio1950 la Scuola tipografica Istituto San Gaetano, Vicenza, dà alla stampa con lo pseudonimo di Ciro Gelamonte, la tua prima edizione della raccolta poetica “Canti di mare e di terra”.
La inizi così, come con una dedica:

-Raccogli, mi disser le Muse,
i canti di mare e di terra
e gl’inni di pace e di guerra;
Calliope li vuole cantare.-” 

Non ci sono prefazioni, introduzioni. Entri diritto, con i versi: quattro novenari, rima baciata in secondo e terzo verso, terra/guerra. Li ho raccolti anch’io. Li ho trovati là da dove entrambi siamo partiti: Vicenza. Riposavano alla Biblioteca Bertoliana. Sono trentuno pagine, quattordici poesie.

Cavalcata notturna
Voce dei campi
Lente sulla palude trasmigrano le ore
Sentieri di foglie morte
Attesa
Laggiù, oltre la querula baia
Il messia
Elevazione
Excelsior
Primavera
Idillio primaverile
Lo scoglio
la carica

Qualcuna me la farai incontrare ancora, riedita con diverse correzioni e rivisitazioni dei contenuti e delle forme. Per tutta la vita rivedrai e correggerai i tuoi testi.
Nel 1952 pubblichi con la Radar edizioni di Padova un manuale didattico: “Sul limitare, guida per la preparazione all’esame di ammissione alle scuole medie”. Questa volta usi il tuo nome: Giovanni Mogentale.
Il 1954 segna ufficialmente il tuo trasferimento di residenza da Vicenza a Genova, in data 20 Dicembre. Ci resterai fino al 18 Gennaio 1965, data nella quale ti trasferisci a Sanremo. Fai l’insegnante. Sei celibe.
Probabilmente è a questo punto che il mare entra nella tua poesia e nella tua storia. Meno terra, oltre mare.
Nel 1960 l’editore C. Zibetti, Milano, pubblica “Sport Sub, manuale pratico”.
Il 12 Novembre 1965 scrivi una lettera di presentazione ed un manoscritto al critico Emilio Cecchi. L’ho ritrovata al fondo Cecchi lo scorso anno, presso l’Archivio Vieisseux di Firenze. Lì ho incontrato la tua grafia: un segno allungato, elegante, minuto, esasperato in altezza, protendente.

[1] Illustrissimo e Chiarissimo Emilio Cecchi, da molti anni lei rappresenta quanto di più profondo e serio ha la nostra critica, quella ancora solidamente ancorata ai valori e temi dello spirito, e quindi della letteratura e della poesia, dinanzi al tanto naufragio e al tanto vuoto spirituale. Io non ho mai avuto la fortuna di conoscerla personalmente, ma mi rivolgo a lei, chiedendole, ugualmente e con una certa tranquilla fiducia, che dedichi un pochino di un suo ritaglio di tempo ad un libriccino di liriche di prossima pubblicazione, del quale le ho inviato, separatamente, il manoscritto in data odierna. Sono uscite in gran parte in riviste e in antologie scolastiche; ora le vorrei raccogliere, anche per consiglio e insistenza di amici e persone che si dicono amanti della poesia. L’editore mi dice: “perchè non si procura due righe del notissimo critico Cecchi? Non volendo e non cercando lei il nuovo per il nuovo ad ogni costo, ma avendo piuttosto una buona derivazione, due parole di Cecchi ci sarebbero preziose”. Alcuni letterati e critici hanno, anni or sono, dato un’impressione, un giudizio.
Il Galetti trova pregi d’arte “rari in questi tempi”; al Bargellini piacque specialmente la parte descrittiva; Aldo Capasso tentò una fondamentale recensione; Dino Provenzal lodò la “sincera aspirazione e l’elegante potenza” (bontà tutta sua); ma il grande Cecchi? Ecco l’enigma. Se dunque troverà un po’ di ritaglio di tempo fra i suoi impegni, certamente ben più degni e interessanti e utili, da dedicarci apprezzeremo anche la sua squisita gentilezza. Nel caso non potesse o non si sentisse, faccia pur conto, sul restituirci il manoscritto, di non aver ricevuto nulla. Continueremo a stimarla ed a volerle bene ugualmente. Ecco il mio indirizzo: Prof. Giovanni Mogentale, via Serenella 19, Sanremo, Imperia.
Gradisca il nostro più vivo ringraziamento.”

