Il racconto del mese: “Un treno speciale” di Ivano Mugnaini

UN TRENO SPECIALE

racconto di Ivano Mugnaini    

              

          

         Ce ne accorgemmo da soli, ben prima che le radio lo rendessero noto con i notiziari. Gli speaker lo annunciarono con una solennità falsa, incrinata da una nota di sarcasmo: “Un treno senza macchinisti sta percorrendo a velocità elevata la linea ferroviaria tra Sibari e Catanzaro. Si raccomanda ai cittadini e ai passeggeri nelle stazioni la massima prudenza”. Pensammo che per noi tale invito alla cautela era piuttosto tardivo. Noi su quel treno c’eravamo dentro da un po’. Eravamo noi, quel treno. Dentro la cronaca, la storia minima che corre sui binari del tempo senza scalfirli. Stavolta, però, più rapida, più folle.

         Folle, in particolare, ero e mi confermavo io. Avrei dovuto sentirmi atterrito. Guardare gli alberi, invece, gli omini nelle macchine ai passaggi a livello che correvano via esterrefatti, mi dava un senso di serenità. La vita oltre i confini fissi, sanciti da eternità di sole e grigiore, l’esistenza fuori dalle orbite, come gli occhi strabuzzati che osservavano le nostre carrozze, scatole di ferro rese lievi dalla corsa della pazzia.

         Non avrei dovuto trovarmi su quel treno, io. Non certo perché mi ritenessi privilegiato, o pretendessi di poter beneficiare di una specie di lasciapassare della sorte, un documento che mi permettesse di superare senza problemi i posti di blocco della sventura. Questo no di certo. Semplicemente non avrei dovuto trovarmi lì perché io con quel treno non avevo niente a che vedere. Quel convoglio speciale attraversava quasi tutta la penisola per condurre un manipolo di sciagurati assortiti a urlare sfottò sulle tribune traballanti di un campo di serie C. Con il rischio, tutt’altro che teorico, di essere simpaticamente accolti dagli indigeni del luogo con un cocktail di benvenuto a base di mazzate. Il tutto supervisionato dalle divise turchine delle forze dell’ordine, pronte a dare una mano, con tanto di manganello, in caso di necessità. No, io su quel treno non dovevo esserci. La mia idea di “tifo” era piuttosto lontana da quei livelli sublimi di sacrificio, dal gesto eroico di immolare una clavicola al totem dei colori sociali. Io ero l’agnostico che non leggeva il sacro testo rosa, e non sapeva nulla – ah, anima prava condannata alla dannazione eterna – dei misteri salvifici del calcio mercato. Ultimo ma non secondario elemento di differenziazione: la squadra che l’eroico drappello andava a sostenere nelle lande assolate del Sud, non era la mia. Non era quella a cui era rivolto il mio anemico tifo. Mi era estranea, per non dire che, in qualche segreto meandro, suscitava in me un’istintiva antipatia.

         Eppure, chissà come e perché, mi ero lasciato convincere da Chiarelli, compagno di banco del liceo ed esimio imitatore dei cronisti di Novantesimo Minuto, ad unirmi all’Armata Brancaleone. “Vieni dai, che ti diverti! Il biglietto del treno e dello stadio non lo devi pagare. Ti dò io quelli di un mio cugino che li aveva presi per sé e per me, ma non può venire perché si è beccato l’influenza. Vieni giù, esci di casa, e ti scordi per un po’ la fisica e la matematica. Laggiù dovrai contare soltanto i goal che facciamo noi. Portati il pallottoliere. Se non ti va di esultare quando segniamo, non c’è problema. Basta che non festeggi se segnano loro, altrimenti mi sa che non torniamo a casa interi né tu né io. Dai su, che ci facciamo quattro risate. Ci portiamo un quaderno e ci appuntiamo le offese più originali rivolte all’arbitro. Poi, al ritorno, stabiliamo la top ten. Guarda, ti assicuro, se vieni passi una giornata indimenticabile. Te la godi, garantito. Ti diverti da morire!”.

