“Non sentirsi a casa propria”. La nostalgia come speranza, editoriale di Marinella Polidori.
La condizione di esiliato o di errante ha ispirato grandi opere letterarie; essere lontani dalla propria terra o dalla propria età felice, dagli affetti, da un sé autentico predispone alla nostalgia, ovvero ad un sentimento dalle mille sfumature, da gradazioni di dolcezza sempre più struggente.
La nostalgia spingeva Ulisse a tornare, Proust a ricercare il tempo perduto, Dante ad intraprendere un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba. Viaggi verso luoghi, periodi, oggetti e persone che significano, psicanaliticamente, il recupero della propria identità o di quella base sicura che fu determinante o di cui se ne soffre la mancanza. La nostalgia ha ugualmente segnato il canto delle donne, esuli dalla propria terra , erranti ed estraniate da una millenaria condizione di schiavitù, entro canoni stereotipati e non autodeterminati.
Un sentimento, quello della nostalgia, che delinea paesaggi dai contorni sfumati, dai colori sbiaditi ma che sa definirsi come attività, esercizio di rielaborazione del sé, coscientizzazione ed elaborazione della propria storia per sottrazione, alla ricerca di un nucleo di significazione che ci permetta di superare la crisi che l’allontanamento, inevitabilmente porta con sé. Un percorso a ritroso lungo l’arcipelago della nostalgia, come lo definisce Borgna, che è altra cosa dalla sua patologizzazione, la depressione, e che alimenta l’espressione poetica più intima, dalle eco più profonde. Molte le psicanaliste che hanno trattato l’allontanamento dal sé come percorso a due direzioni, molte poetesse e scrittici hanno cantato Persefone, Penelope, Antigone, archetipi di donne mosse da una “nostalgia” di paesaggi interiori lontani o rimossi.
Nostalgie per qualcos’altro da sé che spinge le donne verso percorsi fondativi o visionari, verso espressività marginali e potenti come quella di Amelia Rosselli, o di Agota Kristof, che di questa condizione nostalgica di apolidi hanno fatto la loro forza, la condizione necessaria a superare i confini dell’io biografico.
Nostalgie spesso rimosse dalle donne ma che inevitabilmente e ciclicamente tornano ad attrarre pericolosamente alla maniera di pozzi e precipizi. E’ Natalia Ginzburg che individua in questa attrazione una caratteristica propria del temperamento delle donne e ne ipotizza una qualche connessione con la loro condizione di schiavitù millenaria.
Molte anche le filosofe che hanno individuato nella condizione di chi è lontano, nella dialettica esilio-speranza il motore del cambiamento, la consapevolezza di un percorso.
Maria Zambrano individua proprio nella condizione dell’esule nel suo esperire il silenzio, la condizione più favorevole alla nascita della poesia, ma anche per Simone Weil è la consapevolezza di essere deracinè a permettere la ricerca di quel senso di radicamento che si rivela come necessario alla rifondazione collettiva del sociale.
Anche il percorso mistico verso la ritualità del sacro di Cristina Campo appare segnato e mosso da una strugente nostalgia per la bellezza di Firenze, città che visse a vent’anni e che non dimenticò mai più.
La nostalgia per i luoghi e le condizioni abbandonate o non pienamente vissute diviene allora il sentimento migliore, la maladie créative dalla quale partire per approdare ad una piena realizzazione, un motore di speranza in grado di cambiare la storia, propria e altrui. Sono tantissime le poetesse “esuli” divenute Cassandre d’occidente, molte tra le grandi Voci dell’est europeo, dalla Cvetaeva ad Agota Kristof, e tante le voci latine e sudamericane che hanno intrapreso discese interiori utili a percorsi di liberazione femminile spinte da una nostalgia del sé; ne “I viaggi di Penelope”, Juana Rosa Pita scrive che è “necessario viaggiare: far volare la penna/per incorniciare la tenerezza racchiusa nei sogni/scialuppa più sottile/concava e agile/delle virili navi di Ulisse/.
