Muore la poesia, di Renato Fiorito.
Argomento complesso, questo della scarsa diffusione della poesia, che richiama responsabilità editoriali, ristrettezze del mercato, scelte letterarie, inadeguati mezzi educativi e di comunicazione. Trascuro qui i problemi di mercato, sui quali i poeti non possono incidere più di tanto, e mi soffermo sulle nostre responsabilità in tema di modalità espressive, a partire dalla seconda metà del novecento, e classificate da un critico come Spagnoletti col nome generico di post-sperimentalismo.
L’addebito che rivolgo a questo tipo di poesia è di avere privilegiato forme letterarie di difficile lettura, compiacendosi della loro astrusità e facendone ragione distintiva di una pretesa élite letteraria. Molti di questi poeti, assillati dal desiderio di innovare ad ogni costo, hanno finito per mettersi in un vicolo cieco nel quale la chiarezza del messaggio ha ceduto il passo all’oscurità del verso, rinunciando, in una specie di catastrofe logica e sintattica, alla sua comprensibilità. Questa sorta di supponenza intellettuale si è spinta fino al punto di deresponsabilizzare il poeta in merito ai contenuti della propria poetica, scaricando sul lettore il totale onere della comprensione. Ho sentito in proposito sostenere che la “vera poesia” deve avere molteplici significati, tutti ugualmente possibili. La teorizzazione di questa ambiguità ha però finito col rendere marginale lo stesso senso del messaggio, perché ha ritenuto che ogni interpretazione, ancorché cervellotica, fosse legittima. Questa dismissione di responsabilità si è tradotta nella ricorrente affermazione che la poesia è di chi la legge. Corollario reale di questa deriva linguistica è che spesso non ci troviamo di fronte ad una pluralità di significati ma all’assenza di significato.
Il prezzo di questo disinteresse snobistico per il lettore e del conseguente isolamento del poeta in una torre autoreferenziale nella quale celebrare se stesso, è stata la perdita di relazione e quindi la sua irrilevanza sociale. Per altro verso, la colpa dei critici è stata quella di non avere contrastato sufficientemente questa deriva e non aver chiamato le cose con il loro nome. La fuga dalla realtà, il rifugiarsi nell’irrilevanza di un solipsismo senza finestre ha comportato la rinuncia al ruolo del poeta nelle dinamiche sociali, l’impoverimento culturale della comunità e la marginalizzazione della poesia stessa.
Poi naturalmente ci sono le colpe di altri: la scuola, l’editoria, la crisi del sistema, l’incapacità dei mass media a diffondere cultura. Ma la responsabilità che qui mi limito a evidenziare è quella dei poeti, del conformismo culturale, della protezione dei piccoli privilegi, dell’autoreferenzialità, dell’acquiescenza di fronte al finto consenso, ai premi truccati, alle celebrazioni clientelari, al trionfo della paccottiglia smerciata per arte.
Le scelte poetiche sono diventate rigorosamente individuali e non si connettono più alle dinamiche sociali. La critica letteraria, a sua volta, è asservita alle leggi dell’economia ed è diventata conformista e amicale, non ponendosi più l’obiettivo di selezionare il meglio ma di proteggere i clienti.
Saremmo dunque al punto di non ritorno se, paradossalmente, una speranza non venisse proprio dal crollo del numero dei pochissimi lettori paganti che sta sancendo la morte di questo tipo di poesia e della connessa struttura di potere. La sopravvenuta irrilevanza economica e commerciale del settore potrebbe infatti svolgere un’azione purificatrice, liberando il campo dalle conventicole accademiche e editoriali e lasciando spazio a chi ha cultura e passione per occuparlo.
Lo sviluppo del mondo dei blog e la connessa possibilità di fare rete, la creazione di gruppi di lettura autonomi, il protagonismo non mediato di nuovi autori attraverso il self publishing, potrebbero facilitare questa evoluzione e aprire nuove possibilità di ribalta per chiunque voglia fare poesia senza sottoporsi alle forche caudine dell’economia e del potere.
Bisognerà solo armarsi di inventiva e nuovo entusiasmo, facendo uscire la poesia dalle liturgie accademiche per ributtarla tra la gente, da dove secoli fa è venuta. Come in ogni rivoluzione culturale, ciò comporterà smarrimento e confusione, ma il risultato finale sarà una cultura autogestita, più democratica e meno autoreferenziale, sottoposta alla legge della condivisione e del consenso reale; una poesia che vive tra la gente, che usa le sue parole e approda nei luoghi dove essa vive: nei cinema, nei locali pubblici, nelle case private e perfino nei ristoranti.
Allora, se avremo il coraggio di essere schietti, curiosi e appassionati e se non applicheremo in piccolo i vizi odierni di una cultura esangue, potrebbe nascere, ed in parte già è nata, una stagione nuova per la poesia del terzo millennio.
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Muore la poesia
Muore la poesia negli angoli dimenticati delle librerie,
i versi dei grandi giacciono inascoltati
coperti da uno strato di silenzio,
del resto hanno poco da insegnare
ai pochi squattrinati che li sfogliano distratti.
Ma fuori, sulla strada,
tra gli interstizi delle pietre
si fanno largo caparbi i fili d’erba
a preparare una nuova stagione.
