Il racconto del mese: “Triste e noiosa, la vita di chi annega” di Marco Montanaro

TRISTE E NOIOSA LA VITA

racconto di Marco Montanaro

              

Ogni notte, quando riemergeva dall’abisso del suo sepolcro, il vecchio Olson trovava la povera Grugnetta che dormiva nervosa accanto alla sua lapide. Da quando Olson aveva preso a manifestarsi, i clienti della ragazza si erano fatti via via più rari. E così ogni notte, non appena sveglia, Grugnetta salutava il vecchio con un cenno del capo, pronta a chiedergli di starsene buono per un altro po’ sotto la pietra, giusto il tempo necessario per mettere insieme grana a sufficienza per andarsene, ma ogni volta le parole le restavano conficcate in gola come spine di pesce. Allora, ancora distesa, si limitava ad aspettare che Olson la smettesse di fissare imbambolato l’iscrizione sulla sua lapide.
Il tormento del vecchio era sempre lo stesso: non era forse il caso di eliminare quell’unica virgola, invertire questa o quell’altra parola oppure, perché no, rendere tutto in versi? Sconsolato, Olson finiva con l’arrendersi all’ineluttabilità della sintassi prima ancora che a quella del marmo. A quel punto chiedeva a Grugnetta di seguirlo nel giardino del cimitero per raccogliere le genziane da portare ai suoi vecchi amici. Lei obbediva facendo di sì col piccolo viso, secco e rosso come se qualcuno ci avesse passato sopra del sangue di porco, e si metteva in cammino senza dire una parola.
Tuttavia, per qualche strano motivo che a Olson sfuggiva, i suoi amici non ricambiavano mai il saluto, ostinandosi, a differenza sua, a starsene ben chiusi a riposare sotto le rispettive lapidi. Sempre più sconsolato, mentre depositava i mazzetti di genziane sulle tombe, Olson raccontava a Grugnetta le solite vecchie storie: lo zio morto sotto la pressa durante un turno di straordinario in acciaieria, il cugino ucciso in guerra da una raffica di fuoco amico, la giovane maestra che si era avvelenata nello stesso momento in cui aveva confessato a se stessa di amare uno dei suoi alunni più bravi e giudiziosi; e così via.
Una volta terminato il giro nel cimitero, a Olson non restava che salutare anche Grugnetta e mettersi in cammino verso il paese. Ogni notte era come se ci tornasse per la prima volta, ogni notte il suo stato d’animo era lo stesso di un ragazzino alle prime armi con le donne, prima ancora, cioè – come suggerì una volta la stessa Grugnetta – che la presenza fisica di una donna inizi a coincidere con quella, ben più eterea e chimerica, di un impulso.

La prima tappa era la casa in cui il vecchio aveva vissuto per oltre quarant’anni prima di quell’ultima giornata sul lago. Olson passava attraverso la porta, saliva le scale e si infilava nella spoglia camera da letto. Ogni notte il letto si presentava vuoto, intatto. Deluso, Olson tornava giù, in cucina.
Sulle pareti, accanto alla nicchia di tufo in cui sonnecchiava il santo patrono degli storpi e dei randagi, erano appese tre o quattro pentole di latta, cinque o sei piatti di ceramica e un paio di quadretti in cornici d’argento. In uno di questi c’era la foto di un giovanotto in tuta da lavoro, nel primo giorno in acciaieria.
Sulla branda sotto il pesante tavolo di legno dormiva invece la moglie di Olson, resa sempre più minuscola, dopo la morte del marito, da una fiacca forma di saggezza o noncuranza. Il vecchio sedeva allora per terra e restava per un po’ a guardarla.
Quando la donna sembrava sul punto di riscuotersi da un sonno improvvisamente nervoso, ecco che qualche altro fantasma doveva giungere ad accarezzarle la testolina. Così, di nuovo tranquilla, riprendeva a dormire sotto gli occhi del marito. Quando la sentiva fischiare da quel suo naso piccolo e a punta, Olson tratteneva una risata commossa e silenziosa. Ogni notte, non appena lui andava, la donna spalancava gli occhi nel buio della cucina.

