Non siamo come gli eschimesi: il friulano asìno, di Luigina Lorenzini

Non siamo come gli eschimesi: il friulano asìno, di Luigina Lorenzini.

   

   

Bene esprimono, a mio avviso, una caratteristica del friulano – e del dialetto in generale – alcuni versi di Beno Fignon, poeta di Montereale Valcellina vissuto a Milano, persona delicata e squisita che ho avuto il piacere di incontrare, anche se per poco:

De la ródo de la vito
al dialét al à sièlt
de ésse al pernu:
un sió tranquil tocùt de zìru
al é come un tocòn fievril
del sercle esternu

«della ruota della vita / il dialetto ha scelto / di essere il perno: / una sua tranquilla parte di giro/ equivale alla grande parte febbrile / del cerchio esterno».

Il friulano è più essenziale, viscerale, legato alla terra e al mondo della materia. A volte gli appartengono termini che racchiudono in sé una serie di significati, intraducibili in italiano se non con una perifrasi che ne sciupa la magia. «A faliscja»: cadono fiocchi di neve piccoli e asciutti, i primi di una nevicata che inizia, o portati dal vento da una nevicata lontana. Non siamo come gli eschimesi, ma ci sono vari termini in friulano che descrivono diversi tipi di neve.
Scrivo in friulano, nella variante del territorio dell’antica Pieve d’Asio, dove scorre il torrente Arzino: il friulano asìno. È una zona periferica, «laterale», come direbbe il linguista M.G. Bartoli, a tratti dal clima già montano, e proprio per questo ha conservato alcuni suoni che altrove sono mutati o andati persi molto prima, che gli conferiscono una particolare musicalità. Alcuni termini sono poco comprensibili anche ai friulani di altre zone. Questo l’interessante: andare a cercarne i termini particolari, giocare con i suoni. Il friulano nel tempo è stato una lingua essenzialmente orale. La mia ricerca parte dal recuperare i suoni del mio mondo di bambina, delle generazioni passate. È la lingua in cui sono cresciuta, prima ancora dell’italiano, poi in parallelo con l’italiano, ho preso coscienza io stessa di quanto mi appartenesse solo dopo i vent’anni. E apprezzarla mi fa sentire ancor più la bellezza di ogni dialetto. Nell’attenzione di chi scrive poesia lo si sente in modo particolare. Spesso i poeti sanno usare il dialetto in modo da renderlo incantevole.
Il dialetto, la lingua minoritaria, possono dare forza, spontaneità a un testo. Le parole sono meno logorate dall’uso. Ovviamente però restano – devono restare, a mio avviso – il mezzo con cui ci si esprime, non diventarne il fine. O meglio, possono diventarlo, ma si parla allora di una cosa diversa.
Un mezzo che si tratta con cura, cui si vuole bene. È fragile oggi più che mai il friulano.
Lo stesso utilizzarli – il dialetto, la lingua minoritaria – negli scritti, leggerli, contribuisce a preservarli e mantenerli vivi. Perciò è importante farli conoscere anche fuori dalla propria area di appartenenza. Mi è capitato più volte di sentirmi dire: «Non ho capito niente, ma è bellissimo ascoltarne la musica». É un piacere sentirlo. Al tempo stesso, la traduzione in questo è necessaria. È importante farsi comprendere, oltre alla musicalità del suono: le due cose sono complementari. Per quanto ogni traduzione sia implicitamente un tradimento, un adattamento, un «tradurre altrove».
Gli oggetti, i pensieri, il sacro, ci sono un po’ più vicini nominati nella lingua materna.
Un testo nasce in una lingua, è tale perchè è nato in quella lingua. Ci sono testi che non si possono scrivere in friulano, altri che non si possono scrivere in italiano, senza perdere anima. Mi piace però anche farle interagire: sono entrambe lingue che mi appartengono. È come avere più di un mondo in sè.

     

ZITO!

Tu tu fâs fracàš. Vé, al é chel.
Il šdramàš di un mierli co da un barbéi sec di baraz
al ši alča in ∫ual.
No tu štas cuiet, e tu cors
di una banda e di chê âta par reštâ tal cjò puešt.
Âga granda tai clapš, mulignel di riu di Mont Granda.
Tu bu∫inas, tu cjapas denta, tu šbats cun fuarča las ∫ualas
tu jentras denta, tu cji šlargjas, tu šdedrosas e tu štrašinas.