Due ragazzi si baciano in piedi al primo sole
senza sapere nulla di Prevèrt.
Una donna ha comprato lillà
e li ha messi in un vaso nella stanza,
neppure sospettando
di essere già vissuta
in un verso di Eliot.
Nell’aria tersa della sera
una ragazza dai capelli ricci
guarda lo scorrere del fiume
giocando con i ciottoli del greto
e pensa tra sé
a una nuova poesia.
Disamina corretta, da incorniciare.
Apprezzata molto la poesia.
Difesa appassionata e razionale della poesia.
M’inchino a tanta chiarezza.
La poesia è di quelle vere… che tra la gente starebbe proprio bene.
Condivido l’analisi, difendendo il valore del contenuto che non va sacrificato all’esasperazione della forma.
Chiosa bene Fabrizio Bregoli . La poesia non è una telefonata o un messaggio cifrato ; è un mix di Spirito e Ragione che non può pretendere una continua decodificazione , ma esperire recepibilità a misura umana / terrestre , comunicazione e non incantesimo . Tutto l’armamentario retorico dovrebbe tener conto di questa “concretezza” , che poi si traduce nella rivisitazione in chiave moderna di una Tradizione con cui abbiamo imparato a scrivere qualcosa di decente ( se dio vuole ) .
Con un convinto OK a quanto Fiorito ci offre .
leopoldo attolico –
Ringrazio Donatella Nardin, Antonella Antonelli, Fabrizio Begoli e Leopoldo Attolico per avere condiviso la mia riflessione. Sono tutte persone di valore e sono quindi molto felice di trovarmi in loro compagnia nel sostenere la necessità di una poesia che entri nel quotidiano e si riappropri del linguaggio comune, in modo da parlare ad un maggior numero di persone.
Oggi, infatti, non servono torri eburnee nelle quali difendere posizioni elitarie, sostenendole con astruserie e oscurità linguistiche, ma piuttosto l’intelligenza di uscire dalle conventicole per incidere veramente nella vita delle comunità.
Un esempio positivo ci viene, in questo senso, dalla poetica della stessa Antonella Antonelli, sopra intervenuta, che, nella sua silloge poetica “In una notte lunga di un giorno che non conta” Edizioni Tracce, dà un bell’esempio di come si possa attingere al linguaggio comune e mantenere tuttavia vivo e prezioso il senso del verso. Oggi che il tasso di scolarità ha raggiunto livelli molto alti è da auspicare che non si sprechi l’opportunità di parlare a questa enorme platea, facendo finalmente uscire la poesia dalla sua irrilevanza sociale e facendola diventare fattore di cambiamento.
Grazie Renato,
come non condividerele tue parole? Il linguaggio comune ci permette appunto di “comunicare” e nessuno deve avere paura d’incontrare la poesia, altrimenti sempre meno persone la leggeranno. Noi non siamo degli eletti, siamo solo dei portavoce e sarebbe bello che ogni lettore potesse pensare”però, questo avrei potuto scriverlo anch’io, peccato che non ne sia capace…”
Spazio alla poesia e ai poeti.
Condivido l’intenzione di Renato Fiorito e bella la sua poesia. Ma concretamente vedo più fumo che arrosto. Le congreghe sono sempre esistite nel nostro paese e di solito fanno capo a interessi economici o di casta. Che la congrega abbia un nome anziché un altro e abbia sede a Milano o a Roma o in qualsiasi altra città poco cambia. Il contatto con la gente e soprattutto con il panorama culturale internazionale che sta per fortuna conformando sempre di più l’aspetto della società, manca comunque. E quando si perde il contatto con il mondo reale spesso si è più isolati in gruppo che da persona isolata. Voglio dire che il gruppo culturale che non è aperto e che non si confronta diventa spesso la conferma e l’espansione smisurato dell’ego di una sola persona, un po’ come accade nelle dittature. Il problema della universalità dell’espressione poetica non sta tanto, secondo me, nella lingua più o meno ricercata ma nel contenuto della poesia e nell’animo di che scrive. Per essere vicini al cuore della gente bisogna vivere con semplicità in mezzo agli altri e vivere la vita di tutti cercando le occasioni per aggregarsi e per comunicare che la vita e il mondo offrono, con umiltà. Non occorrono né ristoranti né piazze. La poesia è vita in mezzo alla vita e il poeta deve essere per tutti non per qualcuno soltanto. Chi legge deve poter pensare a tutto, tranne “io non sarei capace di dire queste parole”. Sono in totale contrasto con l’opinione della Signora Antonelli, della quale non conosco la poesia: la parola poetica è un’apertura allo sguardo dell’infinito e non serve per confronti particolari. Lascia stupiti, a bocca aperta, blocca il respiro, ferma la sguardo con la sua potenza. E’ mistero nel mistero della vita. E solo allora è poesia. Quando è forte, quando lascia spiazzati. Diversamente può fare pensare a un giornale di cronaca. Il poeta non fa cronaca, fa cultura, fissa la storia di un’epoca nella goccia d’inchiostro di una penna assorta. Grazie per l’ascolto. Sandra Evangelisti