Il giro proseguiva nella piazza dell’orologio. Olson annusava l’aria umida che saliva dalla pavimentazione di pietra, una cosa che in vita gli dava sui nervi ma che adesso lo restituiva a una sorta di stato insieme liquido e gassoso dell’esistenza. La tappa successiva era il bar di Carl, l’unico vivo, a parte Grugnetta, a cui il vecchio fosse andato a far visita dopo la morte. A quell’ora il locale era deserto. Una radio a transistor diffondeva le note di una vecchia canzone per voce e bouzouki di Geōrgios Tzetzadis. Sul lungo bancone di legno c’erano ancora due o tre bicchieri vuoti e qualche residuo di patatine, olive e anacardi. Il solito, diceva Olson. Quando ti deciderai a smetterla?, rispondeva Carl, dall’altra parte del bancone, senza neppure voltarsi. Olson gli mancava, certo, ma al tempo stesso lo turbava l’ipotesi che al termine di tutto non ci fosse una fine vera e propria o qualcosa tipo un buio definitivo e senza appello. Ogni notte, comunque, Olson riproponeva la stessa solfa. Diceva che non era pronto, che c’era come qualcosa ancora da finire, e Carl ripeteva, ancora di spalle ad asciugare i bicchieri, che era tutta questione d’abitudine, sono passati quanti anni?, e tu ti ostini…
Non è che mi ostino, riprendeva Olson. L’abitudine, di certo una buona abitudine, era venire qui ogni sera, quand’ero vivo. Piuttosto, tu che diavolo ti sei inventato, senza di me? Ma se sei sempre qui, sbuffava Carl, prima di voltarsi e mettersi a raccontare che da qualche tempo non faceva che leggere polizieschi. Terminato uno, attaccava con quello nuovo; alcuni li rileggeva tre o quattro volte, finché non finiva col confonderli. A volte, spiegava Carl, ho l’impressione che i personaggi passino da una storia all’altra, tutti quanti, vittime, investigatori e assassini, tutti in fuga, specialmente gli assassini, dalle pagine di un libro a quelle di un altro. Comincio a pensare che ci sia un unico grande colpevole per tutti i delitti a cui mi appassiono, e che quel colpevole sia ormai fuggito lontano dai miei polizieschi per nascondersi da qualche parte, qui o a casa mia. Certe sere, quando ti sento attraversare quella porta, penso che sia proprio tu, questa specie di assurdo colpevole dei colpevoli. Al che, Olson e Carl si scambiavano un sorriso. Poi restavano in silenzio, constatando quanta distanza ci fosse ormai tra le loro esistenze.
Dopo un po’, Olson riprendeva con la storia della mattina in cui era annegato. E come al solito finiva col raccontare qualche altro aneddoto. Quasi sempre si trattava della storia di quello che tutti, in paese, chiamavano ancora l’uomo d’acqua dolce. Carl ne conosceva a memoria persino le piccole variazioni.