Lente sulla palude trasmigrano le ore
Le vele
La piena
Primavera
Cavalcata notturna
Acque sorgive
L’obliosa pace
Libro chiuso
Gufo selvaggio
I silenzi delle vette
Sentieri di foglie morte
Tu vieni, Autunno
Due Novembre

Musa vagabonda:

Gusci di chiocciole
Pioggia di Aprile
Lucciola
Notte estiva
Oh mia breve Estate
Canto di gondoliere
Attesa
Piove a Cortina
Marea di Ottobre
Cade una foglia
Oltre e sempre andare
Nessuno
Per Sempre
Oh non odiate!
La montagna maledetta
Sogno

Nel 1966 componi un soggetto per il cinema intitolato “L’anno di Kufra” (10 carte dattiloscritte, ora presenti presso l’archivio cinematografico di Cesena) e lo invii al regista Antonio Pietrangeli, il quale muore improvvisamente due anni dopo, il 12 Luglio 1968, annegando durante le riprese del suo “Come, quando, perchè”.
Dal 11 Ottobre 1968 sei a Cairo Montenotte (SV): il paese dove fino alla morte risiederà anche Aldo Capasso. L’ho scoperto, Capasso, grazie a te. Nonostante la signora Morand, sua moglie, non lo ricordi, penso ancora che vi siate frequentati. Tra il 27 Gennaio 1970 ed il 29 Ottobre 1971 vivi a Ventimiglia, per poi spostarti a Sestri Levante, nella casa di Via Antica Romana Occidentale al civico 177, dove rimarrai fino alla morte, avvenuta all’ospedale di Lavagna, il 30 Giugno 1990.
Avevo 12 anni allora. Non ho ricordo della tua morte. Non sapevo.
Sei morto al principio d’Estate, ma tu sei un poeta invernale. Siamo nati a Novembre noi due; abbiamo nebbie e nevi, le prime gelate, la terra nera, rivolta, dei campi, la brina del mattino che disfa i lembi. Nei tuoi nomi ci sono luoghi,  nevai, vastità di montagne, viandanze, vanità delle forme.
Quando muori non lasci eredi. Tutti i tuoi beni sono donati ad un ente di beneficenza. L’hai deciso tu, nel pieno possesso delle tue facoltà, molto prima. Avrai sorriso, sono certa, mentre veniva letto il tuo testamento: stizziti e delusi, i volti attoniti e affranti, a cui certamente non sei mai mancato. L’ho ritrovato, il tuo testamento autografo, poco tempo fa. Mi aspettava, probabilmente, e per uno di quei casi -che non esistono- proprio nella città dove vivo: a Bologna, nell’archivio notarile. Ora che ti ho trovato e so, ti capisco. Compatisco. E proprio per questo proseguo a cercarti, a scoprirti, trovando in questa assonanza e in questa compassione anche me.

Eri morto, poeta d’inverno.
Nivan-nevischio caduto e perso
al suolo dei benpensanti smemori:
le loro anime e tu, a riposare in pace.
Nivan-letargo. Sepolto da pietre
che tu non hai chiesto. Disciolto il fiato
e il tuo diamante gelido di monte,
diluite le tue parole nella dimenticanza
senza eredi. Spiravi lì. 

Nivan di vento! Ci ha riuniti Novembre:
assonanza ai piedi di un’Orsa,
alata anche lei. Così vicino
il nostro modo di versare il mondo! 

Nivan-nivangolo scuro: divago
a ricerca di te in questo scorso, scordato secolo
lungo quanto l’intera tua storia
e la mia, le lettere che hai battuto,
le strade che hai camminato, i contorni
che hai accarezzato, le lacrime
magari sparse, le carte…
Quelle ormai perdute.
Quelle che ho ritrovato. 

Nivan-vangelo. Gelo che sei. Nivangelo:
custode dei segreti. Chi eri?
Nivan-rimpianto: sempre a un passo
dagli onori. Dall’amore, forse. 

Nivan-viandante anche tu.
Ti limitava il confine, la linea prealpina
che mura il canto così hai scelto il mare, la costa
solo a rilegarne il dorso. Mi vanto a pensarti
nei ritorni, simile a me;
nostalgia della madre, del padre,
assoluta necessità di lontananza.
Nivan-costanza: che a resistere si impara!
A morirne, mai abbastanza. 

Che muoiono, gli uomini, nell’oblio.
Nivan-mio. Parente.
Nel tutto che hai conosciuto
ricerco a ritroso me stessa e trovo te. 

Smarrito il ricordo, non ci sopravvive niente.”

(Silvia Secco, Su Nivan)

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NOTE:

(1). Enio Sartori, La morte dell’Anguana. “-Omo dal cavalo bianco/ dighe a la Tita Tata/ che la Tita Tela/ xe malà de morte./ -Onde ela ‘ndà la tita tata?/ -La xe a la fontana/ a far la lissia/ a strissar la lana./ Riva a la fontana/ l’omo dal cavalo bianco/ -Curi curi Tita Tata/ che la Tita Tela/ xe malà de morte./ De boto se desfanta/ cussi la Tita Tata/ drentro a la fontana/ scantona par na sanca/ ….riva in val de l’anguana/ E quasi par incanto/ dal ghebo sale un canto/o forse nenia o pianto./ La Tita Tata varda/ in fondo a la vale vede./ Nel scuro bojo del grebo / sganassa el cavaliere/ a man roersa/ l’aqua bastona/ omo de malagrassia/ e squassa l’onda viva/ e sbrega, e sfassa/ e strassa e cava el fià// Sganassa el becamorto/ omo dal cavalo bianco// Tocà nel so segreto/  sbala la Tita Tela/ sora el spago tirà/ tra la vida e la morte/ pian pian se alontana/ sora un cavalo bianco/ a passo, a passo de morte// Cavalier de mala sorte/ verso el buso dea morte/ cavalca, cavalca e canta”

             

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