Muso di porco, racconto di Alessandra Piccoli

Muso di porco

racconto di Alessandra Piccoli.

   

  

Muso di porco non si vedeva da giorni in paese. Lo chiamavano così perché da bambino aveva avuto un incidente, ma su quella faccenda era calato il più fitto dei misteri ed erano nate le leggende più fantasiose e differenti versioni. Probabilmente la storia dell’incidente era nata durante uno dei numerosi passaggi del “testimone”.

Che fosse incazzato con la vita, con sua madre e con il maestro delle elementari lo sapevano tutti. Non c’era giorno in cui non venisse punito con una bacchettata sulle dita, e una tirata di capelli. Da bambino aveva un nome, muso di porco, Giuseppe. Capelli stopposi e rossi, le guance paonazze, con una couperose infantile piuttosto evidente. Aveva mani ruvide, spellate, rovinate dal freddo, sempre sporche d’erba. Aveva mani vecchie. E non parlava.

Muso di porco respirava a fatica, ora che era diventato adulto ed era provato da una vita passata in campagna, il suo respiro era diventato un rantolo, qualcosa di sinistro che si udiva a qualche metro di distanza. Aveva i padiglioni auricolari a forma di cuore e un angioma capillare alla base dell’orecchio sinistro, che in alcuni giorni era molto evidente, in altri si mascherava nascondendosi tra le pieghe del collo e il rossore dovuto agli sforzi. Aveva gli occhi di un azzurro chiarissimo, quasi mistico. Quel giorno il paese aveva colori sbiaditi. Le automobili erano tutte dentro ai garages, la domenica. I bambini si trovavano nel cortile di Martina, tutti maschi tranne lei. Di solito c’era anche Giuseppe. Le bambine giocavano a casa di Cristiana o di Roberta, ognuna di loro si portava la barbie più bella, ed era una sfida. Quel giorno Martina era stata invitata a casa di Cristiana. Suonò il campanello con una certa difficoltà perché il bottone d’ottone era ossidato. Nessuno aprì. Allora scavalcò il cancello, era abituata ad arrampicarsi, aveva l’agilità di una scimmia. Le sue domeniche le passava sugli alberi, con la fionda in tasca. Ma quel giorno era speciale. Fece il giro della villetta, i cani iniziarono ad abbaiare. Il sole faceva brillare i capelli della sua barbie hawaiana, infilata nella tasca dei jeans, corti. Le ginocchia sbucciate, la croste che non guarivano mai. Chiamò Cristiana, ci provò. Poi decise di percorrere il vialetto che portava alla porta sul retro, quella della cucina. La trovò chiusa, bussò. I cani abbaiavano più intensamente, legati. Iniziò a sentirsi una ladra, eppure era convinta che ci fosse qualcuno dentro. Notò le telecamere, il motorino del fratello di Cristiana, l’auto della madre. Il padre non c’era mai, non l’aveva mai visto. Si accorse che la porta non era chiusa a chiave e provò con tutta la sua forza a farla scorrere. Era molto esile, e provò a passare attraverso una fessura appena superiore ai quindici centimetri. La serratura le provocò un taglio sul braccio, iniziò a sanguinare e a piangere. Entrò in cucina, le gocce sul pavimento di legno chiaro. Si chinò per pulire, le girava la testa, la barbie cadde. Sentiva l’odore del cloro della piscina al piano interrato pungerle le narici, segno che le porte erano tutte aperte. Vide le sue labbra bianche riflesse sulla porta del forno in acciaio. Una figura dietro, l’angioma, l’azzurro chiarissimo e poi più nulla.

Muso di porco la sollevò, tenendola per le esili braccia, sistemò le sue gambe su un cuscino. Prese lo zucchero dalla dispensa e le aprì la bocca.

Si riprese in fretta, Martina.

Le disse: “vieni con me, ti prego, non devi avere paura, non ti farei mai del male, devi fare qualcosa per me, loro non sanno che sei qui. Tu sei qui per me”.

Martina aveva paura, non capiva. Per quale motivo lui si trovava lì? L’aveva forse seguita? Erano giorni che aveva questa impressione, sentiva il suo respiro vicino.

“Portati le bambole, ci serviranno”

Lo seguì, il sangue le pulsava in testa, gli zuccheri facevano il loro dovere. La paura anche.

