Nel castagneto di Guido Cavalli, recensione di Angela Caccia

Nel castagneto di Guido Cavalli, Diabasis ed. 2015, recensione di Angela Caccia.

   

   

Poesie che parlano di un’isola felice e inesistente, quindi, un’isola di felici nostalgie.
Ma sarà vero?… Sarà vero che le nostalgie -questo paese che si erge negli anni, forse, ad opera di un dio o del frutto dolce amaro delle nostre esperienze, o del cumulo di una tradizione che comunque si addossa e si fa in noi immanente- siano solo vapori di pura fantasia?
E se invece ci trovassimo di fronte un’altra realtà, altrettanto concreta e tangibile ma con altre mani -come emerge dal sapore di questo dolcissimo libro-, che attraverso le sinapsi dei sensi ci permettesse di interagire e decriptare un fuori che comunque ci sovrasta? (da pagina 25)

Ogni tanto nel fitto c’è più luce.
Se alzo lo sguardo tra i rami si apre
uno scorcio di cielo e più lontano
irraggiungibile vedo una cima
come una fronte scavata dall’acqua
e dal vento, e qualcosa luccicare
lassù. Forse un ricordo o un pentimento?

A pagina 24 il fulcro da cui muove l’intera silloge, la chiave di lettura di liriche che sanno rapire il lettore e lo sbilanciano per poi invogliarlo al suo personale viaggio verso ciò che in noi più fulge tra i ricordi

Nel castagneto

È l’odore dei boschi di castagno.
È la cosa più antica che c’è in me.
Come nel giorno della creazione
lo spirito aleggiava sulle acque
buie ma piene di suoni, colori
tenuti nella mano e sussurrati,
così l’arca del ricordo sembra
vuota ma dentro raccoglie la voce
del pensiero quando parla.

È la dimora del nostro colloquio.
Come le ossa e le membra del corpo
gemendo nel silenzio della stanza
svelano al santo le cose future
e lui prega che il dono gli sia tolto,
così nel folto piegano e sollevano
le schiene scarne degli alberi, e l’aria
tra loro esala come un salmo muto.

È la soglia dell’ultimo saluto.
Come i luoghi raggiunti e attraversati
dal viaggio, come tutte le parole
di tutti i libri e i rari insegnamenti
dei maestri sprofondano al presente,
così il tuo sguardo, mio piccolo padre,
e il ricordo di ciò che non è stato
è l’odore dei boschi di castagno.

È in questo spazio di intime realtà -dove la fantasia può ulteriormente illuminare e mai pregiudicarne l’ esistenza- che si muove Guido Cavalli, in un tono sempre colloquiale tra la sua solitudine stellante e un padre che ritorna, alla mente al cuore, come origine e profondo ammanco (da pagina 12)

«Sempre recente nasce la natura,
mentre il nostro segno è già trapassato.

Ma se curiosità avessi di cosa
andavamo l’un l’altro conversando
seduti sotto il castagno spezzato,
dimmi, a chi mai potrei domandare?»

(da pagina 14)

«Siediti qui accanto a me. Parliamo
un poco. O sono forse per te
un ricordo sgradito? Oggi
che anche tu sei padre, dimmi,
vedi quanta debolezza nelle cose?
Non è per solitudine che ci si uccide
ma per un senso di giustizia».

Calda tazza di camomilla amara
quando ero bambino nella casa di sasso
e i nonni ammaestravano il gatto e la gazza.
Dopo cena in cucina la stufa a legna
scaldava l’acqua per lavare i piatti
e guardavamo la televisione sottovoce.
Poi in camera dalla mia branda
ti ascoltavo recitare il Padre Nostro –
nella sventura avevi scoperto
che c’è una voce indifferente,
una cantilena al fondo del vuoto.

Rimbalza la parola poetica, schizzi di un fiume carsico che riportano in superficie non solo il ricordo di un padre di quelli importanti -quelli che, per intenderci, rimangono faro e paradigma per un’intera vita- ma di tutto un mondo che girava intorno a lui, in quel bosco di castagno (da pag. 28)

Infine a voi, partigiani, che ultimi
abitaste questi luoghi, domando:
se siete saliti sulle montagne
a trovare riparo e a combattere,
era perché le pensavate amiche
oppure spietate più del nemico?
Ma nessuno risponde, e nessuno
è rimasto nei boschi di castagno.
Anch’io rivolgo indietro il mio cammino.
Al limitare del bosco, scendendo
verso le prime case del paese,
l’aria si spezza tra le voci chiare
e l’ombra degli alberi
di sambuco.

Mi piace pensare che l’autore di questo tenerissimo libro, scavando a mani nude nei ricordi, abbia tratto un che di terapeutico nello scriverlo, tanto da ritrovare quella parte di sé, piccola e inerme, capace sempre di sorprendersi: non si ha nostalgia di un paese, di una persona cara, o di un luogo, ma del tempo vissuto in quel luogo, di come eravamo, noi, allora -Kant, Antropologia Pragmatica.
(Da pagina 55)

Ospite, ho abitato la natura
al tempo dell’infanzia, e ubbidiente
ho appreso il suo vocabolario vivo
ancor prima di quello che inerte
sta qui sulla pagina bianca.

Ma come all’esiliato
la lingua madre ripete domande,
rinnova volti e voci del passato
quando è tardi e nessuno ormai attende
una risposta, così sono vuote
oggi le rime battute dai rami
che chinano e sollevano se passa
il vento.

Sarà vero che le nostalgie sono solo i vapori di un’accesa fantasia?… E se invece fossero ciò che ipotizzava Platone nel Timeo, quando parlava del quarto occhio?… Oltre i due, deputati alla vista, e al terzo che si identifica nel sapere razionale, il quarto occhio è la capacità di sognare ad occhi aperti.
Spetta a lui, al quarto occhio, -quando i primi tre ingannano- il compito di farci vedere più di quanto la nostra mente possa realizzare: vedere l’invisibile e concepire l’inconcepibile, ecco quale sarebbe la sua funzione (Rocco Ronchi da Liberopensiero).
E chiudo riportando l’ultima strofa della lirica a pagina 30

Oggi che vivo questo tempo incolto,
cammino insieme a tanti senza parte.
I vecchi sono morti e queste cose
le scrivo senza dover incontrare
il loro sguardo.

A vivere in un “tempo incolto” si fa fatica tutti, impossibile per l’autore incrociare gli sguardi di chi non c’è più, ma il suo verso, così pacato come la voce di una fiaba, ha lasciato che quegli occhi sfavillassero ancora nelle sue poesie.

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