La nave fantasma, editoriale di Emanuela Rambaldi

La nave fantasma, editoriale di Emanuela Rambaldi.

   

   

Potrebbe essere riconosciuta tragedia nazionale. Rimanere impressa nella memoria collettiva. Come per gli americani l’assassinio di Kennedy. E chiederci, nel tempo, tu cosa facevi, dov’eri quel giorno? Quella notte?

Potrebbe essere giornata di lutto nazionale, se qualcuno fosse così pazzo da proporlo nel giorno di Natale.
In questa storia non c’è solidarietà. Non c’è pietà. Non c’è salvezza.

La più grave tragedia del mare Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. Fino a Lampedusa, 3 ottobre 2013. Perché non esiste un orrore definitivo.

25 dicembre 1996. 3 de mattino.

Più di 300 persone tentano di entrare clandestinamente in Europa. Due barche entrano in collisione. Una cola a picco. Porta con sé 283 persone. Che finiscono lì. A più di 100 metri di profondità fra Malta e la Sicilia.

30 dicembre 1996.
I superstiti raggiungono le coste greche. E cominciano a raccontare. Non vengono creduti. Vengono arrestati.

5 gennaio 1997.
“La Nave Fantasma” titola il Manifesto. Ne scriverà per giorni e giorni. Sarà l’unico giornale italiano a farlo.

10/11 gennaio 1997.
Circola una lista con i nomi dei dispersi. Il Manifesto pubblica una lista con i nomi di quelli provenienti dal Pakistan. Fornisce i numeri telefonici dove si possono contattare in Grecia. In Grecia ci manda pure un inviato, Livio Quagliata, che comincia a raccogliere le testimonianze. Sri Lanka, India, Pakistan. Viaggi lunghissimi, costosissimi. Le pessime condizioni dell’ultimo tragitto in nave. Il cibo scarso. La tempesta. Le luci italiane in lontananza. Le operazioni di trasbordo effettuate dalla motonave ad un piccolo peschereggio che parte, stracarico di gente, imbarca acqua, sbatte, si squarcia, affonda. Le corde buttate ai pochi che sono vicini. Molti sono in mare, irraggiungibili. I più sono rimasti di sotto, rinchiusi nelle celle frigorifere, quelle dove normalmente si stocca il pesce. E non riescono a risalire.

Poi è tutto un fingere di non vedere.

Nessuna autorità italiana interviene. Nessuna reazione dai media italiani.

Nessun cadavere. Dunque. Nessun naufragio.

Poi c’è il tempo che passa.

2001.
Giovanni Maria Bellu, giornalista di Repubblica, filma il relitto con un robot subacqueo. 108 metri di profondità. 19 miglia da Portopalo. E dentro il relitto, gli scheletri imprigionati.

Dunque. Bisogna aprire gli occhi.

I cadaveri esistevano. Rimanevano impigliati nelle reti da pesca, insieme ai vestiti, alle scarpe, ai documenti. Corpi. E pezzi di corpi. Ributtati a mare.
Per mesi i pescatori hanno selezionato il pescato tra i cadaveri. Tutti lo sapevano. Tutti hanno taciuto.

Poi. C’è un libro, uno spettacolo teatrale, una trasmissione televisiva. Ci sono premi nobel e parlamentari che lanciano appelli per il recupero dei corpi.

C’è un processo.

C’è un primo ministro che fa promesse e non le mantiene.

C’è l’inerzia di tutti i governi che si sono succeduti in Italia in questi 18 anni.

Nessun provvedimento. In questa storia la compassione non esiste.

Con un po’ di sforzo si sarebbe forse potuto tentare di comprendere quale strazio possa essere aspettare per sempre qualcuno che non ritorna. E almeno riconoscere il diritto dei parenti alla restituzione dei corpi.

Oggi. Ci sono ancora i gesti degli ostinati, le manifestazioni per non dimenticare.

Dino Frisullo, nel 2001, scriveva: “Ora gli scheletri riemergono. Ciascuno guardi nel proprio armadio. Se quei corpi saranno affidati a coloro che si sono battuti in questi anni per la verità e la giustizia, se si darà la parola a loro e non solo all’effimero sensazionalismo delle immagini, se saremo capaci di memoria e di rispetto – forse il loro sacrificio non sarà stato vano. Forse siamo in tempo a cambiare strada, ciascuno per la sua parte. Forse.”

Oggi, i 283 fantasmi sono ancora in fondo al mare. O quello che ne rimane.

                               

tn_LAV DIAZ FLORENTINA2 usata nave fantasma

 

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