Vé, al é chel. In dut chešt šunšûr
al ši piert
il gno ’jà debol eši uchì.

   

SILENZIO!
Tu fai chiasso. Ecco, è questo./ Lo sconquasso di un merlo che da un intrico secco di rovi/ si alza in volo./ Non stai quieto, e corri/ da un lato e dall’altro per restare al tuo posto./ Acqua in piena tra i sassi, vortice di torrente del Verzegnis./ Urli, travolgi, batti con forza le ali/ invadi, ti allarghi, sconvolgi e travolgi. // Ecco, è questo. In tutto questo frastuono/ si perde/ il mio già fievole essere qui.

A PROPO∫ET DI DIU, E DI FÂ MALTA

Senticji un moment, e šcolta: ce êsel reštât
da las seras e diši ogni sorta di rubas
da las cunfidenzas, dai dolz
fats cuei a cjasa di lui.
Vin cjecarât di credi, capîši, di via ducj la štessa anima
po sin išûts da la puarta:
a lui, siò fi nencja nol j cjecara
ìa no špieta nišun par mangjâ
nos no ši vidìn cua∫i pi.

Ce c’a conta a é noma la vita vera
il rešt a’ son cjacaras* ruštidas in t’una veranda
par torna a fa su ognun il sio mont
di fritulas pi cotas, o croštoi cu las bufulas pi grandas.

Una cjarta dal mont, dal alt
ai son i vuai dai gjats tal soreli.

     

A PROPOSITO DI DIO, E DI IMPASTARE MALTA
Siediti un momento, e ascolta: cos’è rimasto/ delle sere a dirsi ogni sorta di cose/ delle confidenze, dei dolci/ fatti cuocere a casa di lui./ Abbiamo parlato di credere, capirsi, di avere tutti la stessa anima/ poi siamo usciti dalla porta:/ a lui, suo figlio neanche parla/ lei non aspetta nessuno per (iniziare a) mangiare/ noi non ci vediamo quasi più.// Quello che conta è solo la vita vera/ il resto sono chiacchiere fritte in una veranda/ per ricreare ognuno il suo mondo/ di frittelle più cotte, o crostoli con le bolle più grandi.// Una cartina del mondo, dall’alto/ sono gli occhi dei gatti nel sole. 

*chiacchiere, ma anche crostoli 

AL È UN CÊL CUSSÌ PLEN DI ŠTELAS                                                       

Al é un cêl cussì plen di štelas
coma c’ai son noma i cêi d’unvier,
una not cussì nera e clara
coma c’as son noma las nots di ∫enâr,
s’al é Cualchidun, lassù, c’al mi moštri la štrada
parcé co jó no sai pi ce co vuei e indulà,
s’al é cualchidun c’al špieta fôr da la puarta
coma un cjanùt c’ al fâš fiešta parcé co tu tu sos tu,
una mâri tal šcûr c’a cji ven incuintra
la sera tart sot la lûš di un lampion,
dulà c’al é il denta, e dulà c’al é il fôr,
ce co vuej, e indulà co soi
êsel un sum o la sola veretât
che štrada di seda c’a ši disfa belplanc
la ro∫òn a à cussì tantas ro∫ons
co a la fin no ši capìš propit nuia, pi
e che štrada di seda, chê co vin propit denta
a va a finî co no ši la juat pi
nos ši va drez, jìa a a fa∫eva un tornant
vuai puac nets, c’a noi juat ben o ai cjalan tal puešt šbagliât.
Cumò al baštarés šgjarfâ fuart cu las talputas
fâ un bu∫ùt in tal mont o tornâ a fa su il mont di jêr
ma jó no sai propit so ài voia da fâ nuia
i suai moments di pâš ai son a voltas chei co passin durmint.

    

C’È UN CIELO COSÌ PIENO DI STELLE
C’è un cielo così pieno di stelle/ come sono solo i cieli d’ inverno,/ una notte così nera e chiara/ come sono solo le notti di gennaio,/ se c’è Qualcuno, lassù, che mi mostri la strada/ perché io non so più quel che voglio, e dove (andare),/ se c’è qualcuno che aspetta fuori dalla porta/ come un cagnolino che (ti) fa le feste perché tu sei tu,/ una madre nel buio che ti viene incontro/ la sera tardi, nella luce di un lampione,/ dove sta il dentro, e dove sta il fuori,/ cos’è che voglio, e dove sono/ è (solo) un sogno o è la sola realtà/ quella strada di seta che si scioglie piano/ la ragione ha così tante ragioni/ che alla fine non si capisce nulla, più/ e quella strada di seta, quella che abbiamo proprio dentro/ va a finire che non la si vede più/ noi tiriamo via dritti, lei faceva un tornante/ occhi poco puliti, che non vedono bene o guardano nel posto sbagliato/ Ora basterebbe grattare forte con le zampette/ fare un buco nel mondo o ricostruire il mondo di ieri/ ma io non so proprio se ho voglia di fare nulla/ i soli momenti di pace sono a volte quelli che passiamo a dormire.

