Naturario (poesie 2014-2016) di Antonio Bux, Di Felice Edizioni, 2016, recensione di Alfredo Rienzi.
Antonio Bux, pur non avendo ancora varcato il dantesco mezzo di sua vita, con questo fondamentale Naturario, compie un tragitto poetico che copre distanze destinate a pochi.
È appena il caso di richiamare l’intensa, per ampiezza e urgenza, testimonianza poetica già lasciata negli ultimi anni, dopo l’esordio con Disgrafie – (poesie 2000-2007), e limitandosi ai volumi in italiano: Trilogia dello zero (Marco Saya Ed., 2012), Turritopsis (Di Felice Ed., 2014), Sativi (Eretica Ed., 2015), Sistemi di disordine quotidiano (Ed. Achille e la Tartaruga, 2015), Un luogo neutrale (Il Foglio, 2015) e il recente Kevlar (SEF. Ed., 2016), intervallati dalle raccolte in spagnolo edite in Argentina (23 – fragmentos de alguien ed El hombre comido).
Che dopo questa già sorprendente abbondanza, Antonio Bux pubblicasse ancora è un ulteriore sorpresa, ma che editasse i testi di un solo biennio (2014-2016) in un volume imponente Naturario, di 400 pagine, è evento che pone domande forti e che diventano ineludibili, non appena si ha conferma, dai primi testi e ovunque si affondi (non “si poggi”: si affondi) lo sguardo, che ognuno dei testi è necessario per l’opera e che questa raccolta è necessitante per Bux e che la poesia di Bux è tra quelle che devono essere date.
Scrive l’autore, in un carteggio privato: “Naturario è un viaggio poetico durato quasi tre anni, dove ho cercato di presentare più livelli di registri poetici, nel mio solito corpo a corpo con la parola, creando questa sorta di libro chiuso, votato allo sfinimento letterario, al suo sovraccarico, tra echi e rimandi, tra significati e significanti. Una sorta di autoantologia, che poteva benissimo essere una tetralogia, ma che ho preferito riunire sotto un unico credo”. Un credo che viene recitato con l’ossessione quasi liturgica di un rosario naturale, dove i grani, oltre agli elementali (in ordine di sezione/cicli: fuoco, aria, acqua, terra) sono altri naturalia cosmici e terrestri («cielo», «stella», «luce» e «giorno» più che «notte» e «buio», «vento», «albero», «ramo», «erba», «radice», «fiore», «boschi», «uccelli»), anche estremi, come: «vita», «morte» e per impennate aggettivazioni o sostantivazioni «eterno».
Il poeta non cerca di ampliare il vocabolario per estetica o mera esibizione: si concentra su un grumo denso di parole, per chiara scelta, con l’intento di scavare nello stesso punto, di rivoltare la stessa zolla, fino a perforare gli strati delle superfici, a sfinire strumenti e azioni.
Si riscontra una rarefazione estrema della presenza oggettuale: il manufatto per primogenitura e antonomasia, cioè la «casa», pur risultando il più nominato, è detto un pugno di volte: il dicitore-delle-cose Bux erige un possente muraglia contro l’invadenza degli oggetti, contro i segni dell’accatastamento degli oggetti e del post-industriale. Una palizzata di tronchi in fronte al realismo terminale. E forse anche alla necessità di identificare nell’antipoetico la più significante riflessione che si vorrebbe oggi consentire.
Non è agevole una definizione di questo Naturario, dove c’è molto, come era da attendersi: lirismo e antilirismo, fluidità e inceppo, verticalità e obliquità, crudezza e mito.
La tenuta di un’opera così ampia, ma in cui si percepisce una poetica coesa, passa da ben manovrate variazioni di registro, sia tonale che strutturale, senza rinnegarsi o volgere in eclettismo antologico.