C’erano questi due vecchi che andavano matti per il lago. Ogni giorno, all’alba, montavano sulle rispettive biciclette con tutto l’armamentario per la pesca. Pescare aveva rappresentato, nel corso del tempo, un modo per rimandare delle scelte, riformulare decisioni già prese e tenere le rispettive consorti alla giusta distanza senza renderle comunque del tutto inoffensive.
Si sistemavano nel canneto, tiravano fuori panini e birre e cominciavano a dar forma al loro mondo fatto di chiacchiere, piccole barzellette e indovinelli che conoscevano a memoria. Un mondo caldo, inestinguibile, in cui i due amici erano al sicuro proprio come due ragazzini in un rifugio segreto, fabbricato però dagli adulti.
A un certo punto venne fuori la storia dell’uomo che voleva a tutti i costi trasformarsi in acqua. Proprio così. Era un idiota del paese, tutti lo ricordavano da bambino, in chiesa, come il chierichetto con la mandibola in fuori, i capelli rossi e i denti rotti. A quanto pare, adesso si era stabilito sul lago in attesa di sciogliersi, fondersi, disintegrarsi nell’acqua o qualcosa del genere.
La storia aveva subito incuriosito i due vecchi pescatori, che decisero così di andare al lago col buio, prima ancora dell’alba, senza neppure l’attrezzatura. Del resto, adesso si trattava di pescare un uomo: niente più trote, tinche, cavedani giganti o pesci siluro.
Quando lo avvistarono, il tipo era sul pelo dell’acqua a galleggiare a pancia in su. Ogni tanto alzava piano un braccio come se dovesse scacciare degli insetti visibili solo a lui; quel movimento gli faceva perdere l’equilibrio per qualche istante, finché, dopo essersi sbracciato e aver sollevato una gran massa d’acqua, non riusciva a tornare nella posizione del morto.
I vecchi decisero allora di non essere da meno e di alloggiare anche loro in pianta stabile sul lago. Continuavano a parlare degli affari loro, compilavano le parole crociate e mandavano giù birra e panini, di tanto in tanto gettando un’occhiata fintamente distratta verso l’acqua.
Passavano i giorni e l’uomo era sempre nella stessa identica posizione, per giunta nello stesso punto nel centro esatto del lago. Non sembrava morto, ma neppure d’acqua. Forse era vivo e morto nello stesso tempo e forse proprio questo voleva dire esser fatti d’acqua.
Dopo qualche settimana, una notte di fine settembre o inizio agosto (a questo punto Olson non ricordava bene, un’incertezza che poteva valere una vita intera), i due amici furono svegliati da un rumore liquido, qualcosa tipo lo schiudersi di un grosso uovo sospeso in aria. Guardarono verso l’acqua, sotto la splendida luce della luna piena: nessuna traccia del cretino. Allora i due vecchi pescatori si scambiarono un’occhiata e decisero: che fosse andato a fondo, che si fosse finalmente fatto acqua, in ogni caso non se l’era meritato – per niente.

Ogni notte, a quel punto del racconto Olson e Carl erano fuori dal locale. Carl era di spalle ad abbassare la saracinesca mentre Olson terminava la storia, la cui conclusione poteva subire ogni volta delle piccole variazioni: l’uomo d’acqua dolce poteva essere Dio o uno dei due vecchi, che potevano essere gli stessi Olson e Carl, oppure li raggiungeva a nuoto per chiedere cos’avessero da guardare. Il tipo, comunque, aveva sempre i denti rotti, la mandibola in fuori e i capelli rossi, e allora Carl diceva: la verità è che avresti voluto essere tu quell’uomo, avresti preferito morirci tu in quel modo, e Olson diceva non lo so, non posso escluderlo, so solo che sono annegato come un pivello inseguendo una stupida trota, ma lo sai cos’è che mi fa perdere davvero la testa, eh, Carl, lo sai?, e ogni notte Carl, tutto preso dal calore o dal freddo che allo stesso modo possono preannunciare il sonno, ripeteva no Olson, dimmi Olson, e Olson spiegava con calma che le trote si sarebbero evolute, prima o poi, per via dell’inquinamento dei laghi, si sarebbero evolute fino a diventare pesci d’acqua salata, ce le ritroveremo nel mare, un giorno, diceva il vecchio Olson, non ricordo dove ho sentito questa storia ma allora sarei almeno potuto annegare in mare, ecco cosa mi fa davvero perdere la testa, Carl, che sarei almeno potuto annegare in mare.
A quel punto Carl si voltava, guardava Olson con gli occhi che gli bruciavano e storceva un po’ il muso nascosto dietro i baffi grigi e folti come la spazzola di una scopa. Per i vivi era ora di andare a dormire. I due vecchi amici facevano ancora qualche passo insieme prima che ognuno intraprendesse la strada verso il proprio sepolcro. Nella nebbia mattutina che avanzava in quel che restava della notte, Olson riusciva a malapena a ricordare le parole dell’iscrizione sulla sua lapide.