         Mi guardarono con sospetto i senatori e i centurioni del tifo nel momento in cui salii sulla loro carrozza. Mi sentivo come un ladruncolo sbarbato che deve sostenere lo sguardo dei boss di Brancaccio o dei mammasantissima di Giugliano. Fui sottoposto a numerose radiografie effettuate tramite sguardi prolungati. Lo scopo era di capire cosa volessi, come mai mi trovassi lì, e, soprattutto, se fossi o meno una spia, un infame infiltrato. La mia confidenza con Chiarelli, alla fine, li rassicurò. Ripresero a parlare e a comportarsi come sempre. Su codici di amicizia ruvida, simpatia spezzata in volo dalla presa in giro, e ritrovata alla fine integra, o giù di lì. Una cosa mi colpì in particolare: parlavano di tutto tranne che di calcio. Vestiti da capo a piedi da tifosi, avvolti nelle sciarpe come mummie bicolori, gli occhi seminascosti dai cappellini e le facce schiaffeggiate ad ogni colpo di vento dalle bandiere, parlavano delle famiglie, del tempo, dei paesaggi attraversati, perfino di politica, senza troppo entusiasmo, e, con molta più convinzione, di economia, l’arte della sopravvivenza nell’era dell’euro. La divinità del feticcio pedatorio tuttavia non ne risultava sminuita. Tutt’altro. Dietro ogni riferimento ai mutui, all’ICI, ai figli, alle mogli, alle fidanzate, alle sante e alla puttane passate, presenti e future, alle suocere, alle fabbriche, ai capoufficio, all’ENEL, alla SNAM, alla Shell, al Presidente, ai servi di stato, ai telegiornali, ai pasti caldi e freddi sognati o già mangiati, c’era lei: la sfera. Magica, quasi onnipotente. Onnipresente di sicuro. Quella che, come rilevò qualcuno, è rotonda. E mai nessuna verità fu più vera, più sconvolgente, più ineluttabile di quella legge di natura, la geometria della vita.

         Inutile allora, quasi blasfemo, parlarne durante il tragitto, nel corso della tappa di avvicinamento al sito della cerimonia. Solo là, nel luogo deputato, era lecito osannare a squarciagola il corpo mistico rotolante sul suolo. Insultando, inoltre, per eccelsa compensazione, l’infedele avversario, devoto sì, allo stesso dio, ma dal fronte totalmente impuro di una confessione non ortodossa.

         Di fronte a me e a Chiarelli sedeva Giovanni Cremona, detto Giuàn. Colossale e placido, incantato da una michetta croccante e dal finestrino. Guardava la gente, ad ogni stazione che incrociavamo. Intercettava i tipi strani, non gliene sfuggiva uno. Anzi, l’idea, assurda quanto tenace, era che si fossero dati un tacito appuntamento. Il nostro treno rallentava, si fermava, e, puntali, sfilavano lungo il binario personaggi da cinema. Un vecchietto ossuto con indosso una giacca di varie misure più grande rispetto alle sue spalline rachitiche. Giuàn lo guardò, e, ineluttabilmente, scoppiò a ridere. Lo battezzò “Carnera”. Senza cattiveria. Con una crudeltà sana, ingurgitata in modo spontaneo come le fette di pane e salame. Una donna truccata come un mascherone, tanto da far sembrare Moira Orfei una signora per nulla appariscente. La guardò a lungo, Giuàn. Con l’insistenza di un bambino. Sghignazzò. La donna lo vide, se ne accorse. Lo osservò anche lei. Senza smettere di sorridere.

         Non ricordo esattamente chi fu il primo ad osservare che, secondo lui, stavamo andando troppo forte. Dopo ore di andatura regolare, monotona, sincopata, sembrava che il treno avesse deciso di sgranchirsi le gambe con un galoppo di quelli fatti bene, a testa bassa e a perdifiato.

         “Oh, che è successo, è diventato un treno giapponese ‘sto ferrovecchio? Stiamo lievitando? O abbiamo il signor Vettel in persona alla guida?”.

         La voce arrivò da qualche parte, da una gola spalancata. Ma, in fondo, fu come se provenisse dalle viscere e dalla mente di ciascuno. Liberatoria, in un primo momento. Ridemmo tutti, più forte possibile. Qualche minuto più tardi il riso rientrò negli esofagi sotto forma di saliva inghiottita a stento. Amara, avvelenata. L’andatura non diminuiva, anzi, dava l’impressione di crescere ulteriormente. Attraversavamo le stazioni, anche quelle di cittadine tutt’altro che minuscole, senza accennare minimamente a rallentare. Le facce dei passeggeri, soprattutto di quelli abituati alla routine quotidiana dell’ingresso sbadigliante sul treno, erano capolavori. Tele a metà tra astrattismo e metafisica. L’urlo di Munch nella gola di pupazzi antropomorfi alla De Chirico. Volavano via i giornali, e loro restavano lì, con un piede sospeso nell’aria, avido di un gradino già fuggito lontano. Comicità sublime, se avessimo potuto permettercela.