Forse l’aspetto che meno guida il lettore, o che meno gli fornisce approcci è proprio quello più esibito: la suddivisione nelle quattro sezioni (“cicli”) dei naturalia. Simbolismo troppo abusato, se questo fosse. Ma così non è. Le quattro sezioni non orientano, né sepimentano più di tanto l’opera. I quattro elementi, con una netta prevalenza dell’uso di «terra» (o «sottoterra» o «rasoterra») sono reciprocamente dilaganti nelle eponime raccolte. Tutto è Uno, verrebbe da dire, dove il poeta combatte una battaglia estenuante, per immergersi nel Caos, nominarlo e nominarne gli elementi e i componenti, tentarne l’esplorazione, soccombendo o resistendo, per plurime vie d’accesso.
Nel Ciclo della terra, l’ultimo, un breve poemetto reca lo stesso titolo dell’opera (o viceversa), nascosto, lontano, dove le convenzioni, spesso, depositano i testi meno letti, quelli verso cui non tutti i lettori si spingono, a ragion di più in questo ampio vortice. Questo testo, Naturario, denso e velato, dolente colloquio con un tu femminile, assenza-presenza, si fa con versi e concetti esemplari della raccolta: «Davvero tutto succede/ perché muore», (p. 352).
Detto subito e chiaramente, la poesia di Bux può apparire talora pensosa e riflessiva, ma in prevalenza nasce nell’immediatezza di un altrove che si dà all’«occhio» (altra parola chiave), alla «mano», al «cuore». È, in cento sfumature, nessuna delle quali sbiadita, anche una poesia d’amore, «un amore che tramonta nei secoli e non è più da tempo del mondo degli uomini» scrive Alfonso Guida nella sua lettera aperta di toccante empatia (p. 388). Un amore terrestre e celeste, di pietra e d’aria, che unisce, nel dare e avere, nella presenza e nell’assenza: la terra, la donna, la natura – naturata o trascesa -, il sacro, la morte, la parola.
«[…] Ma/ veramente io amo sempre l’eterno/ da fermo, e più solo, veramente io/ mi aspetto d’amore, un altro bisbiglio/ come di fiore di donna o di terra/ io mi aspetto quest’amore fuggire», (Per un dio d’amore, pag. 77);
«Amore mio cuore io ti creo ogni giorno/ a somiglianza del mio precipizio», (Amore mio cuore, p. 157).
La dicibilità, la pronuncia dell’amore non sono atti leggeri e leggiadri: bruciano, feriscono, richiedono una morte iniziatica, una transustanziazione, «Perché dire amore vuole la sete» (p. 136) «E male e amore si possono dire/ soltanto se lontani» (p. 357).
Antonio Bux sente la parola come fuoco, la scrittura come urgenza. La voluta pletora di versi non è esibizione, esercizio reiterato e compiaciuto: è inevitabile sofferenza e sfinimento, grattare la terra con le unghie, forse più per disperazione che per vedere cosa c’è sotto. Sovviene, non casualmente, quanto Mario Ercolani commentava a proposito di altri versi vivissimi (La sposa nera di Ilaria Seclì): «i suoi versi appartengono al mondo dei poeti scorticati, dei senza-pelle, dove la sensibilità si accende e si infuoca prima che la ragione possa esercitare il suo naturale controllo, ma questa non basterebbe a spiegare il trasalire dell’emozione che questa voce poetica trasfonde al lettore».
La sua poesia, crogiolo di terra, fuoco, amore è, soprattutto, necessitante specchio o metonimia di morte.
«Gli uccelli […] / / Sono esseri così veri alla morte/ quando rimpiccioliscono/ che tu fuori di ogni finestra zitto/ vedi soffiare in loro/ il gelo del tuo cuore e credi arrivi/ volando anche per te la morte/ con una mano spianata sulla fronte», (L’uccello sbagliato, p. 14);
«Così è la terra, come vicina/ alla morte, la morte come nel volto/ di donna, che non si ha/
mai, come l’uomo, o di vita che fu/ di chissà quanti, senza saperlo/ amati, mai da nessuno/
e così io, sto sulla mia/ di terra, come nel suo volto», (Come chinare il capo all’affetto, p. 43);
«[…] sono/ deboli pareti, le ombre/ che si riuniscono, sono amici/ a restituire i cani, i noi bastardi/ bastonati dentro, se ancora/ credenti della luna e dell’esistere/ rispondiamo in noi la morte», (Essere meno – I., p. 183).