Di ritorno al camposanto una specie di sonno ulteriore si impadroniva del cuore del vecchio. Ogni tanto, quando non gli andava di parlare con Grugnetta, si fermava a sonnecchiare in una cappella di famiglia all’ingresso del cimitero. Gli piaceva immaginare che si trattasse della cappella di famiglia dell’uomo che voleva mutarsi in acqua. Di tanto in tanto gli capitava persino di sognare. Cosa sognano i morti? Ma può anche essere che il sogno di Olson fosse il ricordo di un sogno fatto da vivo. Circostanza abbastanza singolare, in questo sogno Olson si chiamava Olsen, era cresciuto in una città di mare ed era molto vecchio, ben più vecchio di quanto non fosse quand’era morto coi polmoni gonfi d’acqua dolce.
Nel sogno, Olsen era seduto ai tavolini di un baretto, interamente fatto di legno e dipinto di bianco, che dava su una spiaggia deserta. Aveva appena terminato la lettura di un libro e aveva ancora dentro di sé non tanto la voce dell’autore del romanzo, quanto, se possibile, quella del romanzo stesso, il cui protagonista era un vecchio pescatore a cui uno squalo, alla fine della storia, mangiava tutto il pescato.
Guardando la piatta distesa azzurra del mare, Olsen ricordava le volte in cui, da bambino, andava a pesca con suo nonno. Il nonno, un uomo piccolo e buono con le sopracciglia folte come due batuffoli d’ovatta, gli raccontava un mucchio di storie di mare, esploratori e isole lontane. A un certo punto dei suoi racconti, un punto misterioso, forse invisibile, il nonno diventava ancora più bello e più buono, a volte addirittura luminoso. In quei momenti Olsen pensava che da grande avrebbe voluto fare anche lui il pescatore. Ma l’arrivo degli stabilimenti balneari e dei villaggi turistici avrebbe presto stravolto l’economia del paese, mandando in pensione i pescatori prima ancora che lui potesse imparare il mestiere.
Tuttavia, quel pomeriggio a Olsen non mancavano tanto la vita sul mare o la pesca con suo nonno e neppure, a dirla tutta, i banchi di piccoli pesci neri che si aprivano a riva quando lui entrava in acqua: gli mancava qualcosa di cui aveva sentito parlare una volta, da ragazzino, e che neppure nel sogno da morto, proprio come nella realtà dei vivi, riusciva a isolare o acciuffare per intero. Qualcosa che pure aveva tutta l’aria di ronzare negli altoparlanti del bar insieme a una vecchia canzone di Geōrgios Tzetzadis riarrangiata con percussioni caraibiche, qualcosa del tutto simile a una frase esatta e ambigua insieme, che esiste per un istante per poi volare via come una falena impazzita verso una lampada al neon.
Ancora immerso nei suoi pensieri, Olsen beveva l’ultimo goccio del suo drink, soffiava nelle narici, si alzava e attraversava la passerella del bar dirigendosi verso la spiaggia. Di colpo si fermava e faceva marcia indietro: aveva dimenticato di pagare il conto (ma perché mai un sogno doveva essere così pieno di dettagli?).
Una volta sulla spiaggia, Olsen toglieva i sandali e immergeva i gracili piedi nell’acqua bassa e tiepida a riva. Restava fermo con le mani in tasca, puntava lo sguardo all’orizzonte e si metteva a pensare a una cosa che gli aveva detto una volta suo nonno. Quando il mare è calmo e il sole è basso verso ovest, aveva detto il vecchio, se fissi a lungo l’orizzonte a un certo punto lo perdi, perché la luce diventa un filo zuccheroso e non può che sciogliersi nell’acqua. Il nonno aveva qualcuno a cui raccontare, perciò ogni cosa aveva l’aria di essere una scoperta assoluta, originale: ecco tutto. A quel punto Olsen si guardava i piedi, i piedi nell’acqua, e l’acqua, a quell’ora, era limpidissima.

         

Marsden Hartley, "Colore autunnale", 1910 - in apertura "Monte Katahdin, Autunno, No. 2", 1939-40, Metropolitan Museum New York
Marsden Hartley, “Colore autunnale”, 1910 – in apertura “Monte Katahdin, Autunno, No. 2”, 1939-40, Metropolitan Museum New York

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