Mondo nuovo, racconto di Giovanna Iorio

Mondo nuovo, racconto di Giovanna Iorio.

   

   

Tutto era pronto per la fine del mondo. Tutti avevano scelto dove e con chi trascorrere le ultime ore della loro vita. I ristoranti erano strapieni, la gente voleva morire a tavola, con la famiglia, come se la fine del mondo fosse un gigantesco matrimonio.  “Da Ciro” c’erano quasi trecento persone, tutte alle prese con i piatti speciali del “Menù di finimondo” del grande cuoco partenopeo Ciro  Salvatore.

I tavoli, prenotati con un anno di anticipo,  erano stati apparecchiati con cura e si vedeva la bellissima collina  di Posillipo illuminata a giorno. A mezzanotte in punto il mondo sarebbe finito con un brindisi e i fuochi di artificio. Una poltrona in prima fila era arrivata a costare anche duemila euro. Gli autobus che arrivavano da ogni parte, brillava la scritta rossa: “Vedi Napoli e poi muori!” che non lasciava dubbi sulla destinazione finale.

Michele  non faceva il cameriere. Il suo mestiere era aggiustare le cose, praticamente aggiustava tutto quello che si rompeva. Aveva un dono, toccava le cose rotte e sapeva esattamente quale fosse il problema. Oramai la sua bottega a  Spaccanapoli era vuota.  A nessuno importava di far riparare le cose. Anzi, qualcuno aveva cominciato a romperle di proposito per sfogare la rabbia e nascondere la paura: televisori, radio, computer, cellulari, frigoriferi, microonde, lavatrici. Ma più di tutto: orologi. Li buttavano dalle finestre, dai balconi. Nessuno aggiustava più niente.

Michele conosceva  bene Ciro, il cuoco. Era stato lui a chiedergli di venire a dare una mano, se non aveva altri programmi per la fine del mondo. Dopotutto “Da Ciro” c’era una bella atmosfera e Michele non aveva nessuno con cui passare la sera della fine del mondo.

Sui giornali avevano scritto che la fine del mondo sarebbe arrivata a mezzanotte in punto del 21 dicembre 2012. A Napoli nessuno aveva più  l’orologio per sapere se l’ora fosse vicina, tanto il mondo sarebbe finito lo stesso.

”Da Ciro” in cucina c’era una montagna di piatti sporchi. I camerieri avevano smesso di lavarli e i cuochi  erano talmente stanchi e ubriachi da non reggersi più in piedi. Michele era uno dei pochi ad andare ancora avanti e indietro. In sala e sulla terrazza la gente aveva cominciato a urlare e a piangere. Qualcuno, avvolto nella tovaglia, faceva l’amore sotto il tavolo. I bambini, stanchi morti, dormivano sul pavimento con la bocca aperta e la schiuma alla bocca. I genitori avevano riempito i biberon di sonnifero per risparmiare loro il trauma da fine del mondo e mangiare l’ultima cena in santa pace.

Non sapendo da dove sarebbe arrivata la fine, c’erano quelli che guardavano il cieloe quelli che non distoglievano gli occhi dal mare. I più vecchi si erano fissati con il Vesuvio, convinti  che la fine fosse nascosta nella grossa pancia del vecchio vulcano.

Michele aveva notato che in sala, sul camino spento, c’era un enorme orologio antico: stile impero con le colonne intarsiate e il quadrante di  bronzo dorato. Una volta ne aveva aggiustato uno così; ci aveva impiegato un mese intero. Dentro c’erano tantissimi ingranaggi minuscoli, sensibili alla polvere, capaci di incepparsi per un granello di troppo.

Sulla terrazza avevano cominciato ad applaudire lo spettacolo dei fuochi d’artificio. Una pioggia di colori illuminava il cielo nerissimo. Non si vedeva neppure una stella. Una signora affacciata alla balaustra aveva indossato tutti i gioielli, sembrava la statua della Madonna di Piedigrotta: la mano alzata a benedire la folla. Nelle piazze i più poveri avevano cominciato a ballare la tammuriata e percuotevano tamburi improvvisati sulla carrozzeria delle macchine. Qualcuno aveva provato a scendere per fermarli, ma non era più tornato, sommerso dal mare di gente e dall’onda martellante della fine del mondo.

Michele guardava lo spettacolo. C’era chi aveva cominciato a chiedere con insistenza “Che ora è?”. Nessuno lo sapeva. Michele aveva aggiustato l’ultimo orologio otto mesi prima. Poi la gente aveva cominciato a non voler sapere nè il giorno nè l’ora, e così tutta Napoli piano piano aveva cercato di rimandare la fine del mondo.