Un testo, Sarà tornare di morte, nel Ciclo dell’aria (p. 133), è esempio particolarmente efficace:
Sentire il nome dell’erba, la fune bionda
che mi lega a questo nulla
che è la mia terra quando splende
io non so vederla se non nel bianco
interrotto notturno.
La mia terra, inutile al futuro
e mai presente, per la bellezza
si dice vuota, come me nei campi
se sporca ricrea, dentro una serpe
il proprio veleno, riconosce
in sé la preda. E sarà tornare di morte
al largo dei flutti
la discendenza, sarà morire
assordati dai granai
il solo lavoro che ci brucerà,
se resteremo, soli a intuire, i nomi
di ciò che tace
senza volerlo come un disturbo
occuperemo la folta radice
arresi all’unica vita.
Diversi nuclei si addensano e diluiscono nella poetica di Bux. Tra i più evidenti: la natura, specie quella della propria terra, l’amore, le ferite della vita e della morte, la concretezza e la trasparenza di ciò che si offre all’occhio, il silenzio dei luoghi e del divino, la poesia stessa, il sogno.
Nuclei che si amalgamo senza steccati e fossati, verbi di una sola voce, costante, riconoscibile, materie di un solo corpo. Ognuno di questi fornisce esempi e offre direzioni per ricognizioni e scoperte. Chi dice che l’ampiezza del volume sia un’anomalia rischiosa, non coglie la possibilità, il dono, di averne molti in uno? Certo diventerebbe arduo dirne, di tutti, con pari dovizia. Per esempio, troverei importante seguire i percorsi di Bux, tra il visivo – dato chiaro, ben repertato, non fosse altro che per gli elementi naturali riccamente citati – e l’onirico, non nel senso della visionarietà, ma della compresenza di un altro occhio, di un’altra realtà che concorre con quella bifronte del giorno (che nasce e che muore). Più delle facili citazioni a seguire, mi piacerebbe che questo accenno offra e suggerisca linee e percorsi di lettura.
«Sogno sempre ad una certa/ ora del tramonto qualcuno/ che viene a sognarmi accanto/ un sogno nuovo, di sempre» p. 144;
«Prendere tra le mani un sogno/ farlo crescere avvolto nella pietra/ t’accorgerai che sei sano a volte spento/ ma di una salute che ti accompagna/ fino a quando saprai sognare», p. 129;
«amore mio quando tu dormi io ti sogno/ dormire e sognare di me/ che ti entro nel sogno e divoro nell’ombra/ la tua carne cresciuta tra le ossa del letto… », p. 156.
Nella serie, ovviamente non completa, dei sentieri – segnati o accennati, consapevoli o meno – di Naturario, vorrei provare a percorrere qualche passo in quello dove il silenzio e il divino si incontrano. Bux nomina spesso il nome di Dio, maiuscolo, e ancor più del dio, minuscolo, dio di ogni corpo e di ogni cosa («del suono», «del pensiero», «dell’albero», «della solitudine», «delle rondini»), un panteismo personale («Ognuno ha il suo dio, da/ non condividere», p. 229); un dio che è corpo e viceversa, o anche solo «porzione», «sola mano», «torsolo». E poi c’è il dio «della pagina» e di quanto si correla: il poeta, la parola, il silenzio, l’assenza. Il «dio taciuto», dal «nome impronunciabile», della «parola negata»:
«L’altro giorno ho scoperto/ che Dio è il silenzio», (Dio è il silenzio, p.137);
«E così fa che io/ ami il suo silenzio/ che mi dà e mi tiene/ senza chiedermi,/ ma solo per me d’amore/ fatto a sua volontà/ di solo essere/ fai che io ami dio/ come d’assenza», (Vivere d’astronavi, p. 50).
