Non avere un tempo, “editoriale” di Claudia Zironi.
La cosa che più pesa è l’espropriazione del tempo proprio, come se non ne avessimo se non valesse che un lampo di fastidio
non foss’altro che una moneta di scambio completamente integrata nell’ingranaggio produttivo e consumistico.
Sempre di meno, sempre più veloce, per non pensare per non soffermarsi nemmeno a immaginare
un differente sistema, chinare il capo, porgere la mano o il cappello
vuoto per mendicare una settimana fuori dalla fabbrica, dall’ufficio, dal supermercato
e in quella settimana fare, fare cose, cose, cose, cosa, come, comprare,
acquistare, divertirsi, viaggiare, riempire e svuotare valigie, vedere gente, mangiare, bere, leggere, dormire, ballare, passeggiare, sorridere,
chiacchierare, scattare foto per il social, accudire i bambini, accudire gli anziani, abbronzarsi
con la protezione 50.
Poi
essere GRATI.
Di averla avuta una pausa, di avere avuto i soldi per farla come si conviene:
frenetica e produttiva.
Di LAVORARE.
Di dover mendicare il proprio tempo porgendo un cappello con la mano,
la stessa mano che lavora.
(ed eccolo Angelus novus non poter più ritrarsi chiudere gli occhi girarsi, chiuderla la mano…)
Di NON AVERE un tempo.
Ringraziare per quarant’anni e poi,
mai espiata la colpa, possibilmente
morire.
Nei meccanismi odierni del potere-lavoro la posta in gioco è proprio questa: l’espropriazione del senso interno del tempo. Il non poter vedere più neanche rovine laddove si sognava un progresso. Il non poter piu scorgere nella nostra storia neanche la più lieve speranza messianica.