E, significativamente, è proprio in spagnolo che la parola “nostalgia”, o meglio “provare nostalgia” añorar, come osserva Milan Kundera, trova il suo etimo nel catalano “enyorar” e nel latino “ignorare”; una “sofferenza dell’ignoranza” che ci spinge verso viaggi, più o meno intimi, di conoscenza.
Una nostalgia, quella di Penelope, che la porta ad esplorarsi; una nostalgia quasi incodificabile quella che proviamo noi donne, una nostalgia non per luoghi ma per noi stesse, perché non ci conosciamo abbastanza, perché ci siamo allontanate troppo dalla nostra essenza (forse la tenerezza racchiusa nei sogni, di cui ci scrive Pita, dal nostro animus, dal nostro “oggetto d’amore primario” kleiniano).
La nostalgia è allora una condizione eticamente fondativa sia per l’uomo che per la donna post-moderni, come afferma Adorno, poiché è da quel “non sentirsi mai a casa propria” da “quel senso di perdita” che può nascere la necessità di “coltivare una soggettività scrupolosa e cioè né indulgente né introversa”.
Nostalgia come speranza anche per il nostro percorso di donne, conoscersi per ritrovarsi, per invecchiare felici , dopo anni di esilio. Nostalgia come speranza per il nostro percorsi di uomini e donne “stranieri a noi stessi”, come conoscenza dell’ “altro da sé”, non fuori ma dentro di noi. MP
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Je rentrerai chez moi.
Dehors, les arbres hurleront, mais ils ne me feront plus peur, ni les nuages rouges, ni les lumières de la ville.
Je rentrerai chez moi, un chez-moi que je n’ai jamais eu, ou trop loin pour que je m’en souvienne, parce qu’il n’était pas, pas vraiment chez moi, jamais.
Demain j’aurai ce chez-moi, enfin, dans un quartier pauvre d’une grande ville. Un quartier pauvre, car comment devenir riche de rien, quand on vient d’ailleurs, de nulle part, et sans désir de devenir riche ? […]
Arrivée chez moi, je serai fatiguée, je me coucherai sur le lit, n’importe quel lit, les rideaux flotteront comme flottent les nuages.
Ainsi le temps passera.
Et, sous mes paupières, passeront les images de ce rêve mauvais que fut ma vie. Mais elles ne me feront plus mal.
Je serai chez moi, seule, vieille et heureuse.
Agota Kristof
(C’est égal, Paris, Seuil, 2005)
Tornerò a casa
fuori urleranno gli alberi, ma non mi faranno paura, neanche le nuvole rosse , né le luci della città.
Tornerò a casa, una casa che non ho mai avuto o troppo lontana perché me ne possa ricordare
perché non è mai stata, mai veramente, casa mia.
Domani finalmente avrò questa casa in un quartiere povero di una grande città. Un quartiere povero, perché come si può diventare ricco dal nulla, quando si viene dal nulla e senza il desiderio di diventare ricco?[…]
Arrivata a casa, sarò stanca, mi metterò a letto, non importa quale, le tende ondeggieranno come nuvole,
così passerà il tempo
e, sotto le mie pupille, passeranno le immagini di quel brutto sogno che fu la mia vita. Ma non mi faranno più male.
Sarò a casa, sola, vecchia e felice.
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Penelope rapper
Fo fatica ad annodarlo il filo
nonostante la perizia e l’attenzione
nonostante l’amore e la passione
nutrita nell’assenza dai miei sogni
in cui gioivo di una mano ritrovata,
riacchiappata nel risveglio subito sfuggita.
E fo fatica ancora sola, nella piazza,
a riacchiappare il filo con Sofia,
mia buona amica, là nell’angolo che invecchia
a ricordare che in viaggio è la speranza e
il suo ritorno, che non serve la mia forza,
che l’imporre serve a poco,
che è più giusta la pazienza
dell’unire uno ad uno tutti i fili sul telaio
rinsaldando quei legami
con la goccia persistente del mio canto ritmato,
da Penelope un po’ rapper, che fatica ma resiste e
che grida il suo
presente.
(Marinella Polidori
“Alfabeto nel silenzio” Lietocolle 2009)
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Lettera all’Altro da sè.