Il mondo, comunque, stava per finire, e anche se nessuno poteva dirlo con precisione, mancava  poco.

Ciro era venuto fuori dalla cucina e si era tolto il grembiule. L’aria stanca e soddisfatta. Il suo menù della fine del mondo era stato un tripudio di sapori. Qualcuno gli aveva richiesto un  piatto “speciale” e grazie a un trito profumato di funghi velenosi e cicuta si era addormentato – per sempre – con il sorriso stampato sulla faccia e la mano sul seno della giovane  badante ubriaca.

Ciro vide Michele davanti all’orologio e da lontano gli fece segno, “Quanto manca?”. Michele alzò le spalle, allargò le braccia: “Non funziona!”.

Quelli che non erano addormentati o morti avvelenati, avevano gli occhi sbarrati dal terrore. Un uomo grande come un armadio, che indossava un elegante smoking nero, aveva tirato fuori dalla tasca una pistola carica salutando con un inchino tutti quelli del tavolo. Lo sparo si era confuso ai fuochi d’artificio e poi lo avevano coperto con la tovaglia. Le vecchiette si erano sedute intorno a lui a dire il rosario e l’eterno riposo. Qualcuna con la voce nasale aveva cominciato a intonare Tu scendi dalle stelle, come se fosse anche un po’ Natale.

Da qualche ora i più agili  correvano sul terrazzo e con un salto in lungo si lanciavano di sotto. Mentre cadevano si sentivano le imprecazioni dei passanti infastiditi dalla pioggia di suicidi.

Ciro raggiunse Michele,  prese da un pacchetto una sigaretta per sè e una per l’amico e disse: “Come va?”. Michele  si accese la sigaretta e rispose con un paio di anelli di fumo:
– Mi serve un cacciavite…
– Un coltello può andare? – rispose Ciro, e gli porse una sottile lama appuntita.

Il ristorante si era trasformato in un girone infernale, chi non era morto urlava disperato e la bella atmosfera di qualche ora prima era oramai un ricordo lontano. Nessuno voleva guardare la morte in faccia. Qualcuno si era fatto bendare e se ne stava seduto come un povero mendicante cieco davanti ai fuochi d’artificio.

Michele aveva liberato un tavolo e si era seduto a smontare l’orologio.  Aveva tirato fuori tutti gli ingranaggi, li aveva messi in fila uno accanto all’altro come faceva nel suo laboratorio. Ciro,  seduto accanto a lui, lo guardava fare.
– Lo vuoi aggiustare? Il mondo sta per finire…
– Voglio sapere a che ora finisce il mondo …

Michele lo sentiva con le dita dove si erano rotte le cose. Le sapeva ascoltare. Ma c’era troppo rumore e i pezzi sul tavolo avevano una voce sottile e antica.  Michele cominciò a rimettere insieme, uno a uno, tutti gli ingranaggi. C’erano molle spezzate e rotelline che non giravano più.  Ciro lo guardava stupito, non aveva mai visto niente di simile. Anche lui era bravo a mescolare gli ingredienti, ma davanti a lui c’era un mago e glielo disse:
– Sei un mago, Michele!

Dopo un po’ l’orologio era  rimontato, aggiustato, spolverato. Ciro aveva preso olio e aceto e adesso lo lucidavano insieme. Alla fine brillava come se fosse appena uscito dalla bottega dell’orologiaio parigino; intorno a Michele e Ciro  oramai sembrava scoppiata la Rivoluzione Francese. Urlavano tutti. Era arrivata la fine del mondo.
– Che ora mettiamo? – chiese Michele a Ciro con gli occhi vivaci.

Ciro  ci pensò un po’ su e poi rispose:
–  Avanti, mettiamolo avanti…
–  E bravo Ciro! –  disse Michele  e si misero a ridere.

A Napoli la fine del mondo arrivò dal mare, un’onda gigantesca che spazzò via tutto in un secondo.  Risparmiò soltanto il ristorante “Da Ciro” dove un orologio stile impero con le colonne intarsiate e il quadrante di  bronzo dorato segnava le sei del mattino, del giorno dopo.

 

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Un racconto di Giovanna Iorio

La versione radiofonica, con le musiche del Notturno Concertante è stata trasmessa su Radio Rai 3.
Qui il link.

                              

Jeanne Moreau, Oskar Werner e Henri Serre in Jules et Jim di François Truffaut
Jeanne Moreau, Oskar Werner e Henri Serre in Jules et Jim di François Truffaut

                

 

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