Muso di porco guardava avanti e lei come un cane intimorito gli stava dietro, riconosceva la strada, che l’avrebbe portata alla fattoria; pensò di scappare almeno un paio di volte ma decise di fidarsi. La paura dei bambini spesso si trasforma in coraggio. Le guance si scaldarono. La vista si fece più nitida.

Dopo qualche minuto arrivarono nell’aia della fattoria. L’odore degli escrementi animali era pungente, il disordine imperava. Ovunque attrezzi arrugginiti, non c’era la minima cura, ma soprattutto ebbe l’impressione che non ci fosse nessuno, oltre a lei e muso di porco.

“Entra”, le disse, “ ti preparo qualcosa di caldo”, la sua voce era gentile, fraterna.

Si scaldò le mani con la tazza di coccio, a cui mancava il manico. Notò un nome dipinto a mano con uno smalto per ceramiche. Ofelia.

“Questi sono dei vestiti per te, dovrai indossarli, facendo attenzione a non rovinarli, io non ti aiuterò”.

Si girò con la faccia verso il muro dandole le spalle e attese che lei avesse finito di vestirsi.

“Ora raccogli i capelli, in una coda bassa, allentala il più possibile, facendo uscire delle ciocche ai lati”, le ordinò. “Lei era rossa, come te. Posso toccarli?”

Martina iniziò a capire, ed era in parte rasserenata da tutto ciò, in parte spaventata.

Quando ebbe finito lui la invitò a seguirlo fuori, e la portò in prossimità di un campo.

“Cammina”.

All’improvviso Martina ricordò ciò che le era successo esattamente un anno prima.

Stava riversa a faccia in giù col naso piantato nella terra umida. Sentiva l’odore dell’erba incolta e delle lumache. I respiri lenti, controllati, per non farsi vedere, sperando che quei trenta centimetri sopra di lei la proteggessero. Avrebbe atteso il tramonto. Nelle sue orecchie ronzava ancora il rumore dello sparo, qualche pallino l’aveva debolmente colpita. Nessuna ferita, solo tanta paura, e forse una leggera slogatura alla caviglia provocata dal salto improvviso. Il gelso era alto, perfetto per una capanna, i suoi rami sembravano le dita di una mano. Da lontano sentiva i cani abbaiare e il contadino che gridava : “Se ti becco stavolta ti ammazzo”.

Ora era tutto così chiaro.

La voce era quella di muso di porco.

Lui aveva trentotto anni, il suo corpo, il suo viso e le sue mani molti di più.

Aveva otto anni Giuseppe, quando prese il fucile del padre lasciato come al solito incustodito appoggiato all’entrata, faceva fatica a tenerlo dritto, gli faceva perdere l’equilibrio. Giocava al guardiano, immaginando ladri, bestie e predatori che potessero in qualche modo oltrepassare il confine della loro proprietà.

Corse verso quel campo, uno dei tanti che dava da mangiare alla sua famiglia.

Vide il grano ondeggiare, e senza pensarci imbracciò il fucile. “Bum bum, muori!”. La sua voce fu coperta dallo sparo, il rinculo lo fece indietreggiare di molti metri. La botta sullo sterno, il colpo feroce alla testa. Buio.

Aveva colpito Ofelia, la sorellina, che spaventata corse verso casa e non si accorse del buco, quell’enorme buco per un corpo di bambina.

Giuseppe si riprese e gridò disperato, inseguì la sorella, la vide sparire davanti ai suoi occhi di mostro.

Si gettò per aiutarla, inciampò e cadde sbattendo zigomi, naso e fronte.

Del sangue che non poteva vedere sentiva solo il sapore.

Li trovarono i loro genitori solo dopo molte ore, prima del buio, non vedendoli rientrare per cena. Lui abbracciato a lei, senza respiro. “Scusa, scusa, non ti lascerò andare via”.

“Finalmente ora sei qui” -disse muso di porco a Martina- “non ti lascerò andare via, scusa, scusa per quella volta. Non volevo. Ora per favore scendi, ti farò compagnia per un po’”.

                   

Simone Caniati,  "Bauhaus" - in apertura "The Apes Symmetry"
Simone Caniati, “Bauhaus” – in apertura “The Apes Symmetry”

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