Il poeta di Foggia richiama attorno a sé, in quest’opera, un gruppo tutto sommato esiguo di presenze poetiche, dalla geografia fisica ed esistenziale mirata, e lo fa con sincerità di cuore e parola, non con superficialità di cipria letteraria: Beppe Salvia, Claudia Ruggeri, Amelia Rosselli – lasciamo impronunciata la biografia comune -, Luigi di Ruscio e Lorenzo Calogero, l’amato Leopoldo Maria Panero, ma, sopra tutti, Alfonso Guida. Una grande affinità. Ritrovo queste parole di Carla Saracino sul poeta materano e mi chiedo cosa di più preciso si potrebbe scrivere, in analogia, sulla poesia di Antonio Bux: «[…] nell’isolamento di una terra lucana, sprovvista delle categorie del contemporaneo […] titolare l’inattualità, mostrarne il potere autentico di elevazione, anche quando tutto sembra procedere nella direzione opposta». Lo stesso Bux scrive, in una recensione a L’acqua al cervello è una foglia, di Guida (Lietocolle, 2014), parole che ben si adatterebbero con estrema precisione a Naturario: «È piuttosto una preghiera ferma sul precipizio, la sua poesia, oscillante tra il perdono e il desiderio, quasi necessario, di abbeverarsi alla fonte del male. Alfonso Guida nomina, come in un rosario, i luoghi delle sue morti quotidiane. Lo fa con parole secche, catalogando ciò che vede, ma soprattutto ciò che sogna, o che si svolge nel parallelo della miserevole vicenda umana». Il corposo poemetto Essere meno (Il dentro comune), fulcro del Ciclo dell’acqua, inscena, con ricchezza vocativa, un monologo di Antonio Bux per il poeta di San Mauro Forte, che risulta – libro nel libro – essere uno dei momenti più alti di Naturario.
Come si sarà potuto forse notare dalle citazioni fin qui estratte, il verso di Antonio Bux procede con ritmo sospeso, con le pause che sembrano attendere la parola a venire per meglio accoglierla, pesarla. Il verso tende a interrompersi prima della chiusura sintattica, lo stesso ventaglio lessicale resta compatto e predilige lemmi brevi, la musicalità viene smorzata, il tempo pare rallentare per dare la massima adesione alla narrazione:
Che sia una la notte
e del cielo, che sia una
la promessa, e della
vita. E che sia sola,
e sia una, e che sia
solitaria e apparente.
Perché l’inganno
è crederla, ed è
certezza misteriosa
oh sì, la notte è sola
ed è una, in noi fuori
di noi la notte è dio,
e dio, fuori di noi
è la notte, e noi
fuori di dio, siamo
ancora, la sua attesa
(da Per i Dioscuri, 4, p. 264)
Ci sono anche testi nei quali il verso si distende e accelera, come nel poematico Storie dal diluvio (p. 221) ed altri nei quali si organizza per distici liberi, ma complessivamente vi è una omogeneità forte e consapevole, specie per un’opera così ampia. Sono presenti anche in Naturario, numerosi, i componimenti strutturati con la prima parte in corsivo allineato a destra che caratterizzano la raccolta precedente, Kevlar, circa il senso dei quali è lo stesso Autore a dire «spesso le mie poesie prendono una forma “binaria”, di “poesia nella poesia”, alternando versi in corsivo su margine destro ed altrettanti in tondo su margine sinistro, come a formare un vortice poetico, un rimpallo cercando, più che un rifugio in stile horror vacui, una sorta di sfinimento letterario, un continuo corpo a corpo tra testo e respiro, tra significante e significato. Al lettore chiedo anticipatamente venia per questa mia vana lotta.» È evidente, nel sofferto e appassionante viaggio a cui Naturario invita il lettore, come invece la lotta sia continuata, se possibile, ancora più intensa e urgente. Corpo a corpo, ferita a ferita. Con quanto ancora resta e, nonostante l’offerta, non muore.
Grazie per l’ospitalità allo staff del sito Versante Ripido, e grazie ad Alfredo Rienzi per le belle e impegnate parole nei confronti dei versi di questo mio libro.
Un caro saluto!