Monologo junghiano
Non mi scrivi io non ti leggo. Prudente e rispettoso, il nostro è un rapporto di vicendevole noncuranza.
Mi canti orizzonte lontanissimo, tuo sogno Altro io, altro che donna, angelo di fatto, altro da me. Mio gemino anch’io, similarmente, sono di carne semplicissima creo dal piacere, difendo o nutro, curo. Lo faccio solo per Amore. L’altro da noi, quel sogno, é pura tua invenzione cui spesso io m’adeguo per il bisogno tenero d’essere gradita, amata.
Mi torco in versi, vero, velo il pensiero quando non s’adegua all’aspettativa e al sogno tuo, lontano. Somiglio esotica al tuo demone, finisco per sillabare in parso, Sibilla e Circe ammaliatrice, se/duco quando vorrei con Te con/durre. Nel gioco dell’Amata e Amante, restiamo coppia senza fusione, minuetto per separate umanità.
Altro da noi sedati, consolati da un mezzo amore, divisi pel comando da millenni.
Scartata l’umanità migliore, cerchiamo in “altri noi” la cura, noi monche fragilità rimaste, noi monconi d’altro. Tu mio altro, non chiedermi parola, ascoltami piuttosto muto e nudo. Nessuna poesia oggi ti dono, porta attenzione. Voglio che da carne nostra si partorisca altro da noi e voglio porre con te, ovunque, premesse finalmente pari per l’ azione.
C’é un altro da noi che, a lungo inascoltato, affila denti di canino e rende stridula la voce. Gemina tua, non sogno, umana e vera, Anima io già vivo in te, giá femmina accogliente, generosa. Altro da me, mio Animus, mi vivi dentro, maschio deciso e giusto, intrepido.
Io altro da te non sono tu altro da me non sei.
L’amore vero esisterà se tornerà creanza e conoscenza, seguendo la nostalgia che tutti abbiamo di Bellezza. Lo straniero da r(i)accogliere non é altro da noi e giace dentro ma inascoltato. Decisi e forti, cave d’affetto umide, il noi è un tutto assieme. L’altro da me non c’é e la conoscenza di questa nostra interna alterità è il presupposto di ogni umana coesistenza.
L’amore vero è mimesi, sinestesia e fusione non minuetto antico. Altro da me scrivendoti t’ho ritrovato in me. Adesso ascoltati e poi scrivimi oppure prova ad ascoltarmi e scriviti.
Tua Anima
(Marinella Polidori)

Che bell’articolo! Voglio racchiudere dentro di me questi versi: “L’amore vero esisterà se tornerà creanza e conoscenza, seguendo la nostalgia che tutti abbiamo di Bellezza. Lo straniero da r(i)accogliere non é altro da noi e giace dentro ma inascoltato. Decisi e forti, cave d’affetto umide, il noi è un tutto assieme. L’altro da me non c’é e la conoscenza di questa nostra interna alterità è il presupposto di ogni umana coesistenza.
L’amore vero è mimesi, sinestesia e fusione”
e questi:
“E fo fatica ancora sola, nella piazza,
a riacchiappare il filo con Sofia,
mia buona amica, là nell’angolo che invecchia
a ricordare che in viaggio è la speranza e
il suo ritorno, che non serve la mia forza,
che l’imporre serve a poco,
che è più giusta la pazienza
dell’unire uno ad uno tutti i fili sul telaio”
“Arrivata a casa, sarò stanca, mi metterò a letto, non importa quale, le tende ondeggeranno come nuvole,
così passerà il tempo
e, sotto le mie pupille, passeranno le immagini di quel brutto sogno che fu la mia vita. Ma non mi faranno più male.
Sarò a casa, sola, vecchia e felice”.
Ho avuto la sensazione di essere entrata in una cattedrale in cui si può essere certi della “santità” che l’animo può raggiungere dopo essersi perso e ritrovato; ma anche la sensazione di aver colto dei buoni frutti su un albero generoso; questi versi infatti sono perle condivise; grazie per questo articolo.
Rosanna Spina