         Divoravamo chilometri, tratti di terra arida e fertile, campi e litorali. I minuti passavano lenti, pesanti. Ironico contraltare alla corsa dei vagoni e dei cuori. Le bandiere della squadra furono posate a terra. Con rispetto, ma anche con una punta di rabbia. Con lo sguardo che si rivolge ad una persona amata che, seppure involontariamente, ti ha condotto nel bel mezzo di un guaio colossale. Qualcuno, osservando gli stendardi incrociati al suolo, si rese conto che somigliavano a drappi funebri. Li rialzò, e il vento dei finestrini li riavvolse all’istante.

         Gli ottimisti cominciarono a bisbigliare, rivolti più a loro stessi che agli altri, sostenendo che ai tempi nostri tutti è automatizzato e controllato dai computer. Avrebbero trovato il modo di farci rallentare e di fermarci senza provocare disastri. I pessimisti, con un riso di fiele, replicavano che nelle lande che stavamo attraversando, dominate per lunghi tratti dal binario unico, il controllo tramite computer era chimera. C’erano ancora gli scambi antichi, risalenti più o meno agli anni dell’Unità d’Italia. Ferro rugginoso, monumento di un’epoca che fu.

         Giuàn non sembrava ascoltare né gli uni né gli altri. Continuava a sgranocchiare il suo pane, viaggiatore estraneo al percorso e a se stesso. Distante, pacioso. Un turista a cui è capitato di trovarsi al centro di una potenziale tragedia, ed osserva, senza ansia, senza compiacimento. Concentrato solo sul suo pranzo e sulle bellezze del luogo. Non mollava un istante il finestrino, Giuàn. Catturava ogni albero riarso, ogni sbalordito passante. La sua gioia però esplodeva, nitida e luminosa come quella di un bambino, quando ci capitava di incrociare un altro treno. Balzava in piedi, spalancava il finestrino, e lo seguiva a bocca aperta, finché spariva al di là dell’orizzonte. Una sorpresa autentica, una meraviglia. Tale da fare invidia. Veniva fatto di chiedersi cosa vedesse in quei treni a cui ci capitava di correre a fianco. Forse l’ombra di sé. La libertà, la vita ancora integra, diretta verso un luogo lontano. O magari niente di tutto questo. Solo una bellezza rapida: il mistero del movimento.

         Avrei voluto chiederglielo, sapere direttamente da lui cosa pensava. Ma non sarebbe stato lo stesso. Non avrei ottenuto niente. Solo esili parole, nel migliore dei casi. Non aveva paura, Giuàn. Questo contava. Era questo che dovevo provare a capire. Presi a guardare il suo finestrino. C’era il sole, illuminava le camicie dei contadini in piedi nei campi, le gonne delle ragazze, lembi di pelle dorata, un riflesso nei capelli corvini, una perla di sudore. Quando sentii il rumore di un treno che ci sfilava accanto, misi anch’io la testa fuori dal finestrino. Sorrise, Giuàn, guardando assieme a me quel convoglio sconosciuto che scivolava sui suoi binari, diretto verso un altrove che, per un istante, diventava nostro.

         Mi rimisi a sedere. Mi accorsi che un po’ della mia tensione era corsa via. Presi un giornale e finsi di leggerlo. In realtà tutto ciò che riuscivo a fare in quegli attimi era immaginare. Vidi Carnera, il vecchietto dalla giacca enorme, accanto a lui la copia di Moira Orfei e tutti gli uomini e le donne che Giuàn aveva portato con sé nei suoi occhi voraci. Li vidi salire sul nostro treno lanciato verso un destino ancora da scrivere. Li osservai, sereni, eleganti, quasi solenni. Aprivano sorridendo il loro finestrino e attendevano un treno da guardare. Senza rabbia, senza chiedere nulla di più di quell’aria calda di luce che entrava negli occhi e nella pelle.

         Corsi in avanti negli anni, più rapido del treno. Vidi Giuàn a bordo della sua macchina, immobile, sanguinante. Morto in un incidente stradale. Una scena molto più crudelmente banale di quella caotica e sferragliante di cui eravamo attori in quei frangenti. Immaginai la macchina di Giuàn piegata su un fianco. Lamiere contorte, grottesche. Vidi un finestrino. Lasciato aperto anche in pieno inverno. Per sentire, magari, il fischio di un treno. Perché ovunque è possibile sentire un treno che corre. Ci si può fermare e guardarlo, stupiti, felici. Come se fosse la prima volta. L’ultima. La sola.

                 

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