*

MEZZOGIORNO, VENERDÌ

As son gotas liseras
cuaʃi fermas ta l’aria

šchena tal mûr e vùai ta la ploia
tal fum c’al ši alča

sac par cjera
panèt frìat su la tavola

Denant, parìats blancjas
fin al faši da la not

e ȃtis mûrs, un’ata cjasa da finî
una zornada pi in jù, banda dal soreli c’al naš.

    

MEZZOGIORNO, VENERDÌ
Sono gocce leggere / quasi sospese nell’aria// schiena al muro e sguardo alla pioggia/ al fumo che si alza// zaino a terra/ panino freddo sul tavolo// Davanti, pareti bianche/ fino al farsi della notte// e altri muri, un’altra casa da finire// una giornata più a sud, lato del sole che nasce.

*

FINE LAVORI

E la pâš a sà
di vueit
fier
sul fier
par cjera
ai van cambiaments, invasôrš, rubas novas
a ogni tornâ a cjasa
no sarai pi d’intrìc
a forešcj ta las mês štanzas.

Jovan
ride ora
ha la pelle distesa ora quando mi parla
ha posato la faccia da uomo
e ride con me
degli occhi dolci del muratore
del mio pesante puntiglio da donna
annuisce, e fa come gli pare.

    

FINE LAVORI
E la pace sa/ di vuoto/ ferro/ su ferro / a terra/ vanno cambiamenti, invasori, nuove cose/ a ogni ritorno a casa/ non sarò più d’intralcio/ a sconosciuti nelle mie stanze.// Jovan/ ride ora/ ha la pelle distesa ora quando mi parla/ ha posato la faccia da uomo/ e ride con me/ degli occhi dolci del muratore/ del mio pesante puntiglio da donna/ annuisce, e fa come gli pare.

*

 

Luigina Lorenzini, nata nel 1972, abita a Pielungo di Vito d’Asio (PN). Ha partecipato a serate e mostre, a letture e  raccolte di poesie con i Poeti della Val  d’Arzino, a trasmissioni radio e TV, ha ottenuto riconoscimenti in numerosi concorsi letterari regionali e nazionali. Scrive in italiano e in friulano asìno. Del giugno 2008 il suo primo libro Pavéa un’eštât – La luna tal codâr, scritto a quattro “ali” assieme a Fernando Gerometta (Edizioni Omino Rosso, PN). Del giugno 2009 la prima raccolta di poesie “In cerca di falsamente spietata verità” (Ellerani Editore), vincitrice ex aequo del premio San Vito. Suoi testi sono apparsi nell’ antologia Tiara di Cunfìn (Biblioteca Civica di Pordenone, 2011),  nel catalogo L’Idea e la forma – gli manca solo la parola (2012), nei libri Dagli occhi al cuore e Acqua Aria Terra Fuoco, nelle antologie Notturni di_versi – L’ozio e Notturni di_versi – La Crisi, Piccole storie d’aria, Agenda Friulana, Clapadoria Peravoladoria, l’Almanacco del Ramo d’Oro (2014) e L’Italia a pezzi (2014).  Sempre assieme a F. Gerometta ha scritto e interpretato i testi degli spettacoli:  Tutto l’azzurro del cielo in un unico filo d’erba, DiaLogos, Su la puarta da la not e Era anche Lorena, e scritto i testi delle canzoni giunte in finale al Premi Friûl 2009, al Festival della Canzone Friulana 2010 e vincitrice del premio CEM – Scrivere in musica 2010.

         

William James Glackens, "Central Park, Inverno", ca 1905 - in apertura"La vettura verde", 1910, Metropolitan Museum New York
William James Glackens, “Central Park, Inverno”, ca 1905 – in apertura “La vettura verde”, 1910, Metropolitan Museum New York

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